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Giza, Egitto. Contemporaneamente.
Ora locale 19:30.
Sette.
Il potere evocativo del numero sette lo aveva sempre affascinato. Il sette, simbolo di equilibrio, di rinascita e di perfezionamento della natura umana, aveva segnato molte fasi della sua vita.
Il septimus dies Dio aveva creato l’uomo e, ironia della sorte, la Settima Profezia di Charles O’Reilly aveva previsto il giudizio universale proprio nel settimo giorno. Per un gioco di coerenza – forse per scaramanzia o per cercare di assecondare il fato – Verdi si era così scelto il numero sette anche per qualcosa di più personale. Settimo Oracolo: quello era il nome che si era dato e con il quale i posteri lo avrebbero dovuto ricordare; era, a suo parere, il giusto tributo che la Storia avrebbe riservato a colui che aveva portato alla luce il vero messaggio. Come una Fenice, l’umanità sarebbe rinata dalle sue ceneri grazie a lui, e finalmente sarebbe progredita in una direzione che nessuno osava immaginare.
«L’indagine computazionale sulla mappatura del genoma sarà effettuata dal centro elaborazione di Saseno. I dati codificati transiteranno direttamente sulla nostra fibra ottica dedicata».
Verdi sbirciò oltre la montatura degli occhiali. In penombra, ma irradiata da sporadici riflessi che penetravano dalla parete di vetro, c’era la dottoressa Mar’ja Efimova. Era una donna minuta, sulla sessantina, con un viso triste e capelli corti, e stava illustrando le prime fasi del progetto gesticolando. Anche se aveva condiviso la scelta della scienziata, non era sicuro che affidare il destino dell’umanità a un’“amica” del russo fosse sensato. D’altra parte, la totale sostituzione degli addetti Ulybka con i suoi avrebbe richiesto un po’ di tempo e lui era ansioso di cominciare.
Si concentrò sul laboratorio al di là del cristallo: quello che fino a pochi giorni prima era un locale inanimato, ora scintillava della luce delle lampade scialitiche. Si era riempito di nuovi addetti in fervente attività. Gli unici apparentemente immobili erano i bioinformatici, seduti alle loro postazioni, e ovviamente le piccole cavie immobilizzate sui letti.
«Il data processing in MapReduce ha una potenza di calcolo di 200 petabyte al giorno», spiegò la dottoressa, indicando un gruppo di grossi armadi RAC, dal quale sbucavano ciuffi di cavi e LED colorati. «In pratica 200 milioni di gigabyte, una potenza di calcolo che ci consentirà…».
«Saremo pronti quando arriveranno i primi frutti del setaccio?», tagliò corto Verdi, impaziente.
«Ce la faremo», lo rassicurò la Efimova. «Come sa, il DNA codificante, la parte che contiene i geni, rappresenta solo il 3% del nostro genoma. Non è ancora del tutto chiaro a cosa serve il restante 97%, che alcuni chiamano DNA “spazzatura” proprio per l’assenza di geni. Gli schemi non casuali che stiamo cercando, con ogni probabilità, si annidano proprio in quelle regioni: ecco perché dobbiamo ridurre il più possibile la percentuale su cui concentrare i nostri sforzi. Per questo, l’ultimo carico di “occupanti” è fondamentale».
Verdi ebbe un moto di rabbia, che soffocò tra la solita mascherina per l’ossigeno e il suo aplomb. I cloni, o gli occupanti, come li aveva chiamati la dottoressa, sarebbero dovuti essere cinque, come i lettini vuoti. Invece, per l’inettitudine di Rodchenko erano soltanto due: dei tre mancanti, uno era fuggito chissà dove e gli altri due erano stati soppressi.
«Ci vorrà più del previsto?», inveì.
La donna sfoderò un macabro sorriso. «Non necessariamente. Le copie sono ridondanti, possono rivelarsi utili se qualcosa va storto… quando gli esami sono un po’ più invasivi, a volte capita che qualcuno reagisca male. Se muoiono, ci serviamo delle repliche».
A quelle parole Zer, l’assistente di Verdi che per tutto il tempo era rimasta al fianco dal suo padrone, trasalì. Per quanto ci provasse, non riusciva a distogliere lo sguardo dal macabro spettacolo che stava andando in scena di fronte a lei. Oltre il cristallo, una decina di bambini – erano quello, per lei, solo bambini di quattro e cinque anni – erano sdraiati sugli strani lettini allineati sotto le cupole. Le loro teste, di forma anomala solo secondo i canoni consueti, erano collegate a speciali caschi protettivi; alle braccia erano attaccati aghi e tubicini in cui scorrevano liquidi lattescenti. Sembravano sedati anche se, talvolta, i loro corpicini erano scossi da evidenti spasmi.
Proprio in quel momento, una porta scorrevole si aprì e alcuni uomini in divisa spinsero all’interno del laboratorio due sedie a rotelle. Sopra, legati ma vigili, c’erano gli ultimi due infanti: nudi, la pelle grigia e liscia, il viso terreo per la paura.
«Siamo pronti», comunicò una voce dall’interfono, subito dopo aver sistemato i piccoli sui lettini vuoti e aver collegato i macchinari. Uno dei due aveva pianto sommessamente per tutto il tempo; l’altro, stoicamente, era rimasto a fissare la grande vetrata. Non poteva vederli, ma forse sentiva la loro presenza…
«Possiamo cominciare», dichiarò uno degli informatici dall’interno.
Mar’ja Efimova si voltò verso Verdi con studiata lentezza. La luce proveniente dal laboratorio le rischiarò una parte del viso di ghiaccio. «Vuole avere lei l’onore?».