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Giungla amazzonica, da qualche parte a sud-est
di Manaus. Due ore più tardi.

14:45.

 

Il teshari-rin, l’esploratore Awá, ammirò il grande uccello di ferro alzarsi nuovamente sulle fronde più alte. Pochi istanti prima l’aveva visto abbassarsi come un falco sulla radura e scaricare sette stranieri. Non aveva neppure avuto il tempo di focalizzare la sua attenzione sui colori cangianti del metallo che le grandi pale avevano ricominciato a roteare.

L’indio alzò il capo: quella specie di demone volante faceva turbinare foglie e terra tutt’intorno a lui, scuotendo la foresta come un temporale estivo. Il frastuono aveva preso il posto del frinire costante delle cicale, che sembravano essersi ammutolite di colpo.

«Giaguaro Veloce!». In lingua guajá richiamò l’attenzione di un secondo teshari-rin, il corpo cosparso di cenere e meh-nu per mimetizzarsi. Assieme a lui era incaricato di sorvegliare la zona vicina al villaggio. «Avverti Sasso Grigio: stanno arrivando i karaí».

 

Pochi metri più a monte, il gruppo di stranieri aveva già abbandonato il sole della spianata e si era addentrato all’ombra compatta della giungla. Avanzava in fila indiana, gli zaini sulle spalle e gli occhi pronti a individuare ogni minimo movimento tra le liane fitte come gomitoli.

«Abbiamo ancora circa quattro ore di luce», tuonò Gutierrez, davanti al gruppo. Era già sudato e si schiacciò un moscerino sul collo. «Dopodiché sarà così buio che voi uomini non riuscirete più a vedere la punta dei vostri uccelli».

Nobile, poco dietro di lui, sorrise. Riempì i polmoni di un odore dolciastro e sbirciò i due militari scelti dal colonnello per la spedizione: il giovane Antony Milano marciava in coda alla fila e batteva il bastone da trekking sul terreno per allontanare eventuali serpenti. In quel momento sembrava rapito dalla vista di una nuvola di lepidotteri levatasi dalla corteccia di un albero; Catherine Pulaski invece era subito davanti all’ex ambasciatore: una donna muscolosa, capelli neri legati in una coda di cavallo e un drago a due teste tatuato sulla spalla nuda. Fu proprio lei a rompere il momentaneo silenzio.

«Già che parliamo di “gioielli di famiglia”», osservò, con lo stesso tono da caserma utilizzato da Gutierrez, «forse il professore vorrebbe finire il suo discorso sulle malattie che si possono prendere quaggiù. Per esempio, potremmo parlare del candirù».

Jacir de Souza si schiarì la voce, senza rispondere. Si limitò ad accelerare il passo mettendo un anfibio davanti all’altro.

«Il candirù?», commentò invece Sforza, tirandosi lo zaino più su sulle spalle. «Che razza di malattia è?»

«Non è affatto una malattia!», specificò il professore, di malavoglia. «È un piccolo pesce che vive nel Rio delle Amazzoni».

«Gli racconti tutta la storia», insistette Catherine Pulaski. Un sorrisetto sadico si fece strada attraverso le gote arrossate. «Il candirù ha uno strano comportamento istintivo che potrebbe dare qualche disturbo a voi ometti quando fate pipì».

Jacir scosse il capo. «Cosa vuole che dica, tenente, che grazie al suo corpo piccolo e sgusciante si insinua nella membrana branchiale di altri pesci, per nutrirsi? A cosa potrebbe servire?»

«Potrebbe servire a evitare ai nostri civili un fastidioso inconveniente quando devono urinare». Il tenente Milano intervenne dalla coda della fila, dando manforte alla collega. «Questi pesci riconoscono le branchie in cui si infilano proprio dall’urina espulsa dall’opercolo. Per loro è un comportamento istintivo e non fa differenza intrufolarsi in un pesce o nell’apparato urinario di un mammifero!».

«Cristo santo», borbottò Nobile, portandosi istintivamente una mano all’inguine. «E se succede cosa bisogna fare?».

La Pulaski sorrise sguaiatamente. «È sufficiente tagliare il pene!».

«Adesso basta», intervenne Gutierrez, fermandosi di colpo. «Abbiamo un fottuto problema».

Davanti al gruppo, alla fine di un’ansa che degradava ripidamente, tra banchi di nebbia e riflessi del sole, emergeva un’imponente distesa d’acqua. L’aria era sensibilmente più calda e un intenso tanfo di pesce arrivò alle loro narici come un pugno sul naso.

«Non possiamo girarci attorno?», suggerì Nobile, posizionando la mano sugli occhi per difendersi dalla luce abbagliante.

«È un fottuto lago e sembra estendersi per chilometri», sottolineò il colonnello. «Sicuramente ha un fiume a monte e uno a valle: in ogni caso dobbiamo attraversare un corso d’acqua».

«Per il GPS il lago è largo ottocento metri e lungo cinque chilometri», intervenne il tenente Pulaski, consultando un piccolo dispositivo arancione.

«Quindi ci conviene guadare dove è più stretto piuttosto che girarci attorno!».

«Abbiamo i canotti d’emergenza», aggiunse la Pulaski. «Il tempo di gonfiarli e saremo operativi».

Gutierrez posizionò le mani sui fianchi come un’anfora e lanciò un’altra occhiataccia al grande specchio d’acqua verde. «Dieci minuti di pausa. Preparate i canotti. Voglio essere dall’altra parte prima che faccia buio».

Un mormorio di soddisfazione si levò dalle retrovie. Sybilla fu la prima a lasciar cadere il pesante zaino e a sdraiarsi sul terreno umido. «My god!».

Trascorsero pochi minuti in cui i militari verificarono l’attrezzatura ed estrassero i canotti. Si trattava di due piccole imbarcazioni autogonfianti da quattro posti ognuna. Si riempirono di gas quasi all’istante, appena azionato un dispositivo ad anidride carbonica ad alta pressione.

Milano e la Pulaski furono celeri a raggiungere il greto scivoloso e a trascinarli in acqua con l’aiuto di due cime. Montarono i remi telescopici e subito dopo richiamarono l’attenzione di Gutierrez, concentrato a consultare la mappa satellitare sul tablet.

«Il tenente Milano, Sforza e il professor de Souza sul primo canotto», ordinò il colonnello, indicandoli con la falange. «Io, Pulaski, Nobile e la signorina Andrews sul secondo. Per primi remano gli uomini; quando possibile avranno il cambio».

Si alzarono tutti quasi all’istante, e superata la riva scoscesa che conduceva all’ansa salirono sulle imbarcazioni, che tutto sembravano tranne che stabili. Si sedettero ordinatamente e servendosi di lunghe pertiche di bambù si allontanarono dalla riva, puntando sul fondo. Riuscirono a percorrere solo una ventina di metri che i bastoni cominciarono ad andare a vuoto.

«È troppo profondo», notò dal canotto più avanzato il giovane tenente Milano. Per risparmiare l’anziano professore, afferrò uno dei due remi e cominciò a pagaiare in compagnia di Sforza. Lo stesso fecero sul secondo canotto il colonnello e Nobile.

Uno stormo di uccelli variopinti si levò dalla riva da cui erano partiti, e subito dopo un fenicottero rosa fece capolino sul greto. Attraverso le lenti polarizzate degli immancabili Ray-Ban, Sforza scrutò verso la sponda opposta, avvolta in quel momento da un po’ di foschia. Si udiva il gorgoglio lontano di una cascata che echeggiava sopra lo specchio d’acqua.

Scivolarono sulla superficie brunita indisturbati, accompagnati solo dallo sciabordio e dagli spruzzi energici delle pagaiate. Alle quindici e trenta, la riva a cui erano diretti apparve magicamente più vicina di quella da cui erano partiti. Ora si vedevano distintamente numerose cavità d’ombra alternate a radici e a tronchi, grandi e piccoli, incagliati sulla riva limacciosa. Alla loro sinistra, sotto il sole cocente, sbucavano invece due isolotti completamente privi anche solo di un cespuglio.

«Insetti del cavolo», imprecò Nobile a un certo punto, la polo di cotone appiccicata alla schiena per il sudore. Intorno alle due imbarcazioni si erano assembrati moscerini e strani ditteri dorati.

«Sono mosche cavalline», gli spiegò Pulaski, che nel frattempo gli aveva dato il cambio. «Al massimo possono pungerti. C’è di peggio!».

«Il candirù?», sorrise l’ex ambasciatore.

«Appunt…».

Non riuscì a finire la frase che il canotto rollò vertiginosamente a dritta.

«Che diavolo succede?», inveì ad alta voce Gutierrez.

L’imbarcazione si mosse di nuovo, questa volta dalla parte opposta. Dal pelo dell’acqua schizzò una specie di ramo nero e viscido.

“No”, decise il colonnello, dopo una fugace occhiata. “Non è un ramo: è la coda di un fottuto serpente”.

«Un anaconda», strillò Pulaski nello stesso istante. Affondò il remo di plastica sotto la superficie cercando di allontanarla.

Il serpente acquatico la evitò e si inabissò sinuoso per un istante. Subito dopo tornò a galla, le fauci spalancate.

«Non sporgetevi», sbraitò Gutierrez, allarmato. «O diventiamo il suo pranzo!».

Sybilla sgranò gli occhi, terrorizzata. Si aggrappò al manico dello zaino e puntò i piedi. Ma era troppo scivoloso e già completamente inzuppato.

Sotto gli occhi impotenti degli occupanti dell’altro canotto, l’imbarcazione oscillò ancora, questa volta da prua a poppa. Una ciclopica sagoma a forma di S vi sgusciò attorno, provocando altri mulinelli e schizzi ripetuti.

Gutierrez afferrò l’M-16 che teneva tra le gambe e provò ad affondare il calcio sulla pelle nera appena sotto l’acqua. Inutilmente: la bestiaccia si era inabissata di nuovo.

Un istante più tardi, con un colpo di coda ben assestato, l’anaconda colpì nuovamente l’imbarcazione. Questa volta la poppa si sollevò quasi verticalmente e la fece pendere pericolosamente in avanti.

Il colonnello tentò di aggrapparsi, ma senza successo: fu il primo a precipitare in acqua con un urlo soffocato. Subito dopo toccò al tenente Pulaski, sbalzata fuori da un rigonfiamento della base in gomma. Per sua fortuna trovò appiglio in un lembo del canotto e rimase penzolante, con il busto all’asciutto e le gambe immerse.

E a quel punto arrivò un ultimo tremendo scossone: la piccola imbarcazione oscillò nuovamente, si inarcò e alla fine si rovesciò.

Anche Niccolò Nobile e Sybilla Andrews furono sbalestrati in acqua, in pasto all’enorme serpente.