Lezione due
IL TEMPO CAMBIA
RICORDI la prima mattina che ti sei svegliata a casa nostra? Io ero già nel mio studio, perché al mattino scrivo. D’un tratto il telefono si mise a squillare; era la signorina Janine, che chiamava dalla camera da letto. Con la voce roca di chi si è appena svegliata, disse: «Signor Mitch, Chika ha fame e vuole fare colazione. Puoi aiutarla?»
Salii al piano di sopra e ti portai in cucina, dove prendemmo uova, burro, formaggio e pomodori. Ti feci vedere la padella, il fornello, la ciotola, il tagliere e tu stavi in punta di piedi e mi aiutavi con la spatola. Ti versai del succo. Dicemmo le preghiere.
E ti guardai mangiare.
Ti guardai mangiare ancora un po’.
Dire che «te la prendevi comoda» è un eufemismo. Masticavi. Guardavi fuori dalla finestra. Mettevi giù la forchetta, sbadigliavi, e riprendevi in mano la forchetta. Oscillavi avanti e indietro al ritmo di una tua musica interiore. Ci volle quasi un’ora. Lo paragonerei alla velocità con cui faccio colazione io, tranne che io non faccio colazione.
Ma la mattina dopo alle sette, quando sentii il rumore dei tuoi passi che scendevano le scale, mi alzai dalla scrivania, ti venni incontro, ti presi in braccio mentre dicevi: «Signor Mitch, ho fame!» e ti portai in cucina.
Un bambino è sia un’ancora che un paio d’ali.
Il modo in cui facevo le cose prima non c’era più.
Il tempo cambia. Con un piccolino, non ti appartiene più. Ve lo dirà qualunque genitore. Ma forse perché a noi era capitato così tardi – dopo che la signorina Janine e io eravamo vissuti da soli per ventisette anni – la differenza era spiazzante.
Quando decidemmo che non saresti tornata ad Haiti, Chika, non finché non avessimo trovato un modo per sconfiggere quella cosa terribile, ti portammo a casa dall’ospedale con due animali di peluche, una fasciatura sul collo e una valigia piena di speranze ingenue. Non ci rendevamo conto della portata di quell’impresa, del fatto che stavamo accogliendo non solo una bambina ma una sfida… la ricerca a tempo pieno di una cura per una malattia aggressiva, di cui fino a due settimane prima non avevamo mai sentito parlare.
Tu avevi un ritmo. La malattia aveva un ritmo. E da quel momento in poi, tutto quello che sapevamo sul tempo sarebbe cambiato, dal modo in cui lo passavamo al modo in cui lo apprezzavamo.
Lo sai quanti anni ho, Chika? Tu cercavi di indovinare: «Trenta!» E quando dicevo di no, riprovavi: «Cento!» L’età di un genitore può essere un tale mistero per un bambino, che conta la sua usando il mezzo anno («Ho cinque anni e mezzo!»). Ma quando arrivasti noi eravamo vicini ai sessant’anni, abbastanza giovani per avere le nostre abitudini, e abbastanza vecchi da irritarci alla prospettiva di cambiarle.
La signorina Janine si adattò più in fretta di me, e la cosa non mi stupì. Credo che in qualche modo si stesse preparando da sempre a quel momento.
D’altra parte, quando ero più giovane, avevo paura di diventare padre. Vedevo il modo in cui inghiottiva le ore. Temevo che non gli avrei dedicato abbastanza tempo e che avrei finito per essere un cattivo padre. A essere sincero fino in fondo, credevo che avrebbe pregiudicato la mia carriera. Avanzava in fretta e io volevo mantenere quel passo. Non ti ho mai messa in guardia dall’ambizione, Chika, ma ho imparato che piano piano può travolgerti, come nuvole che nascondono il sole, fino a che, completamente divorato da essa, ti abitui a un’esistenza in penombra.
Quando la signorina Janine e io ci siamo sposati, lei sapeva tutte queste cose. Ma credeva in una versione migliore di me, una versione più generosa, e i primi anni cercai di essere all’altezza di quella visione. Eppure fare scorta di tempo diventò un’abitudine. Ricordo che una volta, quando cercavamo di avere un bambino, le proposi di assumere una ragazza alla pari che ci aiutasse a prendercene cura. La signorina Janine si rifiutò. Anzi, si arrabbiò, una cosa che le succedeva di rado. Mi chiesi perché non volesse un aiuto, senza capire che la feriva che suo marito stesse già pianificando di stare lontano da un bambino che ancora non c’era.
Quando mi guardo indietro, Chika, mi accorgo di essere stato uno stupido in tante cose.
E poi sei arrivata tu, con il tuo modo di fare le cose senza fretta. Avevi cinque anni, ma eri così curiosa, come se le pagine della tua vita fossero state messe insieme ma non ancora girate. Se vedevi degli scoiattoli arrampicarsi su un albero, urlavi: «Scoiattoli!» poi chiedevi dove stavano andando, poi chiedevi se potevano vederti. Avevi domande sui libri. Sul cibo. Sulle nuvole e sugli angeli. Passavi in rassegna tutto il contenuto del tuo armadio prima di vestirti.
«Le calze rosse vanno bene», dicevo, cominciando a spazientirmi.
«Penso che voglio quelle verdi.»
«Quelle verdi vanno bene.»
«No, aspetta, aspetta. Quelle azzurre.»
Non avevamo molta scelta, così rallentammo i ritmi. Ci accucciammo per guardare le cose dal tuo punto di vista. Spesso ti trovavo seduta per terra vicino alla finestra sul retro, intenta a osservare il giardino. Ricordo una volta in cui Morrie, il mio vecchio professore, indicò la finestra e disse che la apprezzava più di me perché, a causa della sua malattia, era la sua finestra sul mondo, mentre per me era solo un pannello di vetro.
Anche tu apprezzavi una finestra più di me, Chika, e tutte le cose straordinarie che c’erano dall’altra parte. Fui costretto a rallentare per mettermi al passo con la tua meraviglia, a tirare il freno nella mia vita, ad andarmene prima dalle cene perché per te era ora di dormire, ad arrivare tardi al lavoro perché dovevo portarti da qualche parte, a scusarmi di continuo con capi e editori per l’improvviso rallentamento nelle consegne.
Ma lo feci. E lo stesso fece la signorina Janine. E ci ritrovammo a studiarti, sempre più affascinati. Ci davamo di gomito quando applaudivi un film o ballavi intorno al tavolo, ignara del nostro sguardo. Se ti addormentavi in braccio a me, ti tenevo stretta a lungo mentre la signorina Janine ti accarezzava i capelli. Non so quante ore abbiamo passato solo a guardarti, Chika, ma sono state tante e tutte preziose.
Prima che arrivassi tu, guardavamo la televisione a letto e spesso ci addormentavamo con l’apparecchio acceso. Dopo il tuo arrivo, spegnevamo le luci e camminavamo in punta di piedi, al buio. Capitava di frequente che ci svegliassi nel cuore della notte.
«Signor Miiiitch?»
«Mmm?»
«Devo andare in bagno.»
Ti portavo in bagno e poi aspettavo sulla soglia sbadigliando. Sentivo che tiravi l’acqua, ti aiutavo a lavarti le mani e poi ti riportavo a letto, che era grazioso e basso, così potevi buttartici dentro facilmente.
«Tutto a posto?» sussurrava la signorina Janine quando mi infilavo di nuovo sotto le coperte accanto a lei.
«Sta bene», borbottavo, chiudendo gli occhi. «È brava.»
La cosa più preziosa che puoi donare a qualcuno è il tuo tempo, Chika, perché non potrai mai riaverlo indietro. Quando non ti preoccupi di riaverlo indietro, l’hai dato per amore.
L’ho imparato da te.
* * *
Comunque. A proposito del tuo letto. Potrebbe sembrare strano, ma quando sei arrivata non sapevamo dove metterti. Non è che avessimo avuto mesi per organizzarci. La nostra casa, in cui abitavamo da quasi venticinque anni, era strutturata tanto quanto lo eravamo noi. Le stanze degli ospiti erano al piano terra. Non potevamo metterti così lontana da noi. Ma eri troppo grande per una culla.
Alla fine comprammo un materasso gonfiabile, gli mettemmo le lenzuola di Frozen e coperte colorate e lo sistemammo ai piedi del nostro letto. La prima notte che hai passato con noi mi dimenticai che c’eri. Mi alzai per andare in bagno, inciampai e finii lungo disteso sul pavimento.
Alla fine mi abituai. Nel buio dovevo ricordarmi di fare quattro passi in più prima di girare a sinistra, e lo stesso tornando. Presi anche l’abitudine di chinarmi su di te per controllare la tua sagoma minuta adagiata tra i cuscini, il tuo respiro lieve così diverso dal mio.
Ricordi il giorno in cui sono tornato a casa e ho trovato te e la signorina Janine che ridevate maliziose? E la signorina Janine ha detto: «Chika, come fa il signor Mitch quando dorme?» E tu hai prodotto un rumore, come un russare, che faceva venire in mente un leone che vomita una palla di pelo. E io ho sorriso come uno sciocco e ho detto: «Fantastico, adesso ci sono due orecchie in più ad ascoltarmi».
Be’, ovviamente era vero. Due orecchie in più, due occhi in più e braccia e gambe, un letto in più che dovevamo aggirare. Questo è quello che cambia insieme al tempo: lo spazio.
Prima di te, Chika, eravamo una coppia. Adesso eravamo un trio. L’auto passò da una coppia sposata sui sedili anteriori a te e la signorina Janine sedute dietro con me davanti, al volante, a fare da autista. I tavoli per due diventarono da quattro con in più una decisione da prendere: chi di noi si sarebbe seduto accanto a te per aiutarti a tagliare il cibo? Ci allargammo in tutti i sensi, e diventò rapidamente la norma.
All’improvviso, tre. Tre posti al cinema. Tre posti in un negozio di scarpe, o in una sala d’attesa o nello studio di un dentista.
E tre posti alla clinica di radioterapia del Beaumont Hospital di Royal Oak, Michigan, un lunedì mattina, quando si presentò un’infermiera a chiedere se eri pronta a indossare un «casco speciale» e tu ti stringesti nelle spalle dicendo: «Sì». Ci alzammo e ci avviammo insieme per un lungo corridoio tenendoci per mano, uno, due, tre, e ci gettammo nella mischia.