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Al largo della Giamaica, 21 settembre. Due giorni dopo.
Ora locale 06:10.
L’alba sul Mar dei Caraibi toglieva il fiato per la sua bellezza.
Il sole era una palla infuocata sospesa sull’orizzonte e il cielo riverberava striature impressioniste che coprivano l’intero spettro dei colori vermiglio. Il mare, cristallino e calmo, spumeggiava sotto lo scafo affusolato della corvetta partita da Caracas.
«Speravo di trovarti qui», esclamò Sybilla, avanzando lentamente sul pavimento metallico del ponte. I capelli biondi, sciolti, sfarfallavano al vento.
«Mi piace alzarmi presto», replicò Niccolò Nobile. Per un istante, trovandosi nuovamente su una imbarcazione in compagnia di Sybilla, ebbe come una specie di déjà-vu.
«Qui non credo incontreremo delfini rosa che si trasformano in gentiluomini», ghignò lei, dimostrando di pensare allo stesso avvenimento di un mese prima. Da quando avevano solcato il fiume parlando delle leggende del Rio delle Amazzoni, erano cambiate molte cose…
Dopo il ritrovamento del bambino e di Veneziani, Sforza aveva esposto la sua teoria. Se l’idea che aveva avuto l’ispettore fosse stata confermata, finalmente avevano un mezzo concreto per realizzare il loro obbiettivo: sintetizzare il vaccino partendo dal DNA di John Tan-Tan.
C’era però un problema che, senza l’aiuto di Gutierrez, non avrebbero mai potuto risolvere: il piano di Sforza richiedeva un nuovo viaggio in Europa. Con il mondo in ginocchio, i coprifuoco, le quarantene, i voli di linea sospesi e le no-fly zones, quel dettaglio poteva rivelarsi insormontabile.
«Cuba, base di Guantánamo», aveva sentenziato il colonnello, appena Sforza aveva chiarito i dettagli della sua idea. «Da lì prendiamo in prestito un B-52 e il gioco è fatto!».
E a distanza di quarantott’ore da quello scambio di battute, il gruppo al completo – con l’esclusione del solo professor de Souza, che aveva preferito restare in Brasile per “tutelare” il suo popolo – era risalito sul Black Hawk ed era volato fino a Caracas. Imbarcati sulla corvetta venezuelana Enterprise 1701-F, adesso si trovavano a poche miglia marine da Guantánamo.
«Be’, forse non c’è un delfino rosa che si trasforma in gentiluomo…», scherzò Nobile. Si voltò verso la ragazza: alla luce dell’alba la sua pelle bianchissima con le gote arrossate risaltava come se fosse stata di ceramica. «Però un gentleman in carne e ossa è qui davanti a te!».
Sybilla si concesse una risata. Per la prima volta da giorni si sentiva più serena, con un obiettivo finalmente raggiungibile. La compagnia di Nobile, poi, la faceva sentire tranquilla. Con lui, a differenza che con gli altri, riusciva ad aprirsi e la sua timidezza istintiva cadeva. «Cosa ne pensi della teoria di Sforza?», indagò, poggiando le mani alla battagliola.
Nobile sospirò. «Se c’è una lezione che ho imparato è che Sforza difficilmente si concede salti nel buio». Si mordicchiò le labbra. «E poi non mi sembra che avessimo molte alternative. Hai detto anche tu che la priorità è trovare un laboratorio attrezzato che possa sintetizzare il vaccino».
«Mi dispiace far correre rischi al bambino».
«Anche a me», si trovò d’accordo Niccolò. Le sfiorò la spalla. «Purtroppo non avevamo alternative: dovevamo portarlo con noi. Se c’è una minima speranza che quella gente ci aiuti, il DNA di Jonathan è indispensabile».
Sybilla non proferì parola, limitandosi a poggiare la sua mano su quella di Nobile. Trascorsero diversi secondi senza che nessuno dei due dicesse nulla.
A dritta comparve un’isoletta di sabbia bianca da cui affioravano ciuffi di palme rigogliose. Entrambi si ritrovarono a fissarla, trasportati da quel precario istante di normalità.
«Come vedi il tuo futuro?», disse all’improvviso Nobile, senza distogliere lo sguardo dall’isola.
Sybilla aprì le labbra tumide senza dire nulla. Poi cambiò idea. «Voglio credere che abbiamo una possibilità».
«Per cosa?»
«Nella vita c’è più di questo. Ti sembrerà folle, ma io continuo a pensare che quando tutto sarà finito avrò una casa, magari proprio su un’isoletta come quella. E una famiglia…».
Nobile non rifletté oltre. Il linguaggio del corpo di Sybilla gli fece vibrare i sensi. «E un uomo…», abbassò la voce leziosa, avvicinando le sue labbra a quelle della ragazza.
Lei contraccambiò, chiudendo le palpebre. Anche se lo desiderava, non se lo attendeva.
Il bacio però fu molto più breve di quanto si sarebbero aspettati entrambi. Fu Nobile a scattare all’indietro. Si voltò di colpo e sul ponte della corvetta, le mani infilate nei bermuda, c’era Sforza, in silenzio.
«Non volevo interrompere…», esordì, evidentemente a disagio.
«Non hai interrotto niente!», fu lesta a rispondere Sybilla. Si passò il dorso della mano sulle labbra. Ci fu un istante di muto imbarazzo, poi fu lei stessa a proseguire. «E quindi adesso siamo a caccia di scoop giornalistici?»
«Il nostro obiettivo non è certo trovare gli assassini degli “infanti dalla bocca cucita”», commentò Sforza.
«Io non ho mai sentito parlare di questa storia».
«I cadaveri dei bambini sono stati trovati verso metà agosto», spiegò Sforza. «La stampa russa aveva dato molto risalto alla vicenda».
«Ci credo bene», confermò Sybilla. «Un serial killer che uccide incollando la bocca delle sue vittime…».
«Tu sei sicuro di quello che ci hai raccontato?», incalzò Nobile. «Davvero credi che questa vicenda sia in qualche modo connessa…?».
Sforza si avvicinò di qualche passo, andando ad appoggiarsi anche lui alla ringhiera di metallo. In quel momento la corvetta sembrava stesse rallentando e così, per un istante, i refoli che gli scompigliavano i capelli si interruppero.
«I giornali ne hanno parlato a lungo», riferì, asciutto. «Quando accadono questi fatti di cronaca la stampa ci si butta a capofitto, cercando di scovare i dettagli più macabri».
«Come i cadaveri di due bambini, entrambi con sei dita».
Sforza annuì deciso. «Ricordo di aver letto anche un approfondimento, forse su uno di quei periodici patinati: un esperto diceva che si trattava di un difetto genetico che colpiva lo zero virgola qualcosa dei nuovi nati. Trovarne due insieme era praticamente impossibile… è per questo che me lo sono ricordato quando Veneziani ha parlato di esadattilia».
«La polizia ha rilasciato qualche dichiarazione?», incalzò ancora Sybilla.
«Fino a quando sono rimasto a Mosca non si erano sbottonati. Però conosco l’ispettore incaricato, un certo Anatoly Bogdanow, e la cosa non mi stupisce». Il viso da capo cameriere del tenente del МУР – che si era occupato anche dell’assassinio di De Lestes – gli si parò davanti agli occhi, immobile sulla pista d’atterraggio di Vnukovo. A quel punto era chiaro che il monsignore doveva sapere qualcosa di quei bambini e probabilmente del reale scopo della torre di Tesla: ecco perché doveva essere andato a Istra.
«Non ho sentito il gallo cantare», intervenne con il suo vocione Hannibal Gutierrez, la divisa sgualcita e il cubano già acceso nonostante l’ora. «Eppure siete già tutti svegli!».
«Anche lei», fecero in coro Nobile e Sybilla. Si guardarono e sorrisero.
«Ho dovuto fare qualche telefonata: prendere in prestito un bombardiere della flotta americana richiede i contatti giusti!».
«L’ha ottenuto?», lo incalzò Sforza. «Il B-52, intendo».
Il colonnello accennò un inchino e andò anche lui ad appoggiarsi al parapetto accanto agli altri. Il sole rossastro disegnò quattro ombre immobili sul ponte, fino a che quella di Gutierrez non si mosse di nuovo. «Naturalmente», concluse, voltando il capo. «Speriamo solo che questa storia degli infanti dalla bocca cucita ci aiuti per davvero…».