Noi
IL Capodanno passa e Chika non si fa vedere. Vado ad Haiti per le vacanze, come faccio sempre, e festeggiamo accendendo le stelline e cantando Il valzer delle candele. I bambini scrivono i buoni propositi su un blocco che infilo in una busta. («Aiuterò a pulire il cortile…» «Non parlerò in classe…») La apriremo dopo dodici mesi per vedere come si sono comportati.
Il giorno di Capodanno viene servito un piatto speciale, soup joumou, una prelibatezza fatta con zucca invernale, patate, verdure, cipolla, aglio e pezzi di manzo. Alla fine del Settecento la zuppa era proibita agli schiavi e viene consumata il primo gennaio per commemorare la rivoluzione haitiana che ha portato all’indipendenza nel 1804. In tutto il Paese le famiglie, non importa quanto povere, mangiano la zuppa in una tradizione orgogliosa, un assaggio letterale di libertà. Alcuni dei bambini sono abbastanza grandi da coglierne il significato. I più piccoli sono solo felici di quel piatto prelibato.
Tutte le sere, dopo le preghiere, cantiamo una canzone per ricordare Chika. È L-O-V-E di Nat King Cole, che lei cantava a squarciagola in giro per casa. Anche i bambini cantano a pieni polmoni, seguendo le parole e battendo le mani quando il testo dice che V is very, very – clap! – extraordinary. Alla fine della melodia urlano tutti insieme: «Uno-due-tre, buonanotte, Chika!»
Quella sera vado nella stanza delle piccole. Il letto di Chika è ancora vuoto. L’ultima volta che l’hanno vista è stato in occasione di quella visita smozzicata quando la febbre e il vomito l’avevano resa l’ombra di se stessa. Non è mai più tornata. Forse è stato un bene. Dire addio per un bambino non è mai facile.
Al mio rientro, in Michigan nevica e la mattina accendo il fuoco nel caminetto. Quando mi giro vedo Chika strisciare fuori da sotto la mia scrivania, con un paio di pantaloncini azzurri e una maglietta a righe bianche e rosse.
«Arrrrrgggghh!» urla con le dita piegate ad artiglio.
Buongiorno, bellissima bambina, dico.
«Uffa!… Volevo coglierti di sorpresa.»
Ci sei riuscita.
«E allora perché non hai urlato?»
Scusa, dico. Cosa ci facevi là sotto, Chika?
«Oh.» Si studia le unghie. «Lo sai. Cercavo.»
Cercavi cosa?
Sospira e inarca le sopracciglia.
«Le porte delle fate! Cosa, se no?»
* * *
Al Mott Hospital c’erano le porte delle fate. Lo sapevamo perché c’eravamo stati un mucchio di volte, compreso il giorno dopo che Chika e io eravamo tornati da Haiti. Era caldissima, apatica e aveva il respiro corto, così l’avevamo portata al pronto soccorso di un ospedale vicino a casa, ma dopo averle controllato l’emocromo e averle fatto diversi altri esami, un medico confessò di non avere familiarità con i farmaci che prendeva e ci aveva consigliato di andare subito al Mott, dove conoscevano il suo caso.
«Potrebbe essere una cosa seria», disse.
Janine aveva pianto sull’ambulanza, mentre io le seguivo con la macchina ad Ann Arbor; parlammo al telefono per tutto il tragitto. «Hanno detto che potrebbe essere setticemia», sussurrò Janine.
«Non lo sappiamo», dissi, cercando di restare calmo.
Alla fine scoprimmo che il problema, e il motivo per cui Chika si era trascinata per tutta la sua ultima visita ad Haiti, era un’infezione del sangue… causata dal port su cui i medici avevano insistito. Non si sa come, i batteri avevano infettato il port l’unica volta che lo avevano usato.
Trascorse nove giorni in un letto d’ospedale, lottando contro una febbre ostinata, mentre le facevano esami di tutti i tipi, dalla meningite alla tubercolosi. Un nodulo al polmone fece sospettare un’embolia settica. Le cambiarono gli antibiotici e poi glieli cambiarono di nuovo. Furono fatte e studiate colture di laboratorio. Tutto a causa dei batteri che le erano entrati in circolo attraverso ciò che Janine da lì in avanti avrebbe definito «quello stupido port», che ovviamente fu subito rimosso.
«Non ho mai voluto quell’affare», borbottò Janine.
Ebbi l’impressione che stesse dando la colpa a me.
«Cosa avremmo dovuto fare?» dissi.
«Sono nove giorni che è qui, Mitch. Guarda com’è debole.»
«Ma non riuscivano a trovarle una vena!»
Lei mi voltò le spalle.
«Cosa avremmo dovuto fare?» urlai.
Più Chika peggiorava, più Janine e io litigavamo. Non c’è da stupirsi. Avere a che fare con la malattia di un bambino e chiedersi di continuo se si sta facendo la cosa giusta è profondamente stressante. Ti senti perso. Ti manca il terreno sotto i piedi. Uno dei due può sentirsi sicuro quando l’altro non lo è, e questo provoca rabbia. Passavamo metà del tempo a litigare per convincerci che ci fosse speranza.
La situazione finì per riflettersi anche sulle piccole cose che riguardavano Chika. Io pensavo che una certa attività fosse appropriata; Janine diceva che non lo era. Pensavo che un certo programma TV fosse adatto, Janine no. Bisticciavamo sugli antibiotici, l’alimentazione. Janine diceva: «Non voglio che provi questo». E io ribattevo, di nuovo: «Cosa dovremmo fare, niente?» Penso che si riducesse tutto alla stessa cosa: il timore di fare la mossa sbagliata, o di non fare quella giusta. La paura di quello che sarebbe successo dopo.
Vederci discutere addolorava Chika. Lei voleva solo che andassimo d’accordo. Ci interrompeva urlando: «Ok, ok, ok, ok!» e agitava le mani come un arbitro.
Poi ci fu quella sera in ospedale in cui Janine e io eravamo irritati per qualcosa. Io scuotevo la testa ripetendo con rabbia: «Non ci posso credere».
Chika ci chiamò dal letto: «Di cosa state parlando voi due?»
«Di niente, Chika», dissi. «Non preoccuparti.»
«Ma sembra triiiiste.»
Mi avvicinai. «Sì, certe volte nella vita le cose sono tristi, e certe altre felici. Come te. Tu sei una cosa felice. Ci rendi felici.»
Mi lesse la frustrazione in faccia e si mise a piangere.
«Perché piangi, Chika?»
«Perché», bisbigliò lei, «non so come.»
«Non sai come, cosa?»
«Rendervi felici adesso.»
Fu l’ultima volta che parlammo di cose del genere davanti a lei. E fu anche il momento in cui Janine e io iniziammo a renderci conto che, in fondo, eravamo solo lei e io. Avevamo letto che molte coppie finivano per divorziare, dopo aver perso un figlio. Eravamo decisissimi a evitarlo. E così smettevamo di discutere prima di ferirci troppo. Uno dei due borbottava: «Mi dispiace, va bene?» E l’altro diceva: «Sì, spiace anche a me», poi prendevamo un bel respiro e ci preparavamo a quello che sarebbe venuto dopo.
Quando riportammo a casa Chika dal Mott Hospital, la battaglia contro l’infezione l’aveva prostrata. L’andatura era peggiorata. Parlava più lentamente. E aveva un nuovo compagno, il PICC, un catetere centrale a inserzione periferica che le spuntava dal braccio destro e che permetteva di prelevarle il sangue e somministrarle i farmaci. Dovevamo somministrarle gli antibiotici tre volte al giorno attraverso quel dispositivo. Era protetto da una piccola guaina e non poteva essere bagnato, il che significava che la doccia era una faccenda delicata e nuotare, una cosa che Chika adorava, fuori questione. Era estate, tempo di piscine, e sembrava così ingiusto.
Chika era contentissima di essere a casa. Tornò nel suo letto ai piedi del nostro. La prima mattina del suo ritorno Janine si alzò per andare a sdraiarsi accanto a lei. Si misero a bisbigliare e di lì a poco stavano parlando dell’argomento preferito di Chika: i matrimoni. Janine le chiese dove pensava che avrebbe conosciuto il ragazzo che avrebbe sposato.
«In un ristorante», rispose Chika.
La sua immaginazione mi strappò una risatina. Poi mi resi contro che Janine e io ci eravamo conosciuti in un ristorante. Una volta gliel’avevamo raccontato. Sul serio. Ricordava tutto.
Va bene. Le porte delle fate. Sono porticine di legno, alte forse quindici centimetri, inserite negli zoccolini in vari punti del Mott Hospital. Quando le apri, dentro trovi una vignetta con i personaggi dei cartoni animati. Campanellino. Una principessa. La gente è incoraggiata a lasciarci delle monete, una sorpresa per i piccoli pazienti che abbassano il minuscolo pomello.
Chika era ossessionata da queste porte. Insisteva per cercarle anche se era attaccata alla flebo. Quando scoprivo dove ce n’era una, la raggiungevo di nascosto – dicendole che andavo a cercare le fate – e ci mettevo un dollaro.
«Guarda, mille dollari!» diceva Chika, quando apriva la porticina. (Non le abbiamo mai insegnato il valore del denaro.) Mi metteva in mano la banconota e iniziava a cercare un’altra porta.
Guardandola mentre, piena d’ottimismo, cercava le porte delle fate, e passando davanti a stanze dove vedevo genitori con la testa tra le mani, capii una cosa importante: la speranza è fondamentale. È quasi obbligatoria per i soldati nei momenti difficili. Al contrario, la sofferenza più grande è la disperazione. Credo sia peggio di qualunque sofferenza fisica.
Non potevamo proteggere Chika dal tumore, o dal dolore e neppure dalla sua mortalità. Ma ci sforzavamo di proiettare un alone di positività, di lasciar intendere che noi – i medici e gli infermieri – sapevamo cosa stavamo facendo, che la vita era ancora colma di tesori da scoprire. La disperazione può essere contagiosa. Ma anche la speranza, e non esiste medicina in grado di starle alla pari. Il fatto che Chika credesse in noi ci aiutava a crederci a nostra volta.
Avrai un avvenire e la tua speranza non sarà stroncata. Così c’è scritto nel Libro dei Proverbi. Cercavamo con tutte le nostre forze di vivere così, di credere in qualcosa di buono dall’altra parte di tutte quelle porticine che Chika apriva.
«Signor Mitch?»
Sì?
«Dove sono le tue porte delle fate?»
Non ce ne sono qui. Ci sono solo all’ospedale.
«Noooo.»
Le hai viste da qualche altra parte?
«In un sacco di posti.»
E dove?
Mi appoggia i gomiti sulle ginocchia e si picchietta l’indice sulla guancia. Deve averlo visto in un film, il gesto di una persona che sta pensando.
«In Germania», dice.