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Giza.
23:57.
«Vedete la struttura principale?». Sulla sulla sua sedia bloccata alla struttura del furgone, lo Zar passò un piccolo binocolo a Sforza.
Appena el Kamhawi aveva mostrato le foto satellitari – che ritraevano gli addetti dell’Ulybka intenti a caricare due grossi TIR – il trafficante aveva mobilitato i suoi uomini. Grazie a una rete di informatori a Giza sapeva già che alla base era in corso un’importante movimentazione di uomini e merci. Uno spostamento di tale portata da monopolizzare per ore le strade ormai deserte della città. E da richiedere un cargo EgyptAir nonostante la chiusura del traffico aereo. Per avere maggiori dettagli, tre dei suoi migliori uomini inviati alla base ci avevano rimesso la pelle.
Nessuno sapeva qual era la destinazione di ciò che stavano caricando sui camion. Non era chiaro neppure il momento in cui si sarebbero mossi. Ciò che si sapeva era però che all’Ulybka stavano smantellando la base per far posto a un nuovo importante progetto: le immagini portate dal Fligel’-Adjutant suggerivano che la cosa fosse imminente.
«…fu costruita durante il Progetto ISIS, a poche centinaia di metri dal luogo del ritrovamento del sepolcro», chiosò il russo. «La mummia fu portata a Mosca, ma molti altri oggetti, alcuni di valore inestimabile, rimasero qui in Egitto».
«In quei sotterranei», completò la spiegazione el Kamhawi, assaporando una sigaretta. Il furgone era stato parcheggiato a distanza di sicurezza dalla recinzione, sul confine nordoccidentale dalla necropoli. Facendo spaziare lo sguardo nella notte, alla luce lattescente della luna si riusciva a scorgere nitido il profilo appuntito della piramide di Chefren e di quella di Cheope.
«…si volle assecondare il governo egiziano», spiegò ancora lo Zar. «La maggior parte dei ritrovamenti rimaneva esattamente dove era stato rinvenuto. Un’équipe dei miei connazionali si installò in quella zona e dopo una prima tendopoli furono costruiti i primi edifici».
Sforza, seduto accanto all’autista, mise a fuoco l’edificio più alto. Cercò di immaginare come doveva essere stata quell’area di deserto cinquant’anni prima. Non fece in tempo a focalizzarsi sulla struttura che, d’un tratto, un bagliore improvviso alla sua sinistra captò la sua attenzione. Già a occhio nudo adesso si notava la Sfinge, improvvisamente riaffiorata dall’oscurità e inondata da potenti fasci di fotoelettriche. Fino a pochi attimi prima, come tutto il resto della città, era completamente al buio per i continui black-out, adesso invece era illuminata a giorno.
Guardandola, non poté fare a meno di ricordare le parole del cardinale Vonn. “Il corpo è lungo e schiacciato”, aveva precisato il religioso, “e la testa sproporzionata, sensibilmente più piccola. Ciò indica semplicemente che la testa attuale non è quella originale: è stata ricostruita successivamente alla distruzione di quella prediluviana”.
Mentre tornava a posare gli occhi sul binocolo, si rese conto che la teoria del cardinale poteva avere un fondo di verità. E, in fin dei conti, tutti gli eventi che avevano sconvolto il mondo fino a quel momento – virus, vaccino, chimere –, erano strettamente connessi a quella verità.
«E adesso stanno facendo armi e bagagli», notò Gutierrez. «I russi se ne vanno e portano via i reperti più antichi per far posto a qualcos’altro. Chissà perché, ma mi viene da pensare a un qualche fottuto messaggio nascosto nel DNA».
«Nei mesi scorsi hanno scavato nel deserto per posare cavi di fibra ottica. Hanno anche portato tonnellate di materiale informatico. Ovviamente si sono liberati di ciò che non gli serviva più…». Lo Zar abbassò il capo sulle sue gambe. Era paralizzato fin dal 1961, da quando aveva ventitré anni, ma ricordava il giorno dell’incidente come se fosse accaduto un istante prima. Il sepolcro del “Viaggiatore” era stato appena scoperto e il generale aveva dato l’ordine di aprire il sarcofago. La lastra di granito era stata sollevata e, come spinta da una forza ancestrale, era levitata nell’aria e si era riversata per terra. Su di lui. Sulle sue gambe.
L’esercito gli era rimasto vicino, e dopo che si era completamente ristabilito, paralizzato dalla vita in giù, gli aveva affidato il comando del Progetto ISIS. Aveva così avuto accesso a molti dei reperti trovati nella tomba: gioielli, un bastone da passeggio, uno scrigno dorato. C’erano persino decine di papiri con formule magiche che avrebbero richiesto anni di studi (e che, se solo avesse voluto, al mercato nero gli avrebbero fruttato milioni di dollari). Ma Nikolaj Pavlovic non era quel tipo di persona e aveva sempre svolto il suo incarico con riconoscenza e massimo rispetto delle regole. Non così il suo secondo: Michail Rodchenko, che approfittando della caduta del comunismo era diventato ricco proprio grazie a ciò che avrebbe dovuto proteggere.
Quell’evento, vissuto quasi come un tradimento personale, lo aveva convinto a lasciare l’esercito e a dedicarsi a ciò che conosceva meglio: armi e reperti archeologici. Lo Zar era così diventato un’autorità nel campo, facendo affari con collezionisti che andavano dall’Asia all’Europa. Attraverso il porto di Dubai aveva fatto uscire dalla terra dei faraoni decine di rarità; una volta anche il famoso sarcofago di Shesepamuntayesher risalente al 1000 a. C., che recentemente era stato ritrovato dalle autorità americane.
Nella sua vita aveva raggiunto traguardi inimmaginabili ma aveva sempre avuto un rimorso: non essere riuscito a prevedere ciò che Rodchenko avrebbe fatto. Non aver saputo approfittare della situazione e impossessarsi di ciò che adesso l’Ulybka stava portando chissà dove.
In quel momento, il cellulare di Gutierrez prese a vibrare. Era stato privo di campo per l’intera serata e proprio allora, grazie al ripristino della corrente elettrica, aveva ripreso a funzionare.
«Sì», sussurrò l’americano, per una volta senza il suo sigaro.
Ascoltò con distacco la voce di Antony Milano, come se si trattasse semplicemente di un rumore di fondo. Il viso restò impassibile, gli sguardi degli altri occupanti del furgone che si facevano interrogativi.
«Ricevuto», gemette alla fine, cupo. «Non ti muovere. Arriviamo!».
A un chilometro di distanza, un militare appostato sul tetto della base staccò l’occhio dal mirino di precisione.
«Ore dieci», sibilò all’indirizzo dell’uomo che gli stava di fianco, in piedi con le mani calate nei pantaloni. «Furgone nero».
Michail Rodchenko, sigaretta tra le labbra, strizzò gli occhi e si fece passare un binocolo a infrarossi. Alla luce verde il mezzo appariva un normale camion per le consegne. «Ne sei sicuro?»
«Non l’avrei disturbata altrimenti», aggiunse l’uomo in russo. Era uno degli ultimi connazionali del ministro a essere ancora nella base, ormai smobilitata per far posto alla Guardia speciale, l’élite di militari fedeli a Verdi. «Otto persone a bordo, più una seconda auto poco distante. Se l’illuminazione della Sfinge non si fosse riaccesa all’improvviso probabilmente non li avrei neppure notati».
Rodchenko assaporò la nicotina, il volto illuminato dalla brace della sigaretta. «Potrebbero essere loro. Mandate qualcuno a vedere».
Trenta secondi più tardi il cancello della base si aprì e ne uscì una motocicletta Husqvarna con a bordo due persone. Avevano l’ordine di non sparare e di identificare, attraverso microcamere installate sui caschi, gli occupanti del furgone.
Puntò dritta sulla necropoli proprio mentre la luce della Sfinge ricominciava a lampeggiare come un neon esausto.
Percorse il tratto di strada a fari spenti ma lo scoppiettio del motore monocilindrico annunciò la sua presenza molto prima che arrivasse in prossimità del furgone.
«Eccoli», indicò a un certo punto il passeggero, aggrappato con entrambe le mani alla vita del pilota. Inquadrò con il suo visore l’autista e un altro uomo che gli stava di fianco. «Avvicinati ancora».
Quando era più o meno a cinquanta metri, l’illuminazione tra la piramide di Cheope e quella di Chefren si spense di nuovo, ricacciando la Sfinge e l’intera valle nell’oscurità.
Più o meno nello stesso istante, il furgone si mise in moto e ingranò la retromarcia, sollevando una nuvola di polvere.