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Giungla amazzonica. Alcune ore più tardi.

Ora locale 12:00.

 

Seduto all’ombra di un carrubo, Zeno Veneziani osservava ninfee variopinte che scivolavano placide su un fiumiciattolo. L’acqua era verde scuro, rotta da bollicine che affioravano qua e là. Sulle anse frastagliate, coperte di rampicanti e di rami piegati fino a sfiorare la superficie, si notavano i movimenti più vari: la lieve brezza che tirava da est? Qualche animale in agguato dietro la fitta boscaglia? Degli osservatori Awá con il compito di tenerlo d’occhio?

Il pubblico ministero fissò un punto in cui il fiume era increspato, sulla riva opposta: si scorgevano distintamente le scaglie di un caimano che si allontanava. Lo osservò con deferenza, per essere sicuro che non cambiasse idea e decidesse di tornare indietro. Rifletté su quanti erano i pericoli in quella giungla impenetrabile: serpenti, insetti, lepidotteri, piranha, anaconda, giaguari. E non si trattava solo di predatori: la foresta stessa con le sue piante carnivore, le radici, i pendii scoscesi e scivolosi, il suo clima umido e le malattie, celava un tranello dietro l’altro. Sapeva che senza la protezione degli indios, a ogni passo rischiava la vita, quella stessa vita che gli Awá gli avevano però restituito.

Si poggiò al tronco dell’albero e scostò la labile fasciatura che Sasso Grigio gli aveva stretto attorno all’addome. La ferita che aveva rimediato durante l’attentato all’ONU sembrava ormai del tutto rimarginata. Era coperta da un unguento scuro dall’odore penetrante, ma non gli doleva più. Si sentiva anche più in forze e la febbre era finalmente scomparsa: merito di qualche pianta tropicale, l’ingrediente base di moltissime medicine. Ricordava che una volta sua moglie Agnese, da brava botanica dilettante, gli aveva raccontato che la stragrande maggioranza delle cure occidentali derivava da vegetali della foresta amazzonica. Chissà se valeva lo stesso principio anche per l’antidoto alle ferite d’arma da fuoco…

Sorrise e ripensò alla grande fortuna che aveva a essere lì, in riva a quel fiume sperduto sotto la volta degli alberi. Dopo che la compagna dello sciamano e le altre donne l’avevano rifocillato con insetti e focacce che sapevano di carruba, aveva insistito per allontanarsi per qualche ora. Aveva bisogno di restare un po’ da solo, per riordinare le idee e decidere cosa fare. Non era mai stato molto religioso, ma in un certo senso Lazzaro riportato in vita da Gesù doveva essersi sentito più o meno come lui.

C’era anche un’altra ragione per la quale si era voluto allontanare dal villaggio: una sorta di riconoscenza, legata a quel poco che sapeva dei popoli che vivevano isolati. A dispetto della loro indipendenza, infatti, le tribù come gli Awá erano estremamente vulnerabili alle malattie degli occidentali. Un semplice raffreddore era potenzialmente in grado di uccidere l’intero gruppo.

Mentre notava un nuovo agitarsi di foglie su un’ansa della riva opposta, Veneziani cercò di concentrarsi su qualcosa di meno attuale: ripensò alla missione di Nobile e degli altri. Erano riusciti a portare in salvo il missionario? Ormai erano trascorse tre settimane da quando, nel corso dell’agguato allo shapono Yanomamo, li aveva persi di vista.

Un altro frusciare di foglie, questa volta molto più vicino.

Veneziani scattò in piedi con sorprendente agilità. Anche la ferita alla gamba si era rimarginata del tutto. «Chi va là!», disse in un inglese impostato. «Chi c’è?».

Qualcosa saettò nell’aria e lo colpì tra la spalla e il collo. Con sorpresa si rese conto di non aver sentito alcun dolore.

«Che razza…». Il torace glabro era sporco di un liquido rossastro. Non era sangue, sembrava piuttosto… sciroppo di fragola. Esaminò il fogliame che ricopriva il greto e vide alcune piccole palline schiacciate: mirtilli selvatici?

Non riuscì a raccoglierli che una nuova pioggia di bacche lo investì in pieno.

«Colpito e affondato», proclamò una voce, anch’essa in inglese.

Veneziani alzò lo sguardo e tra la vegetazione rigogliosa vide sbucare un bambino di sei o sette anni. Aveva un aspetto miserando, con una logora maglietta della nazionale di calcio brasiliana e un paio di pantaloncini al ginocchio. Aveva dei lineamenti accentuati, quasi fossero stati scolpiti nel marmo e lasciati grezzi. L’aria era vagamente occidentale, ma nello sguardo e nelle movenze era possibile riconoscere qualcosa di indigeno.

«Se fossero stati dardi avvelenati saresti morto», scherzò il bimbo. Teneva in mano una fionda rudimentale e alcuni mirtilli che usava come proiettili. «Prima regola degli scacchi: proteggi la tua regina. Tu non l’hai fatto: avevi il collo scoperto».

Veneziani non riuscì a replicare, visibilmente colpito da quella grottesca e tolkieniana apparizione.

«Hai fatto colazione?», lo sollecitò ancora il bambino, mostrando i piccoli incisivi. Aveva una pronuncia con chiari influssi portoghesi ma tutto sommato parlava un buon inglese.

Il PM sorrise, scuotendo il capo. «In effetti non ancora», rispose, osservando il bimbo avvicinarsi a lui agilmente. Adesso che ci pensava forse lo aveva già visto fare capolino nella capanna, nei giorni o nelle notti precedenti: era convinto di averlo sognato ma probabilmente l’aveva scorto durante una delle veglie dovute alla febbre.

«Ti senti meglio, karaí?», indagò il piccolo.

«Molto meglio, grazie». Tese la mano, abbassandosi per vedere meglio i grandi occhi dell’indigeno con la maglia verde-oro. «Posso chiederti come ti chiami?».

Il piccolo, con finta diffidenza, gli porse la mano. «Piacere, Jonathan, ma alla Missione tutti mi chiamano John Tan-Tan».

Veneziani si immobilizzò di colpo. Quel bambino aveva qualcosa di strano, dal taglio dei grandi occhi alla bocca minuscola. Lo aveva notato fin dal primo sguardo. Ciò che non aveva però visto era un altro particolare: la piccola mano, tesa davanti a lui in attesa della stretta, aveva sei dita. Era quasi simmetrica, con il mignolo supplementare che faceva da contraltare al pollice.

Polidattilia. Esadattilia, per essere precisi.

Veneziani non ne sapeva molto, ma era quasi certo si trattasse di un difetto genetico: i tessuti molli si univano e creavano una protuberanza in soprannumero.

Ecco l’anomalia: Il dito. Non le dita. Chi era affetto da polidattilia di solito aveva un solo arto con più dita. Non John Tan-Tan: lo studiò meglio e constatò che entrambe le mani avevano sei dita e i piedi, scalzi, mostravano la stessa disfunzione.

Per un istante Veneziani si ritrovò al palazzo dell’ONU, alcune settimane prima. Era stato Rodchenko, quando aveva raccontato la sua storia sui giganti, a parlare per la prima volta di polidattilia. Quegli esseri, aveva detto, erano esadattili, sia nelle mani che nei piedi.

«Non eravamo tutti così alla Missione O’Reilly», sembrò quasi giustificarsi il bimbo, vedendo la curiosità di Zeno per la sua mano. «Per questo padre Gonçalo mi diceva sempre di tenere le mani in
tasca».

Veneziani si scosse, colpito da quelle poche parole. In quel momento si rese conto di non avergli ancora stretto la mano. Lo fece, mentre un turbine di pensieri cominciava a farsi strada nella sua mente.

“Esadattilia, Missione O’Reilly, padre Gonçalo”. Tutte coincidenze? Il Gonçalo citato dal bambino poteva essere Fernandes?

«Sai che lo conosco anche io padre Gonçalo?», azzardò il PM, addolcendo la voce.

«Davvero?». Il visino ovale di John Tan-Tan si illuminò come colpito da un raggio di sole. «Tra pochi giorni verrà a prendermi. Devo solo tenere al sicuro le carte».

Veneziani deglutì. Non era in grado di fare ipotesi su chi fosse quel piccolo e per quale strana ragione si trovasse lì. Più continuava quella conversazione surreale, più l’istinto gli diceva che aveva davanti una grande scoperta… «Le carte?», chiese, cercando di apparire cortese e non curioso.

«Sì, le carte del baule. Leonardo le guardava sempre…». John Tan-Tan si fermò, distratto da un gorgoglio lungo il fiume. «Le vuoi vedere anche tu?».