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Key West, Florida.

Martedì 16 marzo. Ora locale 15:30.

 

In piedi, in precario equilibrio sul parapetto della terrazza, il Settimo Oracolo osservava il paesaggio sotto le palme ondeggianti. Le barche nel porto beccheggiavano con insistenza e nubi cariche di pioggia, accompagnate da venti impetuosi, si avvicinavano minacciose alla costa. Sarebbe bastato un refolo più potente per spingerlo di sotto. E forse era proprio ciò che attendeva, incapace com’era di spiccare un salto con le sue forze.

Aveva trascorso gli ultimi mesi nella sua tenuta coloniale su Whitehead Street, poco lontana dal faro e vicinissima, in linea d’aria, alla casa che era stata di Ernest Hemingway. Quando, tra le molte proprietà sparse nel mondo, aveva deciso dove andare – in attesa che le sue cavie fossero pronte – aveva scelto Key West proprio a causa dell’autore del Vecchio e il mare. Non perché amasse particolarmente i suoi scritti, che spesso trovava stucchevoli, ma perché lo scrittore condivideva con lui un grande amore per i gatti.

E non gatti qualunque: fin dagli anni Trenta in quelle terre i felini erano particolari, polidattili, con sei o più dita per zampa. Giuseppe Verdi non credeva quasi mai alle coincidenze. Non credeva che gli scheletri del Wisconsin fossero stati trovati per caso così come non lo pensava per la tomba del dio Osiris. Allo stesso modo non credeva neppure che le colonie di gatti di Key West fossero lì per caso. Stabilirsi in quella casa gli era sembrato quindi di buon auspicio.

Si sbagliava. La sua intenzione iniziale di attendere lì che la marea passasse, in attesa di riunire il Bohemian Grove e ricominciare il Progetto Fenice altrove, si era infranta come una bottiglia sugli scogli. I suoi propositi erano andati in pezzi a causa delle mosse astute di Michail Rodchenko. Il russo era riuscito inaspettatamente a sviluppare un nuovo vaccino, a diffonderlo e, malauguratamente, a fermare l’epidemia. I cinquecento milioni di cavie, il frutto della sua selezione, non sarebbero più arrivati… La conseguenza, terribile per il suo ego, era soltanto una: il Settimo Oracolo avrebbe taciuto e il messaggio dei creatori sarebbe rimasto nascosto per sempre.

 

«Ce ne avete messo di tempo!», esclamò, evitando di voltarsi.

«È un piacere conoscerla senza quel vetro in mezzo», proclamò Gutierrez, avanzando sulla terrazza. Sforza e Veneziani si sistemarono a semicerchio, per impedire all’anziano di fuggire. Ma era chiaro che non ne aveva la minima intenzione: da quella posizione si dominava abbastanza bene il porto, dove il Fenice spiccava tra le tante imbarcazioni ormeggiate. Verdi lo aveva riconosciuto?

«Vi stavo aspettando in effetti…», chiarì ancora l’Oracolo, lo sguardo che ora vagava nervoso sull’orizzonte grigio. «Sapevo che Zer vi avrebbe indicato la strada!».

«Una mappa del tesoro un po’ complicata in effetti», gli replicò ancora Gutierrez. «Tredici tenute tra isole private e ville. E tutto solo nel Golfo del Messico».

«Eppure mi avete trovato».

Sforza annuì, facendo cadere lo sguardo sul gattone tigrato che dormicchiava su una cassapanca di vimini. Le zampe esadattile erano visibili anche a occhio nudo.

«Siete qui per il messaggio, non è vero?». L’anziano lo disse in tono pacato, sempre in bilico sulla balaustra. Ondeggiava pericolosamente avanti e indietro.

«La dottoressa Efimova ci ha detto del vostro prelievo sul bambino», rispose Veneziani. «La ricerca è cominciata, no?». Anche se era difficile che Verdi fosse già riuscito a trovarlo, la promessa fatta al cardinale Vonn di distruggere il vero messaggio era stata la scusa ufficiale del loro viaggio. La vera ragione della missione era tuttavia un’altra: un incarico segreto del Tribunale internazionale dell’Aia.

La settimana precedente un uomo in abiti militari era attraccato a Little San Salvador Island per parlare con Gutierrez e soci. Sapeva che loro erano in possesso di informazioni per rintracciare Verdi e avrebbe voluto indicazioni sulla sua posizione. L’americano, supportato anche da Nobile, Sforza e Veneziani, si era però rifiutato di collaborare: se c’era qualcuno che doveva concludere quella missione, aveva chiarito, schietto, erano solo loro quattro.

Avevano negoziato per ore e poi, alla fine, si erano accordati su un’alternativa accettabile per tutti: con il benestare del Tribunale internazionale sarebbero andati personalmente dal capo dei Tredici. Senza scorta militare sarebbe stato più facile avvicinarlo e assicurarlo alla giustizia.

«Uno, come diecimila anni!», ruggì il vecchio.

«Cosa?»

«Non sono parole mie, ma del vostro amico Rodchenko: uno, come diecimila anni è il tempo che serve per cercare schemi non causali nelle sequenze nucleotidiche. Per trovare il nostro messaggio». Fece una pausa, alzando il mento e lasciando che il vento proveniente dal mare si insinuasse tra le sue braccia. «Stiamo cercando un granello di sabbia in mezzo all’oceano. Se avessimo avuto più cavie disponibili…».

«Si sta lamentando perché abbiamo salvato il genere umano?»

«Sto solo dicendo che se non fosse stato per voi adesso, forse, l’umanità conoscerebbe il messaggio dei nostri creatori». Si voltò per la prima volta e lanciò un’occhiata vuota verso i tre. Era una maschera di tristezza, la rassegnazione fatta persona.

Seguì un lungo silenzio, rotto solo da un’imposta di legno che mossa dal vento urtò il battente.

«Ammesso che esista un messaggio da trovare…», mormorò Sforza.

«Come immaginerà, siamo qui per una ragione», incalzò Gutierrez, poggiando la mano sulla fondina della pistola. «Lei e il suo amico Greenidge siete accusati di crimini contro l’umanità e dovrete essere giudicati per questo».

L’Oracolo tornò a dargli le spalle. Rise di gusto, ondeggiando in avanti.

«Crimini contro l’umanità, avete detto?»

«Un miliardo di vittime!», lo apostrofò ancora Gutierrez. «Lei è il peggior criminale della Storia».

Verdi ignorò l’americano e il sorriso gli si spense sulle labbra. “Ogni vero genio è incompreso dai suoi contemporanei”. Lo sapeva bene.

Si sporse avanti, vacillando.

«Non lo farà», lo schernì Sforza. «Non si butterà. Non avrebbe atteso fino a ora».

L’anziano scosse il capo. Una folata d’aria gli sollevò la camicia di lino.

Una sola cavia esaminata.

Uno, come diecimila anni.

Nessuno di loro aveva tanto tempo…

Era vero, se Sforza e soci non fossero arrivati, probabilmente non avrebbe trovato la forza di buttarsi. La consapevolezza del suo fallimento – più che l’evenienza di essere giudicato da un tribunale – gli infusero però il coraggio che cercava. Tutto era perduto.

Guardò per l’ultima volta il suo gatto, si spinse in avanti e si lasciò cadere nel vuoto.