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Giza.
01:17.
Sybilla era terrorizzata.
Aveva trascorso le ultime ore ammanettata a una sedia, in una stanza di due metri per due, spoglia e priva di finestre. L’unico mobilio erano due sedie pieghevoli, un tavolo metallico e una brandina dall’aspetto vagamente militare.
Si trovava sottoterra. Non poteva esserne certa perché era stata incappucciata quasi subito, ma aveva provato a memorizzare il percorso.
Subito dopo il rapimento era stata caricata sul retro di un furgone assieme ai bambini e, dopo un viaggio di alcuni minuti – aveva stimato almeno quindici – era stata fatta scendere.
Aveva contato i passi che aveva dovuto fare per star dietro ai suoi carcerieri, che la trascinavano per entrambe le braccia. L’avevano condotta in un ascensore ed erano scesi. Una volta che le porte scorrevoli si erano aperte, un tizio muscoloso le aveva tolto il cappuccio. Ma lungo il corridoio che si avvitava attorno a un corpo centrale non c’era molto da vedere: un cocktail di pavimenti in linoleum, di pareti bianche e di controsoffitti con incastonate luci al neon. Le porte, tutte metalliche, tutte uguali e tutte chiuse erano su entrambi i lati.
Appena avevano svoltato a sinistra si erano fermati e uno dei militari – ancora con indosso una tuta hazmat – aveva aperto con un tesserino magnetico. L’aveva fatta entrare nell’angusto locale e l’aveva chiusa dentro a chiave.
Alzò lo sguardo verso John Tan-Tan. Anche il bambino era ammanettato alla sedia, ma a differenza sua – che aveva entrambe le mani dietro la schiena – gli avevano lasciato un braccio libero. Lui ne aveva approfittato per appoggiarlo al tavolo e per posarci sopra la testa. Sembrava dormisse.
Sybilla cercò di controllare il respiro. Aveva le mani informicolite, per la paura e per la posizione, e il cuore che martellava nella cassa toracica.
Per un istante si domandò cosa poteva esserne stato del piccolo Quattordici. A differenza di lei e Jonathan, che erano stati fatti scendere quasi subito dall’ascensore, il piccolo era rimasto in custodia delle guardie armate.
Era riuscita a scambiare un’occhiata appena le avevano tolto il cappuccio. Le porte scorrevoli si stavano chiudendo e Quattordici l’aveva fissata con sguardo supplichevole.
Scosse il capo, cercando di allontanare l’immagine delle sue palpebre che sbattevano come quelle di un cerbiatto. Cosa avrebbe mai potuto fare?
Una lacrima le sgorgò dagli occhi. Pensava a Nobile, ma anche alla sua situazione attuale. Era stato tutto inutile: alla fine la SunriseX aveva avuto la meglio.
Passi oltre la porta. Si voltò, in attesa. Cosa ne sarebbe stato di lei?
Ylenia avanzò velocemente, gli scarponi che rimbombavano nel corridoio. Aveva la manica della mimetica arrotolata e si massaggiava l’avambraccio destro.
Era furibonda con se stessa e soprattutto con le persone per le quali aveva lavorato. Era però fiera del modo in cui quella vicenda surreale si era conclusa a loro vantaggio.
Era vero: i bastardi di Ginevra avevano nascosto l’esistenza di un secondo vaccino, già pronto e riservato a pochi eletti. Lei e Dragan non erano fra quelli e se non fosse stato per il piccolo dono che avevano portato alla base, non lo sarebbero mai stati.
Appena arrivati a Giza con la chimera e il soggetto immune, le cose però erano cambiate. Mar’ja Efimova, allettata dalla possibilità di poter mettere le mani sulle cavie, aveva rivelato la scomoda verità: un siRNA, in grado di contrastare il morbo, poteva essere somministrato in alternativa al vaccino per il VP25. Era lo stesso medicinale che era già stato iniettato ai militari a guardia della struttura e ai biologi molecolari del laboratorio, impegnati nell’esame del genoma. Si trattava di un numero limitato di soggetti che condividevano un piccolo particolare: erano utili, funzionali alla missione. Esattamente ciò che erano diventati Ylenia e Sauer: il dono che avevano portato era prezioso e meritava una ricompensa.
Una semplice puntura praticata con una strana siringa simile all’hypospray di Star Trek e tutto era finito. C’era solo un dettaglio, tutt’altro che trascurabile: il siRNA non era stato testato su soggetti che fossero già stati sottoposti al vaccino VP25. Soggetti come loro…
Raggiunta la porta inserì un badge nell’apposito slot e la serratura scattò.
Fece due passi all’interno e si soffermò per un istante a fissare i due occupanti del piccolo alloggio. Il bimbo dormiva e la donna sfoggiava un viso terreo. Incrociò il suo sguardo: anche se non si conoscevano di persona, le loro vicende erano profondamente connesse. La Andrews e i suoi amici le erano sfuggiti più volte con colpi di fortuna. Coincidenze che nelle ultime settimane avevano monopolizzato il suo tempo.
“I cattivi devono essere fortunati tutte le volte, ai buoni è sufficiente una volta sola”. Quel detto, coniato per i narcotrafficanti colombiani, costantemente impegnati a sfuggire alle autorità, si adattava anche alla sua situazione. I buoni ovviamente erano lei e Dragan: l’ennesima casualità aveva portato le sue prede direttamente in Egitto e grazie a loro avevano ottenuto il vaccino.
Si mosse verso il bambino e con una piccola chiave fece scattare le manette.
«Dove lo porta?». Nonostante la paura, Sybilla trovò il coraggio per sfidarla sguainando uno sguardo affilato.
La carceriera voltò la testa. L’americana non avrebbe visto l’alba del giorno successivo. Meritava una spiegazione.
«Scendiamo di qualche piano», rivelò, pensando all’ultimo atto della sua missione. Con la mano gli carezzò la testina per svegliarlo. «C’è una persona che lo vuole conoscere».
Sybilla sentì un nodo stringersi in gola. Agitò le mani e le manette tintinnarono proprio nello stesso istante in cui, in corridoio, una sirena cominciava a suonare.
Ylenia scattò in piedi. Fece alzare il bambino e lo trascinò fuori, verso il vano scala.
“Cazzo”.
Oltre alla sirena, adesso si udivano anche colpi di mitra.