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01:24.
Le note malinconiche della Sala del palazzo del re, la prima scena dell’Aida di Giuseppe Verdi, coprivano gli spari, rimbombando nella sala attigua al laboratorio B.
L’Oracolo, protetto da vetri spessi quindici centimetri, stava in piedi, canticchiando con la voce roca. Adolf Hitler, accerchiato dai russi e rinchiuso nel suo bunker sotterraneo, doveva essersi sentito più o meno come lui in quel momento.
Ma con una sostanziale differenza: il dittatore che per primo aveva intrapreso gli studi sull’eugenetica era stato sconfitto. Lui e il suo progetto, no. Non ancora.
Osservò le telecamere di sorveglianza: gli aggressori si erano impossessati dell’esterno della base, dove imperversavano esplosioni e raffiche di mitra. Anche l’interno sembrava già sotto il loro controllo. Per fortuna nessuno era salito sul tetto. Ottima notizia. Inquadrò la grande terrazza sopra l’edificio 3: l’elicottero AgustaWestland 189 a lungo raggio era pronto a decollare, le pale già in movimento e la Guardia speciale già in posizione.
Distolse lo sguardo, concentrandosi sulle riprese delle scale: da quanto vedeva, gli ostili che stavano scendendo verso il laboratorio si contavano sulle dita di una mano.
Michail Rodchenko era tra loro.
“Un asino può fingersi cavallo ma prima o poi raglia”.
Dei suoi burattini, il russo era quello che gli era sempre piaciuto meno. Anche se aveva bisogno di lui, della sua base, delle sue biotecnologie, non si era mai troppo fidato. E aveva avuto ragione: come un cane che si ribella al padrone, aveva provato a morderlo. Senza riuscirci. Era una seccatura, certo: una perdita di tempo che lo avrebbe costretto a prendere delle contromisure. Ma non una sconfitta. Soprattutto, il progetto sarebbe andato avanti ugualmente.
Adocchiò la grande paratia di cristallo: le chimere del laboratorio erano esattamente al loro posto, sedate, collegate ai cavi e attorniate dai tecnici. Alle precedenti dodici se ne era aggiunta una tredicesima che Sauer – il mastino di Greenidge – aveva consegnato quella sera stessa. Assieme al clone, il mercenario aveva portato il regalo più bello che potesse fargli: un bambino dell’Amazzonia, un soggetto immune al VP25. Quando, grazie a Fenice, il virus dei giganti si fosse diffuso, avrebbe avuto decine di soggetti immuni da analizzare… ma era ansioso di cominciare subito la sua ricerca sull’unica cavia che aveva.
«L’analisi sugli “occupanti” è quasi terminata», comunicò Mar’ja Efimova da oltre il vetro. Parlava attraverso un interfono con la sua solita voce triste e cantilenante. «Abbiamo escluso il DNA codificante e attivato i sequenziatori automatici su una percentuale rilevante del genoma. Abbiamo un quadro abbastanza attendibile delle corrispondenze nucleotidiche dell’originale. La mappatura è quasi completa e se vuole possiamo già inserire i dati di raffronto negli elaboratori. In parole povere, possiamo cominciare…».
Possiamo cominciare.
“Soavi parole”.
Certo che voleva. Sorrise, alternando occhiate tra la scienziata e i monitor di sorveglianza. Gli aggressori erano scesi fino al livello -4. C’era ancora tempo, soprattutto perché le porte di contenimento del laboratorio B – quello in cui erano state sistemate le chimere – sarebbero state difficili da aprire. E se anche ci fossero riusciti, lui avrebbe sempre potuto sgattaiolare verso gli ascensori dal laboratorio A, ancora vuoto.
«Procediamo», gridò Verdi dall’interfono, le voci di Radamès, Amneris e Aida che gli riempivano le orecchie.
Focalizzò la sua attenzione sul piccolo Jonathan, sbattendo le palpebre come un bambino davanti a un cesto di caramelle. Era chiaro che il soggetto, legato a un tavolo operatorio, fosse terrorizzato. Urlava e si agitava e i paramedici faticavano a tenerlo fermo. Una donna gli bloccò la testa e altri due lo afferrarono per le braccia.
«La prima fase è un banale prelievo di sangue», illustrò la Efimova, armeggiando con l’ago di una grossa siringa. Mentre parlava si avvicinò al bambino, che carezzò dolcemente sulla testa, e l’infilò delicatamente nel braccio. «Successivamente procederemo alla separazione della componente cellulare e all’estrazione del DNA».
Verdi conosceva alla perfezione la procedura. I costosi sequenziatori sistemati accanto ai monitor avrebbero letto il genoma portando alla luce le sequenze di DNA. I dati sarebbero poi stati inviati alle unità bioinformatiche e in seguito sottoposti alle analisi computazionali e ai raffronti incrociati dal data center di Saseno.
“Il data processing in MapReduce ha una potenza di calcolo di 200 petabyte al giorno”. Le parole della dottoressa, pronunciate pochi giorni prima, erano ancora estremamente chiare nella sua mente. Nonostante una capacità di elaborazione senza eguali, la ricerca avrebbe potuto richiedere molto, molto tempo. «Uno, come diecimila anni!», aveva chiarito Rodchenko.
«Eccolo qui», annunciò la scienziata da oltre il cristallo. Sollevò una provetta contenente il sangue del piccolo affinché Verdi riuscisse a vederla. Sorrise senza mostrare i denti e la consegnò a uno dei bioinformatici.
Per un istante il presente si mescolò con l’immaginazione di Verdi. Gli archi dell’atto I dell’Aida furono sostituiti dai fiati poderosi della marcia trionfale. I camici cominciarono a svolazzare, i macchinari a luccicare quando venivano azionati, i monitor a creare giochi di luci e colori con scritte e diagrammi. Era come se tutto si svolgesse su un bel palcoscenico, passi di danza di un balletto classico.
Il viaggio alla ricerca del segreto, il più importante di tutta l’umanità, era appena cominciato. Tutto era come in un sogno: il più bello della sua vita.
A svegliarlo brutalmente furono degli spari.
Rinsavì di colpo, lanciando un’occhiata obliqua al monitor. Gli ostili erano usciti dal vano scala e avevano percorso l’intero corridoio del livello -5. Adesso si trovavano, armi alla mano, davanti alla porta del laboratorio B.
Strinse il piccolo trasmettitore a onde corte, che teneva in tasca, e premette il pulsante.