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Il Cairo. Poco dopo.

Ora locale 14:05.

 

Dragan Sauer era come un leone in gabbia. Sdraiato sul letto della suite dell’hotel Akhenaton fissava mestamente il notiziario egiziano trasmesso in TV.

Era già stato più volte in quell’albergo, poco distante dal caotico ponte Kasr Al Nile, ma l’atmosfera che si respirava in quel momento era totalmente diversa. Gli schiamazzi della strada, le urla, gli scoppiettii dei motorini, delle auto anni Sessanta, i richiami dei venditori ambulanti: tutto era scomparso, sostituito dal macabro silenzio di una città fantasma.

Il virus era arrivato anche lì: come i venti impetuosi di un tornado, si era insinuato dal deserto fino ai vicoli animati della capitale. La gente, quella che aveva potuto, era fuggita verso il Sinai. Era stato un esodo biblico che avrebbe dovuto portarli al sicuro, in una delle zone che erano state dichiarate “Ebola free”. La maggior parte della popolazione invece, seguendo le linee guida dell’OMS, si era fatta vaccinare e se ne stava rinchiusa in casa, in attesa che il peggio passasse.

Anche per Sauer gli ultimi giorni non erano stati affatto facili: dopo il rientro da Manaus, assieme a Ylenia aveva scortato padre Gonçalo Fernandes fino a un laboratorio alla periferia di Giza. Il lavoro si sarebbe dovuto concludere così, ma quando stavano per imbarcarsi su un volo EgyptAir per gli Stati Uniti, lo spazio aereo egiziano era stato chiuso. L’aeroporto internazionale era stato posto in quarantena e Sauer era stato costretto a tornarsene in città.

L’Akhenaton, con le sue eleganti aree comuni e l’accogliente caffetteria Baymen, era diventato il suo rifugio. Dal terrazzo panoramico si riuscivano a scorgere piazza Tahrir, che con il passare dei giorni diventava sempre meno caotica, e il Museo di antichità egizie. La cosa più importante era che a pochi isolati da lì c’era l’ambasciata statunitense: il motivo principale per il quale assieme alla sua fidanzata aveva scelto quell’hotel.

Sauer sospirò. A Dubai aveva già pronta una via di fuga. Il problema – la ragione che l’aveva convinto a rimanere per alcuni giorni al Cairo – era attraversare un Paese ormai allo sbando. L’alternativa che aveva in mente era decisamente più sicura anche se comportava qualche giorno in più in città. Ylenia ci stava lavorando e ormai doveva essere di ritorno: se tutto era andato per il verso giusto, nel giro di pochi giorni avrebbero avuto due nuovi nomi immacolati e autentici documenti degli Stati Uniti. Con un volo privato dall’aeroporto internazionale, in poche ore si sarebbero rifugiati sulla spiaggia di Maui, alle Hawaii. Il tutto in barba agli spazi aerei chiusi e ai coprifuoco.

Per un istante si crogiolò in quell’idea, pensando al cospicuo bonifico appena ricevuto. Grazie a lui la SunriseX aveva ottenuto ciò a cui anelava: un appalto miliardario per la fornitura dei vaccini. La risoluzione dell’ONU di due settimane prima aveva persino conferito a Greenidge la legittimazione tanto desiderata. Ormai i cinque continenti erano stati invasi dalle scatole con il logo del sole stilizzato e la maggior parte della popolazione era già stata sottoposta al trattamento.

Si alzò dal letto, aggirandosi scalzo sulla moquette della lussuosa suite. Alla TV scorrevano le immagini del ritrovamento dei cadaveri di tre trafficanti d’arte, proprio a Giza, a pochi chilometri dal suo hotel. Nonostante il virus, nonostante il terribile contagio, i notiziari (quando riuscivano ad andare in onda) si concentravano su casi di cronaca locale come quelli. Chissà, forse era per cercare di trasmettere la sensazione che la crisi mondiale in atto non fosse realmente così grave…

Si spostò di qualche passo e adocchiò la provetta con il simbolo della SunriseX. Il vaccino: tutti quegli eventi, il virus e i milioni di morti già registrati erano serviti a vendere quelle provette. Non che si sentisse in colpa, ma vederlo lì, nella sua scatola anonima, gli faceva un certo effetto.

Un vociare confuso lo spinse ad affacciarsi alla finestra. Lungo la strada sottostante, fiancheggiata di palme verdeggianti e edifici polverosi, bassi e tozzi, si stava muovendo un fiume di gente. Avevano i volti coperti con panni bianchi ed esponevano cartelli in arabo; si agitavano, urlavano e suonavano gracchianti vuvuzela. Era l’ennesima manifestazione di protesta. In Egitto, come nel resto del mondo, i cittadini che rifiutavano il vaccino erano sempre di più. Gli scioperi a tappeto avevano paralizzato l’intero Occidente. I black-out dovuti ai blocchi delle centrali elettriche erano sempre più numerosi e il cibo cominciava a scarseggiare un po’ ovunque.

Mentre li contemplava da dietro la sua finestra, nella sua gabbia dorata, Sauer si sentì un privilegiato: il fatto di trovarsi in quell’hotel a cinque stelle lo faceva sentire al sicuro, anche se non avrebbe saputo dire fino a quando. Per quella ragione la missione di Ylenia diventava di fondamentale importanza.

In quel momento qualcuno bussò alla porta. Un colpo singolo rimbombò nell’ingresso della suite.

Girò su se stesso, attraversò il grande atrio ammobiliato con oggetti d’arte africana e raggiunse la maniglia in ottone.

Il corridoio, con le sue luci pastello, le porte smaltate, il lungo tappeto rosso, era completamente deserto. Un’ombra si spense in prossimità della scala, ma senza che il mercenario riuscisse a capire di chi si trattasse.

Per un istante Sauer rimase immobile sulla soglia, un piede nella stanza e uno in corridoio. E poi lo vide: un foglietto color crema appoggiato sul piccolo zerbino.

Si chinò per raccoglierlo, lo rigirò tra le dita e alla fine l’aprì. Era scritto in un corsivo ordinato tondeggiante: senza dubbio la grafia di Ylenia.

 

Buddha, Casino Barrière El Gezirah. Tra mezz’ora.

 

Sauer grugnì, scuotendo il capo. Se Ylenia gli aveva fatto consegnare quel biglietto c’era una sola ragione: non poteva o non voleva usare il telefono.

“Non ne verrà nulla di buono”, pensò, mentre si infilava un paio di bermuda e usciva dall’hotel.