19
Mosca, 24 settembre.
Ora locale 19:10.
Sforza, Veneziani e Nobile si presentarono a casa del tenente Anatoly Bogdanow poco dopo il tramonto.
Mosca, la città che l’ispettore aveva scelto per il suo ritiro dorato, sfavillava di luci nonostante il coprifuoco. Era una somma di chiaroscuri, il risultato lampante di tutte le contraddizioni degli ultimi anni… e dell’ultimo periodo. Le cupole a bulbo dorate affioravano attorno all’anello dei giardini e facevano da contraltare ai neon dei casinò di piazza della Rivoluzione. Allo stesso modo, alla luce velata della Piazza Rossa si opponeva quella moderna e accattivante dei grattacieli del centro finanziario.
La decisione di Sforza di trasferirsi nella terra degli zar, prima che la crisi del nuovo Ebola cominciasse, non era stata casuale. Come lui, prima di lui, molti personaggi noti avevano scelto la Russia per sfuggire alle tasse imposte dai governi occidentali. Il più discusso era stato l’attore Gérard Depardieu nel 2012, ma non era stato certamente il solo. L’acquisizione della cittadinanza, se si aveva molto denaro da spendere, avveniva con relativa facilità e il sistema fiscale era molto più leggero e permissivo.
Sforza – che nel corso di una delle sue precedenti indagini aveva intascato una mazzetta a sei zeri1 – non poteva più permettersi di vivere in Francia. Il fisco lo tallonava e soprattutto rischiava di dover rivelare la reale fonte del suo denaro. Non si considerava un criminale, soprattutto perché nei suoi comportamenti non c’erano vere vittime, se si escludevano milionari viziati. Da sempre aveva camminato nella zona grigia dei regolamenti e aveva sfruttato la sua posizione nell’Interpol cercando di avvantaggiarsene. Nella sua lunga carriera a caccia di traffici di droga e armi spesso era dovuto scendere a quelli che chiamava “innocui compromessi”. Gli stessi che gli avevano consentito di arrivare a Mosca con la scusa di un’indagine sul delitto di un politico di Opposizione Russa.
Dall’inizio di agosto, quando aveva cominciato a indagare su De Lestes, (e per la prima volta aveva incontrato Bogdanow), sembrava però trascorsa un’intera esistenza. I suoi problemi di tasse, le acrobazie con i superiori, il tentativo di occultare il gruzzolo frutto della sua corruzione all’acqua di rose… Tutto era mutato come un camaleonte. Compreso lui: anche se si rifiutava di ammetterlo, il denaro per il quale tanto aveva lottato aveva perso importanza. Sforza, adesso, sentiva un grande peso su di sé, una responsabilità che ormai gli aveva fatto abbandonare il suo atteggiamento da eterno Peter Pan. Suo malgrado era cresciuto e quella era la ragione per la quale, insieme ai suoi compagni, al bambino, a Gutierrez e ai due militari, era salito sul B-52 americano.
Il viaggio da Guantánamo fino in Russia era stato surreale. Volare al tempo dei fratelli Wright doveva avere avuto più o meno lo stesso fascino: i cieli erano completamente sgombri per l’effetto delle no-fly zones e gli aeroporti solo distese di asfalto scuro. Appena erano entrati nello spazio aereo ex sovietico, erano stati affiancati da due moderni caccia T-50, che li avevano costretti ad atterrare. Erano occorse due lunghe ore di colloqui serrati tra Sforza e i funzionari dell’Armata Rossa per convincerli che la loro missione era assolutamente vitale.
I russi li avevano così sistemati nella base di Čaadaevka Penza, nei pressi di Voronovo, e da lì il gruppo si era diviso. Sybilla Andrews, per evitare di far correre inutili pericoli al piccolo Jonathan, era rimasta sotto protezione dei militari. Gutierrez, Milano e Pulaski, scortati da una squadra di agenti della sedicesima armata aerea russa, avevano deciso di compiere un sopralluogo a Istra. Sforza, Veneziani e Nobile, nonostante fossero stravolti per i numerosi viaggi e i continui cambi di fuso orario, erano invece andati a trovare Anatoly Bogdanow.
«Non dovreste essere qui, c’è il coprifuoco». Il tenente del МУР, che viveva nella pittoresca e costosa zona di Patriarshie Prudy, stava sdraiato sul divano-letto del suo monolocale, madido di sudore. Il suo volto era irriconoscibile, scavato come quello di un teschio, la pelle ridotta a un lembo biancastro e le labbra livide.
«Abbiamo un permesso speciale», sorrise Sforza rivolgendosi al poliziotto in inglese, affinché anche i suoi compagni comprendessero il colloquio. Strinse al volto la piccola mascherina NBC messa a disposizione dai russi e proseguì: «Anche la situazione è decisamente speciale e per fortuna i tuoi capi ci hanno ascoltato».
«Siete venuti per nulla», ringhiò il tenente, con forte accento. «Non credo a una parola di quello che avete detto, vaccini truccati e attivatori: perché dovrei aiutarvi?».
Veneziani lo fissò senza proferire parola. Diceva di non credergli, eppure era evidente che gli rimanessero pochi giorni di vita: non era facile capire se si trattasse del contagio di VP25 o più probabilmente degli “effetti collaterali” del vaccino. In un caso o nell’altro, la sua fine era segnata.
«Hai bisogno di noi», gli fece notare Sforza. «Ti serve una cura che sia davvero efficace!».
«E scommetto che voi siete in grado di trovarla…».
«Stiamo lavorando a un nuovo vaccino e crediamo di poterlo sintetizzare qui in Russia». L’ispettore fece spaziare lo sguardo nella stanza, piccola ma arredata con pochi pezzi di pregio. Le pareti erano di un appariscente greek blue e il mobilio attorno al divano lucido e squadrato. Ogni cosa, a cominciare dai quadri espressionisti, era elegante e accuratamente posizionata. «Ti dico solo un nome: Dominique De Lestes. La torre di Tesla di Istra, che il monsignore aveva visitato prima di essere ucciso, ha a che fare con questa storia».
«Non è stato ucciso… È stato un incidente». Bogdanow provò a sorridere, ma un colpo di tosse gli soffocò la battuta in gola.
«Devi aiutarci, Anatoly!». Sforza addolcì la voce. Non conosceva il tenente così bene da dargli del tu, ma suppose che la cosa avrebbe giovato ai suoi scopi. «Sai di non avere altre speranze».
Il russo si incupì, lottando con il parossistico rifiuto di rivelare quanto sapeva. Che gli piacesse o no, Sforza purtroppo aveva ragione. Alla fine capitolò, affossando il mento sul busto scheletrico. «Cosa volete esattamente?».
1Tali vicende sono narrate nel precedente romanzo di G. L. BARONE, La chiave di Dante, Newton Compton Editori, Roma 2015.