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Il Cairo, 29 settembre. Poche ore dopo il rapimento.
00:32.
«Erano in quattro, non ho potuto fare nulla. Pulaski… Ho provato a salvarla: l’avevo quasi afferrata ma mi è sfuggita!». Antony Milano, seduto sul bordo del letto, soffocò un singhiozzo, le palpebre che sbattevano ininterrottamente.
Si trovava, insieme al colonnello Gutierrez e agli altri del gruppo, nell’hotel Les Pyramides. Nonostante la stanza fosse al buio, rischiarata solo dalla luce di una candela sul comodino, era lampante che c’era stato un cruento scontro a fuoco: la porta bucherellata era stata divelta e sulle pareti c’erano chiazze di sangue e segni indelebili di colpi di kalashnikov e M-16. Il corpo di uno degli aggressori, coperto da un lenzuolo, era stato adagiato per terra, accanto ai vetri infanti della finestra. Oltre, verso la città rischiarata dalla luna, si vedevano i supporti metallici ai quali era montata l’insegna.
«I bambini?», lo interrogò Sforza, in piedi, un passo dietro il colonnello. Accanto a lui, il viso pacato, Veneziani si guardava in giro in cerca di improbabili indizi. Nobile invece si asciugò una lacrima. «Dove sono Jonathan e Quattordici?».
Il giovane militare scosse il capo, cercando nello sguardo di Gutierrez un minimo di comprensione. «Non lo so. Li ho visti poco prima che Pulaski…».
Khaled el Kamhawi lanciò un’occhiata obliqua verso lo Zar. Il motivo per il quale si era mobilitato, coinvolgendo anche il trafficante, gli si era dissolto tra le dita. Portare il bambino all’interno della base era stata la sua priorità per quella sera soltanto. Era riuscito a dimenticare l’epidemia e tutto ciò che era seguito. Non aveva però avuto neppure il tempo di abituarsi a quell’importante missione che tutto era già terminato.
«…appena mi sono accorto che il quarto uomo non c’era più, sono corso subito sul tetto». Un altro singulto ricacciato in gola da Milano. «Gli avevo detto di salire e mettersi al sicuro, ma quando sono arrivato non c’erano più».
«Possono averli portati solo in un posto: il laboratorio», osservò Veneziani, con una sorprendente calma. «Alla fine ci sono riusciti, hanno ottenuto ciò che volevano: stavano dietro a John Tan-Tan da troppo tempo. Hanno bisogno di lui».
«Oppure non ne hanno bisogno e semplicemente non vogliono che noi raggiungiamo i nostri fini», controbatté Sforza, infilando le mani in tasca. «Se è così, potrebbero toglierlo di mezzo per evitare che qualcuno riesca a creare il nuovo vaccino per Ebola».
«In ogni caso è in grave pericolo», intervenne Nobile, asciugandosi il sudore. «Sono in pericolo, tutti e tre!». Era inutile tentare di nasconderlo: dopo le peripezie che avevano passato per arrivare fin lì, l’assenza di Sybilla aveva aperto in lui uno squarcio interiore. Per quanto provasse a concentrarsi su ciò che era necessario fare, non riusciva a togliersi dalla mente una frase che gli ripeteva sempre sua madre: “Non sai quanto è importante quello che hai fino a che non lo perdi”.
«Motivo in più per agire subito». Lo Zar, rimasto in disparte sulla sua carrozzina, si fece avanti, uscendo dal cono d’ombra. Poco prima di salire nella camera dell’hotel gli avevano riferito che il cargo EgyptAir era stato prenotato dall’Ulybka per le sei di quella stessa mattina.
Motivo in più per agire subito.
«Potrebbero ucciderlo», fece notare. «Parole vostre. Questo significa che abbiamo davvero poco tempo. E non è neppure necessario sottolineare che le forze speciali o la polizia potrebbero arrivare a momenti. È vero che hanno altro per la testa, ma questa è pur sempre la scena di un crimine».
El Kamhawi si voltò verso Gutierrez. «Nikolaj ha ragione: non possiamo restare qui ancora a lungo». Accennò con il mento in direzione dell’americano, sperando di far breccia nel suo silenzio carico di tensione. «E poi, dopotutto, abbiamo chiesto il suo aiuto per avere un supporto logistico, armi e uomini. Adesso abbiamo tutto questo».
«Per motivi diversi abbiamo urgenza di entrare in quella base», ruggì lo Zar. «Ho accettato di aiutarvi perché io avevo bisogno delle vostre informazioni e voi delle mie granate. Dobbiamo agire in fretta. Avevate un piano, giusto?». Si fermò, avanzando ancora con la carrozzina. «Mettiamolo in pratica».
«Non funzionerà». Fu Veneziani, pacato, a intervenire. «Non funzionerà: eravamo fuori dalla base solo per un sopralluogo e ci hanno individuato a un chilometro di distanza. Come pensate di poter entrare indisturbati?».
El Kamhawi con un evidente gesto di stizza lanciò le piante della base sul letto. «Nessuno dice che dobbiamo entrare indisturbati. Sarà difficile ma è fattibile: c’è una sola entrata, questo lo sappiamo, ma grazie a Nikolaj possiamo creare un diversivo». Piantò l’indice sull’immagine dell’edificio più alto. «Lanciamo un paio di RPG e facciamo qualche fuoco d’artificio. Contemporaneamente con il furgone sfondiamo il cancello».
«È una follia», scosse il capo Veneziani, deciso. «Ci faremo ammazzare ancora prima di mettere il naso dentro…».
«Questa volta il dottor Veneziani ha ragione». Una voce profonda, proveniente dal corridoio, interruppe il PM. Sulla soglia c’era un uomo, il viso nascosto nell’ombra. «Forse però avete un’alternativa».
Fece un passo avanti, lasciando che la fiammella gli rischiarasse il viso, danzando sui suoi lineamenti squadrati.
«Sukin ty syn!», imprecò in russo Nikolaj Pavlovic, voltandosi. «“Sei un figlio di puttana”, Michail!».
Il ministro Rodchenko sfoderò il suo sorriso al botulino. «Non posso darti torto… ma sono qui per presentarvi una persona».
Tra gli sguardi stupiti dei presenti, dal buio del corridoio si fece avanti un’altra figura. Era piccola di statura, con un velo islamico che ne celava i lineamenti. Gli occhi però erano inconfondibili: grandi, grigi e con la forma di quelli di un’ape. Erano identici a quelli di Quattordici.
«Vi presento Zer», annunciò il ministro. «L’assistente personale dell’uomo che dobbiamo ringraziare per tutto questo».