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Roma. Nello stesso istante.

19:50.

 

Michail Rodchenko arrivò a Palazzo Chigi a bordo di una grossa berlina con i vetri oscurati.

La capitale italiana, che aveva attraversato provenendo dall’aeroporto di Fiumicino, appariva deserta e battuta da una pioggia incessante. Le autorità, come in molti altri Stati del mondo, avevano ordinato il coprifuoco anche se nella zona di piazza del Popolo spesso si susseguivano manifestazioni di protesta. L’esercito si rifiutava di perseguire i manifestanti, preferendo concentrare le forze sul Quirinale e su Palazzo Montecitorio, dove si era insediato il Comitato di Crisi.

Il ministro russo, per evitare occhi indiscreti, aveva chiesto di essere portato direttamente dal suo amico Tommaso Signorini. Aveva attraversato una via del Corso e una piazza Colonna desolatamente vuote, accompagnato solo da un’esposizione di croci dipinte con la vernice rossa sui portoni dei palazzi. Era il macabro ricorso storico di quanto accaduto durante le epidemie di peste bubbonica del XVII secolo, quando si usava marcare con la vernice gli usci delle case visitate dalla malattia. Erano chiamate “croci della peste”, ma con una piccola grande differenza: mentre nel Seicento il simbolo della passione di Cristo era accompagnato da invocazioni alla pietà del Signore, ora invece la scritta più ricorrente era un hashtag: #DioCiHaAbbandonato.

«Ben arrivato, ministro». Il capo cerimoniere, un omino di bassa statura bardato con un abito di sartoria, si avvicinò all’auto appena questa si fermò nel cortile d’onore. Accennò un inchino e tese la mano, mentre con l’altra si premeva una mascherina sul naso.

Rodchenko lo salutò e si guardò attorno. Era già stato nella sede del governo italiano e, benché l’atmosfera fosse molto diversa, riusciva a ricordare solo un aneddoto raccontato da Signorini: un concerto di Mozart tenutosi lì nel 1770.

«Come sta?», chiese il ministro, nella sua tipica cadenza cattedratica.

Il capo cerimoniere scosse lievemente il capo. «La sta aspettando», si limitò a riferire.

Rodchenko si avviò verso lo scalone centrale di marmo e accompagnato da un piccolo stuolo di segretari muniti di mascherine salì verso il piano nobile. Raggiunta l’anticamera fu fatto accomodare nella cosiddetta Sala dei Mappamondi. Non gli piaceva lo sfarzo di quel palazzo, gli specchi, le decorazioni neoclassiche, gli intagli dorati, i globi di legno sistemati accanto alla porta. Li trovava decisamente fuori luogo e lui stesso aveva fatto rimuovere dal suo ufficio di Mosca tutti gli oggetti d’arte che i suoi predecessori avevano accumulato.

Rodchenko era un uomo semplice e a settantacinque anni suonati non voleva dimenticare le sue umili origini.

Nato in un sobborgo petrolifero a mille chilometri dalla capitale sovietica, era rimasto orfano di padre a soli diciotto mesi. All’età di quattro anni aveva perso anche la madre, morta in fabbrica. Era così cresciuto troppo in fretta con uno zio e altrettanto in fretta, raggiunta l’età minima, si era arruolato nell’esercito.

L’Armata Rossa era diventata la sua famiglia e grazie alla sua mente brillante, durante quel periodo aveva potuto studiare medicina. Negli anni Sessanta era stato inviato in Egitto, nella missione che avrebbe segnato la sua fortuna. Era rimasto nella terra dei faraoni per quasi vent’anni, prima da semplice medico militare, poi come “numero due”: alle dipendenze di Nikolaj Pavlovic, uno dei militari che come lui aveva partecipato al Progetto ISIS. Rientrato in Russia negli anni Ottanta, durante la cosiddetta perestrojka, aveva fondato la sua prima società: l’Ulybka, sorriso, in ricordo della strana espressione della mummia di Giza.

Con la caduta del comunismo e l’avvio delle privatizzazioni aveva fatto fortuna. In pochi anni la sua società era divenuta una multinazionale globale e grazie al denaro era arrivato anche il potere. Sceso in politica con il partito di maggioranza, Rodchenko era stato eletto alla Duma e dopo poco nominato ministro.

La sua influenza, aumentata esponenzialmente, gli aveva permesso di mettere le mani proprio sulla mummia da cui la sua società aveva ereditato il nome. Il reperto – custodito per anni dall’Accademia Sovietica delle Scienze – era stato così acquistato dall’Ulybka per essere studiato. Quando i suoi scienziati avevano completato il lavoro, Rodchenko aveva ceduto alle pressioni di Klaus Vonn e Dominique De Lestes e l’aveva venduto al Vaticano.

 

«Il presidente la aspetta», annunciò un commesso: abito scuro, alamari d’argento, papillon e nastro nero al braccio.

Rodchenko, che nel frattempo si era seduto su un divanetto con braccioli in oro, si alzò di scatto con il piglio di un ventenne. Varcò la porta e si ritrovò nella sala che era stata la sede del Consiglio dei ministri, appena sciolto per l’emergenza mondiale. Le pareti erano decorate con arazzi fiamminghi che cingevano una grande balconata affacciata su via del Corso e un camino marmoreo. Appoggiato al coro ligneo c’era Tommaso Signorini, pallido come un lenzuolo e con il viso coperto da una mascherina azzurra.

«Mi hanno fottuto!», esordì l’italiano. Era visibilmente affaticato, l’espressione vacua. Nonostante tutto però stava in piedi, con l’abito ben stirato e il nodo Christensen che metteva in risalto la cravatta rosa.

«Ho saputo». Rodchenko mimò un’espressione di dispiacere, mentre sul suo viso tirato dalla chirurgia estetica apparve una specie di sorriso corrucciato. «Il vaccino della SunriseX non era fatto per noi…».

Il ministro si riferiva al fatto che, mentre tra la popolazione comune veniva distribuito il vaccino per il VP25, a un gruppo ristretto di fortunati era stato somministrato qualcosa di diverso. Si trattava di una piccola sequenza di materiale genetico, un siRNA, introdotta nell’organismo per contrastare il virus. Era stato sviluppato dalla SunriseX simultaneamente al vaccino e doveva servire per tutelare chi era a conoscenza del piano. Signorini, purtroppo per lui, non era tra questi.

«Collegamento in diretta sulla TV nazionale, il presidente del Consiglio che si vaccina davanti a tutti gli italiani», borbottò Signorini. «È stato un bel gesto, solo che mi hanno iniettato la siringa sbagliata».

«Hanno voluto toglierti di mezzo», dedusse, con rammarico, Rodchenko. Gli dispiaceva infinitamente per il suo amico e ancora di più non potergli offrire ciò per cui era lì… «Chi pensi sia stato?»

«Può essere stato chiunque». Il presidente scosse il capo. «Il tuo amico con la barba forse. Oppure qualche cervellone dell’OMS. Ormai la popolazione è vaccinata, non gli servivo più. Però gli serviva la mia poltrona per far insediare il Comitato!».

Rodchenko rimase immobile. Sapeva che anche in Russia, entro breve, sarebbe successa la stessa cosa. Il ridimensionamento del suo potere, con la totale cessione della base di Giza era il primo passo. Le élite stavano mettendo da parte i loro burattini, i politici che avevano sempre eseguito i loro ordini, per gestire direttamente la crisi. E lo facevano in maniera del tutto legale: in virtù del MSEHPA, il trattato che consentiva lo scioglimento dei governi nazionali e l’affidamento del potere a Comitati di Crisi.

«Hai il vaccino buono?», si informò Signorini. Era quella la ragione per la quale aveva fatto venire il ministro russo.

«Sono venuto per parlarti di persona». Rodchenko pronunciò quelle parole con il cuore pesante. «Non c’è un modo facile per farlo. Temo sia troppo tardi: una volta che il vaccino per il VP25 ti è stato inoculato, purtroppo è solo questione di tempo perché l’attivatore inneschi il virus…».

Signorini deglutì, muovendo appena le labbra.

Ci fu un istante di silenzio, rotto solo dal tamburellare della pioggia sul vetro della finestra. Poi, come se l’ammissione d’impotenza dell’amico gli avesse definitivamente tolto ogni speranza, una gocciolina di sangue sgorgò dal naso del presidente.

 

Rodchenko uscì da Palazzo Chigi due ore più tardi, con il volto scuro e l’umore di chi sta salendo al patibolo. Grazie alla pioggia battente riuscì a mascherare le lacrime. Aveva perso un amico, anche se la sua morte gli aveva fatto acquisire una certezza: doveva tenere gli occhi bene aperti.

«Ormai la popolazione è vaccinata», aveva chiarito Signorini. «Non gli servivo più».

Chi non serviva più veniva tolto di mezzo. Ciò che era accaduto a Signorini poteva succedere anche a lui. Stava già succedendo…