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Il Cairo, 29 settembre. Due giorni dopo.

Ora locale 20:05.

 

L’uomo, calato in un’uniforme color avana, avanzò lentamente nell’angusto corridoio. Portava un cappellino con visiera, che faceva risaltare la sua pelle olivastra. Gli occhi neri erano vigili e di tanto in tanto con il labbro inferiore si mordicchiava i baffetti che gli cingevano la bocca. Teneva in mano una ventiquattrore e, dalla fondina appesa alla cintura, penzolava una grossa rivoltella.

Adocchiò il corridoio, circospetto. Le porte delle stanze erano su entrambi i lati, alcune in penombra, altre proprio sotto le applique a parete, accese a intervalli di due. Un ventilatore a pale pendeva dal soffitto e in fondo si vedeva una finestra che, coperta da un logoro tendaggio, lasciava trasparire la soffusa luce del tramonto. L’insegna dell’hotel, mezzo divelta e con la scritta LES PYRAMIDES, risaltava come una cicatrice sulla parete. Il silenzio era rotto solo dallo scalpiccio dei suoi tacchi sul tappeto ocra.

Stanza 232.

Stanza 234.

Si voltò dalla parte opposta, alla sua sinistra: stanza 235.

Dopo una piccola rientranza del muro, coperta dalla carta da parati, individuò la camera che cercava, la 237.

Si accinse a bussare ma non fece in tempo che la serratura scattò. La porta si aprì cigolando.

«Khaled», lo salutò Hannibal Gutierrez. Tese la mano, approfittandone per sbirciare lungo il corridoio dell’hotel. Non c’era nessuno. «Come te la passi?»

«Non dovrei essere qui», lo riprese Khaled el Kamhawi, infilandosi velocemente nella stanza. Era piccola e maleodorante. Aveva un aspetto sudicio: malandati mobili in formica, moquette a quadri macchiata e soffitto scrostato.

«Grazie per essere venuto».

«Neppure voi dovreste essere qui!», rincarò la dose l’egiziano. «Nessuno può circolare». Squadrò a uno a uno gli occupanti della camera, se possibile ancora più male in arnese dell’americano: oltre al suo vecchio conoscente Gutierrez, in piedi c’erano altri due militari, una donna e un giovane. Seduti su un letto sfatto stavano immobili altri tre uomini, due più giovani e uno con i capelli grigi.

«Grazie per essere venuto, colonnello el Kamhawi». Fu proprio il più anziano a intervenire in inglese. Si alzò in piedi porgendo la mano destra, che il militare strinse vigorosamente. «Mi chiamo Veneziani. Il colonnello Gutierrez dice che ci possiamo fidare di lei».

L’uomo annuì, mentre il militare americano chiudeva la porta sul corridoio. «È vero, vi potete fidare. Purtroppo però quello che chiedete è impossibile».

Hannibal si infilò il sigaro in bocca e si mosse di un passo. Era più alto dell’egiziano di tutta la testa. Quando, due giorni prima, avevano terminato la conversazione con il cardinale Vonn, el Kamhawi era stata la prima persona a cui aveva pensato. Il piano che avevano elaborato prevedeva l’ennesimo viaggio, questa volta in Egitto. Secondo ciò che aveva rivelato il religioso, l’Ulybka Corporation possedeva nella piana di Giza un’avveniristica struttura: se esisteva un posto al mondo dotato dell’attrezzatura per sintetizzare il nuovo vaccino, era senza dubbio quello. C’era solo un dettaglio, per nulla trascurabile: gli scienziati della base difficilmente avrebbero collaborato, a meno che la cosa non gli fosse stata imposta con la forza. Pur non fidandosi del tutto delle confidenze ottenute al VATT, il gruppo aveva accettato l’offerta di aiuto e grazie a un volo diplomatico del Vaticano era atterrato al Cairo.

«Hai le informazioni di cui ti chiedevo al telefono?», lo incalzò Gutierrez.

«Naturalmente», confermò l’egiziano. Faceva parte delle forze governative e aveva conosciuto Gutierrez durante la rivoluzione del 2011. In quell’occasione, l’americano l’aveva salvato da un gruppo di lealisti che lo accusavano di essere una spia al soldo degli USA: cosa, in effetti, corrispondente al vero.

«Le informazioni ci sono tutte», disse. «Quello che manca sono gli uomini».

«Di quanti militari possiamo disporre?»

«Come immaginerete, l’esercito è impegnato in affari più importanti di questo». Khaled accennò un sorriso. Fuori dalla finestra il sole si stagliava basso su un minareto e il cielo era striato di rosso; la periferia del Cairo, solitamente così caotica, era invece deserta e silenziosa. «E se devo essere sincero, molti soldati si sono ammalati. Il luogo che vi interessa, poi, è un vero e proprio bunker, protetto da guardie armate».

«In tutto quanti potremmo essere?».

Khaled abbassò il capo. «Oltre a voi e me? Forse altri tre o quattro. Non di più, purtroppo».

Gutierrez sfoderò una smorfia di stizza. Si voltò e cominciò a passeggiare per la piccola stanza, perplesso.

«Ha avuto modo di visionare le piante della struttura?», incalzò Veneziani.

El Kamhawi aprì la ventiquattrore e tirò fuori una cartellina, che poggiò sul letto. «Tre edifici principali, uno di cinque piani, uno di tre e un locale più basso, adibito a garage. Mura di cinta sormontate da filo spinato, una sola entrata presidiata da guardie armate che non fanno domande prima di sparare. Qualche giorno fa hanno ammazzato tre persone, trafficanti d’arte, che pare avessero provato a entrare».

Veneziani tirò a sé le immagini facendole scorrere sul copriletto. Le mostrò a Sforza, accanto a lui. Si vedeva il compound in alcune immagini riprese dalla strada: accanto all’imponente cancello c’erano due militari in tuta hazmat e muniti di kalashnikov. Le altre foto raffiguravano invece la struttura ripresa da un satellite geostazionario. Nel cortile erano chiaramente visibili grossi TIR e diversi addetti intenti a caricare bancali di legno.

«Sembrano reperti piuttosto pesanti», notò Sforza.

«Le immagini sono di questo pomeriggio», confermò l’egiziano. «Forse stanno facendo i bagagli…».

«A parte il presidio armato», intervenne Veneziani, osservando le prime immagini, «non mi sembra così impenetrabile».

«La parte più importante è quella che non si vede». L’egiziano mostrò un’ultima foto, estraendola dalla cartellina come se fosse stato il suo jolly: si trattava di un prospetto CAD in cui era raffigurato un ascensore che scendeva al di sotto del livello del terreno. «Il mio informatore è stato uno degli appaltatori durante la costruzione: stiamo parlando di cinque piani interrati, con supporto vitale a prova di rischi NBCR. Possono resistere anche a esplosioni nucleari». Fece una pausa per dar modo ai suoi interlocutori di assimilare quell’informazione. «Ve l’ho detto: quella struttura è un vero e proprio bunker. Anche ammettendo di riuscire a entrare nel complesso, non sappiamo cosa ci aspetta all’interno».

Gutierrez si fece passare l’ultima immagine e poi dette un’occhiata fugace verso la porta che comunicava con la stanza attigua. Oltre, i due bambini riposavano assieme a Sybilla. Alla luce di quelle informazioni si domandò per un istante se ciò che avevano pianificato fosse realmente realizzabile: avrebbero dovuto sfondare il cancello, entrare nella base, portare John Tan-Tan in un laboratorio, costringere qualche scienziato a collaborare e attendere. Non era necessario un genio per definire quel piano una pura follia. Soprattutto con un esercito di dieci persone, parte dei quali civili senza alcuna preparazione al combattimento.

«Sentite», propose l’egiziano, raccattando le fotografie. «So che le vostre intenzioni sono buone; se davvero quello che dite è realizzabile, il mondo vi ringrazierà».

«Se ti stai tirando indietro dillo subito», lo aggredì Gutierrez. «Troveremo un altro modo».

«Non sto dicendo questo e non mi sto tirando indietro», lo rassicurò Khaled, deciso. «Te lo devo!».

«E allora?»

«Allora sto proponendo di riflettere bene sulla nostra strategia. Potrebbe esserci un modo migliore di intervenire…».

Fu Sforza a irrompere nella conversazione, che si stava accendendo. «Il nostro piano non spicca per originalità, siamo abbastanza onesti da ammetterlo. Se però lei ha un’idea migliore siamo tutt’orecchi».

El Kamhawi accennò un sorriso, facendo sbucare sotto i baffetti due incisivi monchi. «Come vi dicevo prima, pochi giorni fa sono stati uccisi tre tombaroli, proprio nei pressi della base».

«E allora?»

«Conoscete Abu Sir?», domandò l’egiziano, buttando un’altra occhiata sfuggente oltre la finestra. «I trafficanti di opere d’arte di cui vi dicevo sono proprio di quelle parti».