IL padre di Chika è vivo.
Abita a Tabarre, a quarantacinque minuti di auto dalla missione. A un certo punto ci avevano detto che era morto. Adesso ci dicono una cosa diversa. La madrina di Chika dice che sa come trovarlo.
Non è insolito tra gli orfani di Haiti. A volte gli adulti che ci portano i bambini affermano che i genitori sono morti per aumentare le loro possibilità di essere accettati. Di tanto in tanto, i genitori mandano davvero qualcuno con il loro bambino e lo istruiscono a mentire. Anche se cerchiamo di controllare tutto, non esistono documenti digitali né agenzie che tengano traccia di queste cose. Fai domande. Chiedi documenti. A un certo punto, accetti quello che ti viene detto oppure no.
In occasione del viaggio in cui Chika ha vomitato chiedo ad Alain di portarmi a casa del padre. Zigzaghiamo nel traffico per quasi un’ora ritrovandoci in un paesaggio rurale, agricolo. Parcheggiamo in una strada sterrata. Oltrepassiamo un cancello di legno. C’è un fazzoletto di terra, con un grande albero del pane. È qui che è nata Chika.
E davanti a me si presenta suo padre, Fedner Jeune.
È piccolo e compatto, forse un metro e sessantacinque, con grandi baffi, un sacco di capelli e pesanti borse sotto gli occhi iniettati di sangue, che di rado incontrano i miei.
Parliamo attraverso l’interprete, dopo che Alain ha fatto le presentazioni. Gli chiedo com’è cresciuto. Gli chiedo dell’infanzia di Chika. Risponde a ogni domanda con pochissime parole.
Dice che era presente quando è nata Chika, ma non era a casa quando c’è stato il terremoto. Dice che per mesi lui e la madre di Chika hanno vissuto separati, mentre lui ricostruiva la casa in blocchi di cemento. Conferma che dopo la morte della moglie tutti e quattro i suoi figli sono andati a stare con altre persone. Non sa dire perché.
La casa, che non ha la porta, adesso è costituita di una stanza, con una lampadina nuda come sola illuminazione. Il terreno circostante è punteggiato di piante di fagioli e di banana. L’acqua viene attinta da una pompa. Non c’è il bagno; usano una latrina sulla proprietà di un vicino.
Una donna e un bambino piccolo sono seduti a giocare sotto un albero. Alain chiede se quella donna sta con lui, e lui dice: «Sì».
È qui che giocava Chika? chiedo.
«Là», risponde, indicando con il dito.
È quello il campo dove ha dormito dopo il terremoto?
«Là», indica di nuovo.
Gli chiedo se sapeva che Chika è stata portata da noi quando aveva tre anni.
«Sì, lo sapevo.»
La sua madrina glielo ha chiesto o glielo ha detto?
«Me lo ha detto.»
E gli stava bene?
«A me stava bene.»
Non gli chiedo perché non rivuole Chika, anche se una parte di me urla per avere una risposta. Ricordo a me stesso che non posso conoscere le circostanze della sua vita, o le sue difficoltà. Ricordo a me stesso che ha perso la sua compagna, la madre dei suoi figli. Chi può sapere che impatto ha avuto su di lui?
Gli spiego invece perché sono venuto. Le condizioni mediche di Chika. Di tanto in tanto lui fa segno di sì, anche se non sono certo che capisca. «Qualunque cosa pensa sia meglio», dice, «la faccia.»
Gli spiego che la vita di sua figlia potrebbe essere in pericolo.
«Sarà Dio a decidere», dice.
Gli dico che ho una domanda difficile. Se Chika non dovesse sopravvivere al tumore al cervello, è importante per lui che sia sepolta qui ad Haiti? Odio pronunciare ogni singola parola, mi fa star male fisicamente, ma ho l’impressione di doverglielo chiedere. Forse vorrà far visita alla sua tomba.
«Non importa», dice. «Qualunque cosa ritenga lei.»
Vorrei creare di nuovo un legame tra il padre e la figlia. Ho la sensazione di doverci provare. Una volta Chika mi ha detto di ricordare che suo padre l’aveva portata a prendere un gelato quando era molto piccola. Aveva detto che l’aveva resa felice.
Se lo ricorda? chiedo a Fedner.
«Non l’ho mai portata a prendere un gelato.»
C’è un posto qui vicino dove vendono il gelato?
«No.»
Mi sforzo di portare avanti la conversazione. Non è malvagio. Solo assente. Continuo a pensare quanto sarebbe triste Chika se sapesse che non c’era nessun posto che vendeva i gelati.
Eppure lo invito alla missione. Voglio che veda sua figlia – e che lei veda lui – forse perché, nel profondo, non so se avranno un’altra occasione. Torniamo indietro insieme e quando ci avviciniamo al cancello una parte di me si sente improvvisamente estranea, come se fossi stato spinto ai margini della scena. Nonostante tutto quello che Janine e io abbiamo fatto per Chika, quest’uomo ha dei diritti che noi non avremo mai. È diverso con sua madre, che morendo ha passato un testimone che alla fine abbiamo preso noi. Ma Fedner Jeune è ancora qui ad Haiti. E anche se mi costringo a ignorarla, ho la strana sensazione di essere un surrogato.
Quando arriviamo, Chika sta giocando nel gazebo. È madida di sudore.
«Chika», le chiedo, «sai chi è?»
Lei alza lo sguardo.
«È tuo papà», dico. «Vuoi abbracciarlo?» (Lo dico in inglese per non metterlo in imbarazzo.)
Lei fa come le ho chiesto. Li lascio soli.
Lui si siede su una panchina, con la sua camicia a maniche lunghe nonostante il caldo, e lei gli si mette accanto. Di tanto in tanto li guardo, ma non li vedo mai parlare. Chika gioca con una bambola e lui ha lo sguardo fisso sul cortile. Il sole picchia. Uno dei nostri bambini passa correndo con un «aquilone» fatto con dei bastoncini e un sacchetto di plastica, ma senza vento non si alza.
Dopo due ore, Fedner mi si avvicina, mi stringe la mano e se ne va.