Noi
CHIKA? dico.
Non la vedo. Ma sento una risata soffocata.
Mi alzo dalla sedia. Giro per la stanza. È l’inizio di settembre, è passato più di un mese da quando è venuta a trovarmi l’ultima volta.
Dov’è Chika? dico.
Era un gioco che facevamo spesso. Trovare Chika. Quando sentiva aprirsi la porta d’ingresso si nascondeva, sotto una coperta o sotto il tavolo della cucina, e tu dovevi urlare: «Dov’è Chika? L’abbiamo persa! Dove si sarà cacciata?» finché dalla tua voce traspariva panico sufficiente da indurla a saltar fuori e strillare nel suo inglese approssimativo: «Ecco me!» Poi scoppiava a ridere come una matta, dimenandosi tutta. Non ho mai visto un bambino più felice di essere scoperto.
Adesso, a quanto pare, sta facendo di nuovo questo gioco.
Dov’è Chika? canticchio. Dov’è andata?
Vedo una coperta stesa sul futon dove certe volte dormo quando scrivo fino a tardi. Afferro la coperta. Uso un tono giocoso.
È… qui sotto? dico, tirando via la coperta.
«Nooooo», risponde dall’altra parte della stanza.
Mi giro. È in piedi accanto alla mia scrivania e legge il blocco giallo. Perciò immagino che il gioco sia finito.
«Che cosa vuol dire?» chiede. «‘Il tempo cambia’?»
È la seconda cosa che mi hai insegnato, dico. La seconda lezione sulla lista che hai voluto che facessi.
Scosta la sedia della mia scrivania.
«Scrivilo.»
Poi si lascia cadere sulla sedia e ride.
Devo sedermi lì per scrivere, lo sai.
«Lo so», dice e scoppia di nuovo a ridere.
Fa ruotare la poltroncina girevole. «Vrrrrr! Vrrrrr!» All’improvviso ha in mano la coperta del futon. Se la mette in testa.
«Dov’è Chika!» strilla.
Sospiro.