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Pochi minuti prima.
01:12.
La Bentley blindata si fermò di fronte al cancello con il motore acceso.
Come di consueto, il militare intabarrato nell’ingombrante tuta hazmat sbirciò oltre i vetri oscurati e fece cenno di passare.
Rodchenko annuì. Non l’aveva mai visto, segno che ormai la Guardia speciale di Verdi aveva sostituito quasi interamente i suoi uomini.
Accennò un sorriso di ringraziamento. Subito dopo si concentrò sui due TIR che ancora ingombravano il cortile antistante i garage. I reperti che negli ultimi cinquant’anni avevano occupato il livello -5 della base erano ormai stati caricati quasi completamente sui camion. Anche per quelli, oltre che per i suoi uomini, il ministro aveva dovuto trovare un’altra collocazione: nonostante il periodo difficile per il traffico aereo, alle sei di quella mattina un cargo sarebbe decollato dall’aeroporto internazionale con destinazione Saseno.
Mentre il cancello veniva chiuso e l’auto procedeva a bassa velocità in direzione dell’edificio centrale, Zer tirò un sospiro di sollievo. Non si erano accorti di nulla.
Si sbagliava.
«Alt!», ordinò una voce.
Dragan Sauer era immobile nei pressi del vano di carico di uno dei due camion, le mani infilate in tasca e il viso immerso in una vistosa maschera antigas. Il kalashnikov appeso alla tracolla era obliquo dietro la schiena.
Finalmente quella dannata missione si era conclusa. Dopo aver contrattato con Mar’ja Efimova la somministrazione del siRNA – che si era rivelata molto più banale di quanto pensasse – si era accordato anche per una via d’uscita sicura dall’Egitto. Una via d’uscita che non mettesse Greenidge a conoscenza dei suoi piani. Assieme a Ylenia si sarebbe imbarcato quella stessa sera sul Fenice: il panfilo ormeggiato al porto di Alessandria che Verdi gli aveva messo a disposizione come ringraziamento. Successivamente i suoi contatti gli avrebbero permesso di raggiungere la destinazione finale, le isole Hawaii.
Si voltò e distrattamente notò una grossa Bentley con vetri oscurati che si avvicinava a bassa velocità. Dovette schermarsi gli occhi per non essere abbagliato dai fari dell’auto che fendevano l’oscurità.
Una strana sensazione, nulla di più. Ma ormai non era affar suo. Si costrinse a volgere il viso altrove, in attesa che la macchina gli passasse di fianco. C’era penombra perché le luci nel cortile, alimentate dai moduli di continuità, illuminavano prevalentemente la recinzione. Fu quel particolare a smuovere il suo istinto: l’auto era stranamente bassa sul retrotreno, come se trasportasse qualcosa di pesante. Quello era il motivo per il quale i fari puntavano così in alto.
Strizzò gli occhi, non convinto, e si mosse di un passo.
Non si sbagliava. Senza rifletterci afferrò il calcio dell’AK-47 e urlò: «Alt!».
«Hijo de puta», mormorò Gutierrez, rannicchiato nel portabagagli assieme a Sforza. Strinse il piccolo display, dal quale, attraverso le telecamere della limousine, osservava ciò che accadeva fuori dall’abitacolo.
«Ancora quel bastardo», spiegò all’ispettore, il quale, sdraiato su un gomito, prese ad armeggiare con la canna del piccolo mitragliatore Heckler & Koch MP7.
Il piano era semplice: i due, con l’aiuto di Rodchenko e Zer, si sarebbero introdotti nei garage della struttura. Non avrebbero dovuto esserci guardie armate e una volta chiuso il portellone e messi in funzione i sistemi di ventilazione, si sarebbero trovati da soli. Con gli ascensori sarebbero scesi negli alloggi e avrebbero neutralizzato Verdi. Non si sarebbe sparato neppure un colpo: il ministro avrebbe preso il controllo della base e tutto si sarebbe risolto in pochi minuti.
Naturalmente le granate dello Zar erano già pronte nel caso qualcosa andasse storto. Ciò che era appena successo…
«Trasporta qualcosa di pesante?», sferzò curioso Sauer, avvicinandosi al lato guida.
Khaled el Kamhawi, che con il viso celato dietro a un respiratore aveva preso il posto dell’autista, si irrigidì. Fermò l’auto a pochi metri dal portone basculante, già aperto. I fari illuminarono il vano di carico di uno dei due camion, su cui un muletto stava caricando un ultimo bancale.
Sauer si abbassò ed esaminò l’interno dell’abitacolo. «Ministro Rodchenko. Mi scusi, non sapevo fosse lei».
L’autista, le mani sudate, sfiorò la ricetrasmittente appuntata sul bavero e poi d’istinto portò la mano alla cintura. Silenziosamente tolse la sicura alla piccola Ruger.
All’improvviso, uno stridio alle loro spalle attirò l’attenzione degli occupanti del veicolo. Il reperto di granito che gli addetti stavano issando nel TIR si inclinò pericolosamente. Scivolò e andò a cozzare contro il portellone di carico. Produsse un suono metallico netto, che a differenza di Sauer, el Kamhawi scambiò per qualcosa di ostile.
Se fosse riuscito a mantenere la calma, con ogni probabilità Sauer, riconoscendo il ministro, si sarebbe allontanato senza chiedere di aprire il bagagliaio. L’egiziano, però, complice il momento concitato e carico di tensione, non riuscì a controllarsi. Distese il braccio e con un solo colpo di pistola contro il mercenario mandò in frantumi il piano.