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In volo sul Parque nacional do Jaú, Amazzonia.
Contemporaneamente.
Ora locale 12:45.
Vista dall’alto, la foresta tropicale era un oceano verde e impenetrabile. Si estendeva fino a dove l’occhio riusciva a scorgere, interrotta solo da fiumi che serpeggiavano tra la vegetazione e da alberi ciclopici che svettavano sulla giungla.
L’elicottero militare Sikorsky UH-6 virò di pochi gradi in direzione sud-est e si assestò su un’altitudine in cui i radar brasiliani non avrebbero potuto individuarlo. Aveva percorso i millesettecento chilometri che lo separavano dalla base colombiana Germán Olano in circa sette ore: partito poco dopo l’alba con sette passeggeri a bordo – Sforza, Nobile, la Andrews, il professor de Souza, il colonnello Gutierrez e due militari (una donna di nome Pulaski e un giovane chiamato Milano) – si era fermato solo per il rifornimento del carburante nei pressi di Puerto Tolima. E ora era lanciato in direzione del punto preciso in cui la FUNAI, Fundação Nacional do Índio, aveva segnalato l’ultimo avvistamento degli Awá.
Il professor Jacir de Souza poggiò la testa sull’oblò del velivolo. Le ingombranti cuffie lo isolavano dagli altri passeggeri, ognuno abbandonato a suo modo ai suoi pensieri. Quel silenzio forzato – rotto solo dal clangore persistente delle pale del velivolo – lo spinse a riflettere sul suo ruolo in quella missione.
Aveva sessantacinque anni appena compiuti e mai avrebbe potuto immaginare che il destino del mondo sarebbe stato nelle sue mani. Era nato nel Mato Grosso, presso una delle tribù Guaranì-Kaiowá spogliata dal governo brasiliano e dalle multinazionali di quasi tutti i suoi territori. Fin da giovane aveva lasciato le terre ancestrali che i suoi avi avevano occupato ed era diventato un rappresentante del movimento Atiguasù Guaranì. Si trattava di una comunità che lottava per la cosiddetta retomada, la rioccupazione dei territori da parte degli indios.
Da attivista, per cercare di sensibilizzare i governi occidentali sul problema, era stato in Europa e negli USA. Qui, dove era rimasto per sette anni, aveva anche conseguito due lauree, una in antropologia e l’altra in botanica. Tornato in patria, il MJC, il Ministério da Justiça e Cidadania, riconoscendogli un ruolo chiave tra i Guaranì più agguerriti, gli aveva offerto una grande possibilità: una borsa di studio per seguire, dall’interno, proprio le attività di reinsediamento. Da quel momento, il passo per l’Università federale di Amazonas era stato breve.
In trent’anni, Jacir de Souza aveva combattuto decine di battaglie a favore degli indios. Molte impari, in cui si era scontrato con poteri economici fortissimi e politici corrotti. Altre, come l’insegnamento della cultura della sua terra, erano state invece più facili ma al tempo stesso utili: “Sensibilizzare i potenti di domani”, diceva, “è il modo migliore per pianificare un futuro più roseo”.
E adesso, tutto ciò per cui aveva lottato era collassato su se stesso. Il mondo era sul bordo di un baratro e lui, assieme a sei perfetti sconosciuti, aveva la possibilità di riportare un po’ di giustizia.
Spostò lo testa dall’oblò, appiccicando i suoi occhietti piccoli e neri sull’iconico colonnello Gutierrez, seduto accanto al pilota. Stavano confabulando e, proprio in quell’istante, il militare si voltò in direzione della cabina.
«Signore e signori», irruppe dall’interfono, l’immancabile sigaro tra i molari, «sono lieto di annunciare che quella che si staglia alla vostra sinistra è Manaus… o meglio, quello che ne resta».
La città coloniale che emergeva sopra le chiome degli alberi sul cielo azzurro sembrava la controfigura di se stessa: pennacchi di fumo si innalzavano come alberi di velieri. Molti edifici avevano le facciate deturpate e graffiate dai missili dell’aviazione e il fiume era una palude punteggiata di imbarcazioni fantasma. La settimana precedente – da quanto avevano appreso dalle fonti di informazioni ormai frammentarie – l’esercito brasiliano aveva dovuto compiere diversi raid sulla città. I tumulti di chi si opponeva ai vaccini l’avevano scossa da cima a fondo, trasformandola in un campo di battaglia. E adesso, dal piccolo oblò dell’elicottero, sembrava di osservare la Sarajevo degli anni Novanta, piuttosto che la capitale dell’Amazzonia.
«Gli amici della FUNAI sconsigliano di fare una sosta in città», ammonì sarcastico il colonnello nelle cuffie. «Abbiamo un’autonomia di 2200 chilometri, quindi ci dirigiamo direttamente al punto X, tra Juriti, nella riserva Caru, e il fiume Madeira».
Nobile e Sybilla si scambiarono un’occhiata, consapevoli che coinvolgendo la FUNAI la segretezza della loro missione era a repentaglio. Nonostante la costante vicinanza, il loro rapporto – se in tutte quelle vicende ne avevano realmente costruito uno – non aveva fatto nessun apprezzabile progresso. Entrambi sapevano di sentire qualcosa l’uno per l’altra, una sensazione di supporto reciproco, di complicità: sentimenti certamente acuiti dalla situazione di costante pericolo in cui erano calati, ma certamente qualcosa di reale. Anche in quella circostanza non dissero nulla, limitandosi ad asciugarsi il sudore.
«Tenente Pulaski, le dispiace fare un inventario dell’equipaggiamento per i nostri compagni di viaggio?».
La donna, la stessa che la sera precedente aveva portato le coordinate a Gutierrez, afferrò una cartellina dal sedile vuoto accanto al suo.
«Abbiamo sette zaini da venticinque litri», sciorinò, il tono piatto di un appello scolastico. «Identici per uomini e donne. Contengono indumenti traspiranti a maniche lunghe per evitare di graffiarsi nella giungla». Fece una pausa per leggere il documento e proseguì, cullata dai rollii continui dell’elicottero. «Guanti in microfibra, zanzariere, torce, insetticidi. In ogni zaino è stato poi inserito un segnalatore GPS, un kit di pronto soccorso, provviste in scatola e acqua per cinque giorni».
«Armi?», domandò con enfasi Sforza, sistemando nervosamente la cintura di sicurezza.
«Gli M-16 sono solo per noi militari», lo riprese Gutierrez. «Se a Palanquero avessimo avuto più uomini avremmo lasciato voi civili a casa, ma come vedete siamo a ranghi ridotti». Hannibal tornò per alcuni istanti a osservare la fusoliera del Black Hawk, in quel momento accesa dai riflessi del sole di mezzogiorno. Poi si girò in direzione della cabina. «In ogni caso non vi preoccupate: la vostra sicurezza è affidata a noi… abbiate solo l’accortezza di tenere da conto l’attrezzatura: più che di pistole e munizioni avrete bisogno di antivirali e spray repellenti contro gli insetti».
«Just done», mormorò sottovoce Sybilla. «Siamo già stati nella foresta tropicale e non abbiamo avuto problemi!».
Il professor De Souza la udì e le toccò un ginocchio con fare paternalistico. «E siete stati molto fortunati: il colonnello ha ragione», le assicurò. «La giungla secondaria è molto pericolosa: febbre gialla, tifo, malaria, colera sono solo gli esempi più conosciuti…».
In quel momento l’elicottero rollò a dritta, costringendo il professore al silenzio. I passeggeri rivolsero uno sguardo interrogativo a Gutierrez, che subito dopo sussurrò qualcosa al pilota.
Dopo pochi secondi si sporse, scrutando in direzione di un grande corso d’acqua. Spostò tra le labbra il sigaro e lo afferrò tra pollice e indice. «Ci siamo», gridò, un mezzo sorriso appiccicato sul volto. «Allacciate le cinture, si va in scena!».