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Il Cairo.
20:17.
“Se la montagna non viene a Maometto, Maometto va alla montagna”.
Era ciò che pensava Dragan Sauer mentre, insieme ad altri quattro uomini armati e incappucciati, saliva le scale dell’hotel Les Pyramides.
Aveva trascorso l’ultima settimana in città, costantemente informato sugli spostamenti di Sforza e soci. Da quando, la domenica precedente, la funzionaria della FUNAI aveva avvertito di avere individuato il gruppo in Amazzonia era ritornato in piena attività.
Theodore Greenidge non aveva ammesso l’esistenza di un secondo vaccino per le cosiddette élite. Per Sauer però mentiva. Lui stesso aveva visto con i suoi occhi molti soggetti vaccinati ammalarsi di nuovo. Non sapeva con assoluta certezza cosa alla SunriseX avessero escogitato con quel piano. Di una cosa però si era convinto: Kundé, che aveva ucciso in Sierra Leone, stava lavorando a un vaccino differente. Non aveva elementi per ritenere che fosse lo stesso di cui aveva parlato il funzionario dell’ambasciata. In ogni caso però il soggetto immune a cui stava dando la caccia era un’ottima merce di scambio.
Il soggetto immune.
Quando aveva acciuffato il missionario Gonçalo Fernandes credeva di averlo trovato. Si sbagliava. La persona che tanto aveva messo in subbuglio il piano di Greenidge era un fottuto bambino. Appena il gruppo l’aveva ritrovato, in mezzo alla foresta, gli eventi si erano però susseguiti senza lasciargli il tempo di elaborare un piano sicuro di prelievo. Un piano che gli permettesse di non fare arrivare immediatamente la notizia a Greenidge.
La Russia – la tappa successiva che le sue prede avevano intrapreso dopo il Sud America – era assolutamente da escludere. Rodchenko aveva occhi e orecchie dappertutto e soprattutto era collegato alla SunriseX. Anche gli Stati Uniti, in cui erano andati subito dopo, creavano più di un problema logistico. Le frontiere e lo spazio aereo erano chiusi. Non che fosse una difficoltà insormontabile, ma lo diventava se si voleva elaborare una missione di quel tipo in assoluto anonimato.
La fortuna però aveva girato. La tappa successiva del gruppo, e del suo obiettivo, era stata proprio l’Egitto.
“Se la montagna non viene a Maometto, Maometto va alla montagna”.
«Confermo». La voce di Ludmilla Korolevs’ka, la sua Ylenia, arrivò chiara nell’auricolare. Era appostata nella guardiola di sorveglianza dell’hotel, una fila di monitor davanti a sé e la Glock 39 puntata alla tempia di un addetto terrorizzato. «Stanno scendendo in ascensore verso il parcheggio».
Sauer alzò la mano per far segno ai suoi uomini di fermarsi. Si trovavano nel piccolo vano scala, rasenti il muro in cemento grezzo. Erano in penombra, con i passamontagna neri calati sul viso e i piccoli mitragliatori Uzi pronti a sparare. La camera 237 si trovava a metà del corridoio, appena sbucati sul pianerottolo.
«Sono in cinque», proseguì la voce all’auricolare. «Non mi sembra ci sia il bambino, ma non li vedo bene».
Trascorsero alcuni secondi, in cui alle parole si sovrappose una fastidiosa scarica elettrostatica. Dragan era immobile, il cuore che bussava nel petto, in attesa di sapere se poteva intervenire.
«Le porte si stanno aprendo». Ylenia si bloccò. «Ok. Adesso li vedo: Veneziani, Nobile, Sforza… un militare egiziano». Un’altra pausa. «Eccolo, l’ultimo è l’americano col cubano».
Bingo.
Il gruppo si era diviso e cosa più importante il bambino era rimasto nella camera dell’hotel.
«In posizione!», ordinò al contractor che gli copriva le spalle. Aggredirono l’ultimo tratto di scale e in fila indiana piombarono nel corridoio. Lo percorsero lentamente, certi della loro superiorità, togliendo le sicure ai mitragliatori.
Quattro contro due.
Era quello il rapporto di forze. Se erano scesi in cinque, significava che il bambino era poco protetto: con lui, oltre alla gola profonda della SunriseX, c’erano soltanto due militari armati: un uomo e una donna.
Raggiunta la porta della stanza, uno dei mercenari, quello più avanzato, estrasse dallo zaino un piede di porco. Lo infilò tra lo stipite e la serratura e fece forza.
Gli altri si misero in posizione, uno per parte con le armi spianate, e Sauer si piazzò al centro. Sarebbero piombati all’interno non appena la porta fosse stata divelta.
Trascorsero interminabili istanti. Piccoli sussurri si susseguirono all’interno della camera. Probabilmente si erano accorti di loro…
I mercenari, il dito premuto sul grilletto, si avvicinarono al collega. La serratura aveva quasi ceduto.
Un gioco da ragazzi.
Almeno così avrebbe dovuto essere, invece, improvvisamente, un clangore assordante squarciò l’aria come un tuono in una notte silenziosa.
La porta venne bucherellata da una scarica di mitra e il paramilitare con il piede di porco fu investito da una gragnola di proiettili.
Pochi attimi prima il tenente Catherine Pulaski era scattato in piedi. Gutierrez le aveva ordinato di montare turni di guardia di due ore, alternandosi con Antony Milano.
Gli altri erano da poco usciti con destinazione Abu Sir, una cittadina a ottanta chilometri di distanza, quando aveva udito uno scalpiccio di passi in corridoio. Sulle prime aveva pensato stessero tornando indietro, tuttavia i suoi sensi allenati le dicevano che non era così. Rumori di chi si muove di soppiatto. Bisbigli. Forse anche qualche scricchiolio dovuto alle sicure delle armi automatiche sbloccate.
Ghermì il suo M-16 e a gambe larghe si piazzò davanti allo stipite.
«Ehi», richiamò l’attenzione del collega, sonnecchiante su una poltrona, poco distante.
Si spostò di lato, strisciando le suole sulla moquette, e con l’anfibio gli diede un calcio sul polpaccio. «Abbiamo compagnia». Si voltò, per prestare l’orecchio ai suoni del corridoio. «Ostili. Tre o quattro».
«Cazzo!». Milano balzò verso la camera attigua per avvertire gli occupanti.
Ma Sybilla era già sveglia, il volto terreo, immobile, in piedi in mezzo alla stanza.
«Dobbiamo andare», esclamò il giovane, le lentiggini che rendevano il suo viso rassicurante anche in quella circostanza. Prese in braccio il piccolo Quattordici, muovendosi in modo automatico.
“Andare?”
“Andare dove?”.
Stropicciandosi gli occhi con le mani a sei dita, nel frattempo John Tan-Tan si sedette sul letto. «Cosa succede?»
«Facciamo una passeggiata», lo rassicurò Sybilla, carezzandogli la testa ma voltandosi di continuo vero l’altra camera. Erano al secondo piano in una stanza senza vie d’uscita. L’unica alternativa era il balcone…
Deglutì, fissando l’ombra di Pulaski, con la grossa canna del fucile protesa davanti a lei.
Non passò un secondo che uno scricchiolio di legno costrinse il tenente ad avanzare ancora.
«Da quella parte», indicò Milano. Poco oltre il balcone, quasi sulla parete del palazzo di fronte, si vedeva una scala antincendio. Era tremebonda, arrugginita e attorcigliata attorno a un palo di ferro.
Ancora uno scricchiolio, oltre il muro. Questa volta più netto, come un osso che si spezza.
La serratura stava per cedere.
Pulaski digrignò i denti e premette il grilletto.