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Giungla amazzonica.
15:31.
Sybilla contrasse i muscoli e con un colpo di reni tornò in superficie. Tossì più volte e alla fine riuscì a riempire i polmoni d’ossigeno. Scosse il capo e agitò gambe e braccia, nel tentativo di rimanere a galla nonostante gli anfibi e gli abiti ingombranti.
Gli schizzi e le urla che provenivano dal canotto le rendevano difficoltoso individuare dove si trovavano tutti i suoi compagni. Ma vedeva alla perfezione la sagoma sinuosa dell’anaconda.
Si stava allontanando da lei? Era interessato al canotto, a cui era ancora aggrappata la Pulaski?
Vedendo la coda maculata scivolare sotto il pelo d’acqua, se ne convinse. Era un esemplare di dimensioni notevoli, forse di una decina di metri. Le squame bagnate che coprivano il corpo, di un color petrolio tempestato di macchioline giallastre, baluginavano.
«Resisti!», riuscì a udire.
Ansimando, mosse alcune bracciate nell’acqua limacciosa e individuò la seconda imbarcazione. Stavano tornando indietro, sollevando spruzzi a ogni pagaiata. Sforza urlava, agitando le braccia: ma non era rivolto a lei.
Nuotando solo con le gambe, Sybilla spostò i lunghi capelli biondi da davanti agli occhi. Adesso a “ore due” riusciva a scorgere Nobile. Poco oltre, emergevano i due piccoli isolotti brulli che avevano superato pochi istanti prima di essere attaccati: Gutierrez, forse, stava per raggiungere quello più vicino.
E in quell’istante udì uno sparo.
Catherine Pulaski, per metà a cavalcioni sul canotto ribaltato, strinse l’M-16 con la mano ancora asciutta. Agitò le gambe, completamente immerse, e contemporaneamente premette nuovamente il grilletto.
Davanti a lei, la superficie increspata si ingrossò, riempiendosi di zampilli. Ma il serpente non parve rallentare la sua avanzata. La testa emerse dal pelo dell’acqua e spalancò l’imponente mascella.
Il tenente provò a roteare il busto, aggrappata all’appiglio di gomma per non affondare, e sparò di nuovo. Ancora a vuoto. Questa volta l’anaconda si inabissò solo per un istante, per poi riapparire proprio davanti a lei. Le fauci si avventarono sulla sua gamba e l’afferrarono, provando a trascinarla.
Un urlo cavernoso echeggiò sul lago. Sapeva che non era velenoso, ma quella spaventosa massa di muscoli le avrebbe potuto spezzare il femore.
Pulaski cercò di divincolarsi, scalciando con il piede libero, ma a quel punto l’appoggio del canotto le scivolò via e cadde in acqua.
Il secondo canotto si avvicinò velocemente. Sforza e Milano remavano con tutta l’energia che avevano in corpo, mentre il professor de Souza urlava di resistere.
I quattro naufraghi erano disposti a semicerchio attorno al relitto del canotto: la Pulaski, ancora avvinghiata a una delle maniglie, era quella più vicina. Stava lottando con tutte le sue forze per divincolarsi dal serpente. Contemporaneamente, Nobile e la Andrews, che erano stati sbalzati più lontano, nuotavano verso uno degli isolotti. Gutierrez l’aveva, invece, appena raggiunto. Ansimando stava estraendo il coltello assicurato alla coscia.
Quando furono a cinque metri, Antony Milano depose la pagaia e imbracciò il machete.
«Cosa vuoi fare?», gli urlò Sforza.
«Lo taglio a fettine», abbaiò il militare, sporgendosi. La coda maculata dell’anaconda era proprio sotto di loro, serpeggiante tra le alghe.
«Peserà duecento chili!», gli fece eco Sforza. «Gli farai solo un graffio!».
Il militare lo ignorò e abbatté la lama come una scure per tagliare la legna. Uno zampillo schizzò e subito dopo l’animale scosse il canotto.
«L’hai preso?»
«Non credo», sibilò Milano, provando nuovamente a colpire. Ma senza successo: la coda eluse l’attacco e di riflesso dette uno altro scossone.
Pulaski, intanto, con la gamba destra stritolata tra le fauci del serpente, fu sradicata dal canotto e lanciata in acqua.
«Figlio di puttana». Il tenente ripose il machete e imbracciò il suo fucile mitragliatore.
La sua collega urlava per il dolore mentre il serpente si avvitava tutto attorno a lei. L’enorme forza che normalmente permetteva all’animale di cacciare maiali e capre l’avrebbe stritolata. Se non facevano subito qualcosa, Catherine sarebbe stata trascinata sul fondo e poi ingoiata.
Mentre il canotto beccheggiava violentemente, Milano provò a prendere la mira.
Impossibile. Non aveva visuale libera: facendo fuoco rischiava di colpire la collega.
Nobile udì le urla e i colpi di M-16 mentre, con tutte le sue forze, nuotava per raggiungere l’isolotto.
Appena scaraventato in acqua era riuscito a liberarsi dall’ingombrante cinturone a cui era agganciato il machete e aveva mosso alcune bracciate.
Sybilla, scagliata non troppo distante da lui, era piombata in acqua come un peso morto. In un primo momento aveva cercato di raggiungerla ma poi l’aveva vista riaffiorare. E così si era diretto al sicuro.
«Figlio di puttana», riuscì a sentire. Guardò oltre la sua spalla. La situazione sembrava essersi messa male per Pulaski: l’anaconda era attorcigliata a lei e la stava trascinando nell’abisso.
Fu in quel momento che vide un profluvio di scintille emergere dall’altro canotto.
Stavano sparando ancora, questa volta piuttosto lontano da Pulaski, forse verso la coda del serpente. Non passò un secondo che Catherine fu scaraventata di lato. Le fauci dell’anaconda si spalancarono e il mostro mollò la presa.
Era stato colpito?
Neppure il tempo di capirlo che, inferocito per il dolore e per la perdita di una delle prede, l’anaconda ripiegò verso il bottino più vicino: Sybilla.
Gutierrez, al sicuro sull’isolotto, agitò le braccia. Teneva il pugnale per la lama, pronto a scagliarlo come un lanciatore di coltelli.
Ma avrebbe dovuto colpire l’anaconda da una distanza ragguardevole in uno dei pochi punti privi di scaglie. Un po’ come sparare bendati da un’auto in corsa, cercando di centrare una bottiglia.
Impotente, contemplò la scena che si ripeteva con macabra ritualità: l’anaconda spalancava le fauci e le richiudeva sul braccio della Andrews. Questa volta però il serpente non sembrava aver voglia di perdere tempo: cominciò a roteare in un grande mulinello e avvolse il tronco della ragazza.
E fu in quel preciso istante che udì un rumore alle sue spalle.
Sybilla era in debito d’ossigeno. Urlava ed era quasi completamente sommersa. Era riuscita a liberare il braccio e adesso cercava di divincolarsi con tutte le sue forze. Ma apparentemente senza risultati.
L’anaconda la stava stritolando. Gli occhi indiavolati della bestiaccia erano davanti ai suoi, i denti aguzzi e le fauci spalancate.
Riusciva persino a sentire l’odore delle sue interiora.
Sarebbe morta: ne ebbe l’assoluta consapevolezza.
Senza rendersene conto, lasciò che le sue grida si affievolissero. Bevve ripetutamente e prese a tossire, mentre il serpente si attorcigliava sempre di più.
L’aria era stata sostituita dall’acqua.
Al rallentatore vide i suoi capelli biondi che volteggiavano in un passo di danza, accompagnati da bolle e schizzi.
Nobile si voltò su se stesso e con un’energia che non sospettava neppure di avere tornò verso Sybilla.
Un gorgoglio sordo, simile a quello del tappo della vasca che viene rimosso, la trascinò a fondo.
Non c’era più tempo.
Per quanto poteva resistere, stritolata e senz’aria?
Dieci secondi? Venti?
«Ehi!», udì alle sue spalle. «Toglietevi di mezzo!».
Con la coda dell’occhio gli parve di vedere un fantasma emergere dalla foschia.
«Toglietevi. È veleno!», sentì ancora.
Nel tentativo ormai vano di raggiungere Sybilla, individuò una strana canoa di legno. Sopra, alcuni indigeni seminudi stavano riversando nell’acqua una polvere biancastra, agitando dei rami.
Nobile smise di nuotare, cercando di razionalizzare la situazione.
“Veleno?”.
L’uomo a poppa si riferiva alla polvere?
In quel momento Sybilla riaffiorò, tossendo e agitandosi. L’anaconda sembrava averla lasciata.
Sapeva che l’impiego di veleni nella pesca, per intontire o uccidere i pesci, era molto diffuso sia in acqua dolce sia in mare aperto. La pesca al cianuro delle Filippine o al timbó proprio in Amazzonia erano le tecniche più conosciute. In tutti quei casi le sostanze immerse nell’acqua avevano effetto sull’intero ecosistema: se riuscivano a stordire pesci piccoli, di sicuro infastidivano gli animali più grossi. Come gli anaconda.
Mentre il serpente squamato si inabissava digiuno, la canoa degli Awá si affiancò a Nobile.
«Hai bisogno di un passaggio?», sorrise Veneziani, tendendo la mano.