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Cittadina di Istra, oblast’ di Mosca, 25 settembre.
07:25.
La foresta di betulle era stata la sua casa per oltre un mese.
La paura, che l’aveva attanagliato nei giorni successivi alla fuga, era stata lentamente sostituita dalla solitudine. Nessuno, da quella mattina, lo aveva però trovato. La ricordava alla perfezione: la fuga, la luce del sole, il cielo. E poi gli spari, due dei suoi compagni che venivano acciuffati e altri due che cadevano, esanimi.
Lui si era salvato per miracolo, l’unico tra i cinque fuggitivi. Per alcuni giorni si era nascosto, con il cuore che martellava nel torace per la paura. Poi, poco alla volta, le ricerche si erano allentate. Da tredici giorni e dodici notti – ne era sicuro perché le aveva contate – non aveva più visto anima viva. Chissà, forse gli uomini con il sorriso sulla divisa dovevano aver pensato che sarebbe morto di fame.
Si sbagliavano.
Aveva trascorso il suo tempo nascosto tra la boscaglia, infreddolito e tremante. Si era però cibato di scoiattoli e volpi, che aveva imparato a cacciare sotto l’impulso della fame. Era stato guidato da un istinto primordiale, da predatore, una dote che non sospettava neppure di possedere.
Ma adesso che era al sicuro?
La sua vita si limitava semplicemente a quello: cacciare per poter mangiare? Non avrebbe più avuto la possibilità di accedere ai saperi del mondo?
Si arrampicò agilmente sul tronco di una betulla e ne raggiunse la cima. La foresta era coperta da una fine foschia, ma dalla sua posizione riusciva ugualmente a distinguere i bracci metallici della torre. Come faceva tutti i giorni, era tornato verso la sua casa, il luogo dove era nato e cresciuto. Nonostante sapesse che poteva essere pericoloso, non era riuscito ad allontanarsi dall’unico posto che davvero conosceva…
In quell’istante uno stridio di pneumatici che aveva imparato a temere arrivò al suo nervo auricolare. Non era dotato di orecchie, tuttavia il suo udito era fenomenale: riusciva a percepire pochi decibel a distanza di chilometri. E quel clangore lo riconobbe subito: mezzi blindati, gli stessi che lo avevano tallonato nei primi giorni della sua fuga.
Si calò di qualche metro e inquadrò il grande parcheggio all’ingresso della centrale.
E lo vide…
Sforza scese dal SUV inspirando l’aria fredda della boscaglia attraverso la maschera. L’asfalto, dove non era coperto di foglie umide e ingiallite, era costellato di pozzanghere. Tutt’intorno le betulle formavano un perimetro uniforme, alto quanto la recinzione della centrale. Oltre il muro che delimitava la parte lunga del parcheggio, si riusciva a distinguere la sommità della grande Wardenclyffe Tower: la famosa torre circolare progettata da Nikola Tesla.
Il parcheggio, fino a quel momento deserto, si era riempito di mezzi dell’esercito russo. Da uno dei più grossi fecero capolino Gutierrez, Milano e Pulaski, scortati da un alto militare dell’Armata Rossa. «Il perimetro ha forma rettangolare», esordì l’americano, consultando una mappa in bianco e nero. «Nessuna traccia evidente dei laboratori che cerchiamo».
Il sopralluogo che aveva effettuato con gli agenti della sedicesima armata aveva confermato le scarne informazioni che Sforza era stato in grado di ricordare. Nonostante una diffidenza iniziale, i russi erano stati di grande aiuto. Si era da poco saputo che il presidente in persona era deceduto per il morbo, e in quei giorni regnava l’anarchia più totale. Brandelli di potere erano in mano a un comitato di Stato maggiore, coordinato proprio dall’esercito: quando Sforza aveva paventato la possibilità di creare un nuovo vaccino, gli alti ufficiali dovevano aver pensato che era un buon metodo per guadagnare popolarità tra i civili.
«Bogdanow è stato molto chiaro», replicò Sforza. Ciò che aveva rivelato il tenente sul letto di morte era più o meno quello che l’ispettore si era aspettato fin dall’Amazzonia. Certo, in quel frangente, quando aveva collegato l’esadattilia del bambino al delitto degli infanti, non poteva ancora immaginare l’esistenza di cloni in carne e ossa: si era tuttavia augurato che l’anomalia delle due piccole vittime fosse in qualche modo giustificata da esperimenti genetici. Esperimenti che, visto il coinvolgimento di De Lestes, dovevano in qualche modo essere connessi a tutta la vicenda. Se le cose stavano così, aveva sperato che nei paraggi di Istra dovesse esistere una qualche struttura che potesse aiutarli a sintetizzare il vaccino.
«I laboratori sono qui: interrati proprio sotto la centrale», spiegò.
«Le rilevazioni satellitari ci dicono che ci sono undici edifici in cemento armato», aggiunse Gutierrez. «C’è una sola entrata principale: quel cancello».
Mentre cominciava a cadere una fine pioggerellina, si mosse verso l’imponente struttura metallica. Milano e Pulaski tirarono il cappuccio dei parka sulla testa e lo seguirono in silenzio.
«L’ingresso ai sotterranei dovrebbe essere da quella parte», precisò uno dei russi, esaminando un piccolo dispositivo GPS munito di antenne. «Non dovrebbe esserci pericolo di contaminazione: Istra è stata evacuata all’inizio del contagio».
«Squadra Odin, in posizione», bisbigliò una voce negli auricolari.
Gutierrez alzò lo sguardo scrutando il cielo plumbeo. Ma la sua attenzione fu attirata altrove: due metri davanti a lui. «Che cazz…», blaterò all’improvviso, puntando il fucile.
«Non sparate», gridò una voce, allarmata.
Pochi attimi prima, il clone numero quattordici era sceso dalla betulla a cui era artigliato e si era avvicinato al parcheggio.
L’odore degli uomini era fortissimo: quella era la ragione per la quale i gendarmi con il sorriso, gli individui con il logo blu sulla divisa, si cospargevano il corpo con speciali detergenti.
Incredulo, si fece largo tra le fronde, acquattandosi tra le foglie bagnate.
Era davvero lui?
Per un istante le immagini di ciò che aveva davanti si dissolsero, sostituite dagli avvenimenti di trentotto giorni e trentanove notti prima. Si trovava nello stesso identico luogo a fissare lo stesso identico uomo.
Sforza, si chiamava. Si era ben impresso quel nome nella mente. Nei suoi ricordi, il tizio era da poco uscito dall’installazione e se ne stava fermo davanti all’auto con lo sportello aperto. Pensava e teneva lo sguardo fisso nella sua direzione, verso la foresta, verso di lui. In quel frangente si era perfino domandato cosa sarebbe accaduto se si fosse mostrato. Non aveva urlato, perché la sua trachea era priva di corde vocali, e anche se avesse potuto, gli eventi erano precipitati nel volgere di pochi attimi: all’improvviso i cacciatori erano arrivati a bordo del loro fuoristrada.
«Sforza!», aveva gracchiato uno dei gendarmi. Poi assieme ad altri era piombato addosso al tizio vestito con il giubbotto di pelle. «Venga con noi!», gli avevano ingiunto.
Lo avevano caricato sul sedile posteriore e, un secondo prima che il mezzo ripartisse, Sforza si era voltato ancora verso la foresta.
Si era salvato grazie a quell’uomo, che aveva attirato su di sé gli assalitori pur di proteggerlo.
Scacciò quei ricordi: Sforza era nuovamente davanti a lui, immobile sotto una pioggia che si stava facendo più insistente.
“Non c’è nulla da temere”, si disse. Era il momento di rompere la sua monotonia fatta di cibo da cacciare e di notti all’addiaccio.
Si alzò di colpo e sollevò le mani bene in vista, come aveva visto fare in uno di quei film che gli mostravano all’istituto. Uscì dal nascondiglio con un lieve frusciare di rami e mosse pochi passi con i piedi scalzi.
«Che cazz…», grugnì l’uomo con i capelli bianchi.
«Non sparate», urlò qualcun altro.
“Quattordici” li ignorò, limitandosi ad avvicinarsi a Sforza. Mosse impercettibilmente le labbra minuscole, il massimo sorriso che gli consentiva la sua fisionomia.