Tu
UN giorno tornai a casa e ti trovai che giocavi a carte con la nostra amica Nicole. Tu pescavi una carta e lei pescava una carta, e faceva una battuta e tu ridevi. Sembrava perfettamente normale, tranne che Nicole aveva trentotto anni più di te.
Ed era una delle tue compagne di gioco più giovani.
Andavi in campeggio con i nostri amici Jeff e Patty, che erano già nonni. Le sorelle della signorina Janine, Kathy e Tricia, entrambe ultracinquantenni, ti portavano a pitturarti le unghie. La nostra amica dottoressa Val, che aveva più di sessant’anni, ti portava da lei a giocare con il suo cane.
Avevi una rete di compagni che aveva da due a cinquant’anni più di te, e anche se erano soprattutto nostri colleghi o parenti, tu li chiamavi «i miei amici». Eri bravissima a legare con chiunque conoscessi; l’impressione che facevi era tale che chiedevano tutti se potevano rivederti. C’era Margareth, un’infermiera case manager di origini haitiane; e Lyn e Carmella, due massaggiatrici; e Anne-Marie, nostra cognata; e Frank, Mark, Marc e Jordan, che lavoravano con me. Insegnanti di yoga, proprietari di gastronomie, musicisti, infermiere. Eri un’incantatrice di adulti, molti dei quali avevano figli ormai grandi che se n’erano andati e con te potevano rituffarsi brevemente nel mondo meraviglioso delle anime infantili.
Ovviamente avresti preferito dei coetanei. Se la signorina Janine e io avessimo avuto l’età normale dei genitori, i nostri nipoti sarebbero stati tuoi compagni di giochi. Ma ormai erano cresciuti. Cercavamo di portarti in posti dove c’erano altri bambini: luna park, eventi della chiesa, feste in qualche parco del posto. Ma certe volte gli altri bambini non sapevano che farsene di te e dei tuoi problemi, e così tornavi da noi per dirci: «Non vogliono giocare con me».
Ti sforzavi così tanto. Ti univi a una danza di Halloween. Offrivi servizi da tè alle altre bambine. Ma con i bambini che non conoscevi ammutolivi, proprio tu, e ti limitavi a porgere quello che avevi in mano, e loro delle volte lo prendevano e se ne andavano. Osservavo il tuo sguardo assente, sperando che sarebbero tornati. Mi spezzava il cuore.
Ti mancava la scuola. Cercammo di ricrearla ma con i continui controlli medici non potemmo fare altro che istruirti a casa con lezioni mandate da mia sorella, la signorina Cara, che dirige la scuola all’orfanotrofio, e amici come la signorina Diane, un’insegnante in pensione che sedeva accanto a te per ore insegnandoti ortografia e matematica. Ti mettevamo perfino l’uniforme scolastica haitiana, maglietta viola, gonna blu scuro, calze bianche e scarpe nere, per farla sembrare la missione.
Ma non era la missione. La missione avrebbe significato decine di bambini che ridevano, schiamazzavano e correvano in classe, non un solitario tavolo di cucina che dava sul giardino.
Naturalmente avevi fatto amicizia con alcuni bambini anche da noi. Uno di loro era nostro nipote Aidan, che quando sei arrivata aveva otto anni e che ti si era affezionato subito. Un ragazzino tranquillo, educato, con folti capelli castani indocili al pettine, che giocava a qualunque gioco tu volessi e guardava qualunque cosa tu volessi guardare. Dopo un po’ di mesi era piuttosto chiaro che, come diceva mia nonna, ti eri presa «una cotta» per lui. Ti mettevi in ghingheri, quando veniva a trovarti. E quando arrivava diventavi timida. Più tranquilla, quasi deferente.
Una volta vi portai in una sala giochi vicino a casa e cambiai una banconota da dieci dollari in monete da un quarto che misi in alcuni bicchieri di carta. Se fossimo stati solo tu e io, avresti cercato di prenderti anche il mio bicchiere, per scherzo. E invece, hai guardato Aidan e hai detto: «Ne ho troppi», e hai versato metà del tuo bicchiere nel suo.
Tu e Aidan facevate gite in barca insieme e andavate all’acquario, e una volta a casa sua avete ballato su un video di Cha Cha Slide, e quando lui è caduto tu gli hai rifilato una sberla sul sedere.
Quando parlavi di diventare grande e sposarti, cosa che facevi in continuazione, per prenderti in giro nominavamo Aidan e tu facevi un sorrisone sciocco oppure dicevi: «Non so…» o «Magari…»
Poi una notte d’estate, dopo più di un anno che eri con noi, quando ormai facevi fatica a camminare, non muovevi più l’occhio sinistro e le terapie consistevano nello stare seduta per ore con un ago nel braccio, eri sdraiata a letto dopo aver appena visto un film di principesse. E mi hai chiesto se un giorno avresti potuto sposare un principe.
La signorina Janine suggerì: «Che ne dici di Aidan? Non è un principe, ma è molto carino. Vorresti sposarlo?»
Tu hai fatto una faccia. «Aidan non sposerebbe una come me.»
Ci scambiammo un’occhiata.
«Perché dici così, Chika?»
«Perché Aidan non sposerà una ragazza che non riesce a camminare.»
Lo avevi detto con tale innocenza, come un dato di fatto, che ci lasciò senza fiato. E mentre ci riprendevamo per mettere insieme la risposta adulta standard, che l’amore non si cura della malattia o della salute, dentro eravamo sconvolti perché avevamo visto in te, malata com’eri, una cosa che ci spaventava a morte riconoscere in noi stessi.
L’accettazione.