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Nel cuore della foresta equatoriale amazzonica,
17 settembre.

Tre settimane dopo l’inizio del contagio.

Poco dopo il tramonto.

 

La giovane indio Stella Lucente attraversò in silenzio il villaggio Awá e si diresse verso la tapãí, la sua tettoia di foglie di palma. Teneva tra le dita una noce di cocco colma di una speciale resina: come tutte le donne della tribù l’avrebbe utilizzata per decorare i capelli di suo marito con piume di avvoltoio reale.

Attorno a lei, sotto la volta della foresta, i fuochi scoppiettavano e fervevano i preparativi per il rituale della luna piena. Gli uomini avrebbero lasciato il mondo terreno e si sarebbero incamminati verso Iwa, la dimora degli spiriti.

La sua tribù celebrava quel rito, che onorava l’unione tra gli antenati e la foresta, da quando ne aveva memoria. Nonostante negli ultimi anni i taglialegna abusivi avessero deturpato la giungla che gli dava il sostentamento, gli Awá erano rimasti uno dei popoli più isolati al mondo.

“Se distruggi la foresta, distruggi anche gli Awá”, diceva un vecchio detto. Ciò nonostante, l’invasione, come l’avevano definita, aveva distrutto le loro terre più di qualunque altra area tribale dell’Amazzonia.

Gli Awá, a volte con l’aiuto della stagione delle piogge, altre con quello delle loro irapara, le frecce, si erano opposti come avevano potuto. Erano rimasti nomadi e, negli ultimi anni più che mai, si erano spostati in continuazione. Portavano con loro solo ciò di cui avevano realmente bisogno: funi di vite, archi, piccoli animali, cesti di foglie intrecciate. Per tale ragione, i loro villaggi erano costruiti attorno a robuste amache protette da semplici tettoie.

Sotto una di queste sedeva Sasso Grigio, sciamano e marito di Stella Lucente. Era completamente nudo, fatta eccezione per la testa inghirlandata di piume e per i pennacchi cuciti attorno ai tricipiti.

«La caccia sarà fortunata», le disse, sottovoce, appena la vide avvicinarsi.

«Iwa è la dimora degli animali della foresta», assentì lei, con il suo tono suadente. Cominciò ad armeggiare con maestria rimescolando la resina, lo sguardo su Piccola Libellula. La bambina giocava rumorosamente con un cucciolo di tamarino. Come tutti gli hanima, i membri della famiglia, avrebbe partecipato al rito osservando gli uomini cantare fino all’alba e poi addormentandosi al chiaro di luna.

Lentamente, Stella Lucente applicò sui capelli neri del marito alcune piume candide. Si fermò spesso, controllando e ricontrollando che il copricapo ornamentale fosse perfetto come si confaceva al suo uomo. Aveva quasi terminato quando una voce allarmata giunse sguaiata dal capanno di caccia.

«Sasso Grigio», strillò un giovane, nudo ma con una collana tribale a cingergli il collo. Sulle sue spalle si agitava una scimmia cappuccina. «Sasso Grigio. Il karaí!».

Karaí, il non-indio, lo straniero.

L’uomo si alzò di scatto, la luce del fuoco che gli danzava sulla fronte corrucciata. «Si è svegliato?».

Il giovane, visibilmente scosso, annuì ripetutamente.

«Andiamo!», ordinò lo sciamano.

Con passo spedito attraversarono il villaggio, passando davanti alle altre tettoie dove ogni moglie stava decorando il capo del marito. Raggiunsero una costruzione circolare, dalla vaga forma bitorzoluta. Era fatta di rami e ricoperta di paglia ed era sufficientemente spaziosa da farvi entrare una decina di uomini.

«Ha aperto gli occhi!», annunciò un altro giovane di guardia, in piedi davanti all’ingresso con il suo arco tra le mani.

Sasso Grigio gli poggiò una mano sulla spalla e si abbassò per entrare.

All’interno del capanno aleggiava un’aria stantia, ammorbata dal fumo acre del focolare alimentato dalla resina.

Lo sciamano si avvicinò lentamente all’ikaha, l’amaca costituita da fibre di palma, ed esaminò l’uomo: era madido di sudore ma con gli occhi neri aperti.

«Dove mi trovo?», chiese quest’ultimo, in inglese.

Sasso Grigio accennò un sorriso, mostrando una dentatura priva degli incisivi.

«Parla la mia lingua?», provò ancora il karaí.

Lo sciamano si limitò a toccargli le tempie. Non scottava più, la febbre era passata. Era fuori pericolo. Distolse lo sguardo e studiò il bendaggio del costato: un insieme di foglie di tabacco era tenuto assieme con corde di vite.

«Dove mi trovo?», insistette lo straniero, concentrandosi meglio sulla capanna. L’interno era spoglio: una fievole fiammella, due piccole giare accanto alla porta, e uno schieramento di indios alle spalle di quello con cui stava parlando.

Sasso Grigio tornò a guardarlo in viso. I capelli color argento erano schiacciati e la fronte era imperlata di sudore e piena di graffi ed ecchimosi. «Tu al sicuro!», lo rassicurò, in inglese, annuendo lentamente con la testa.

«Chi siete?»

«Sarà tempo per domande», lo zittì Sasso Grigio. Gli carezzò la fronte con un panno, tamponando le ferite: «Prima tu devi risposte».

L’uomo cercò di alzarsi sul gomito: «Quali risposte?»

«Io Sasso Grigio». Si toccò il costato con il pugno. «Tu?».

Il karaí sorrise appena. In effetti, a pensarci bene non avevano neppure fatto le presentazioni. Non era stato molto educato nei confronti degli indigeni che con ogni probabilità gli avevano salvato la vita.

«Ha ragione», bofonchiò, passandosi la lingua sulle labbra aride. «Vengo dall’Italia. Mi chiamo Veneziani, Zeno Veneziani».