22
Cittadina di Istra, oblast’ di Mosca.
08:08.
«Adesso mi dici tutto quello che mi hai nascosto l’altra volta!». Sforza afferrò Arkadiy Solovyov per il bavero del camice e lo sbatté contro il muro perimetrale. Come avevano previsto i militari, la struttura costruita attorno alla torre era disabitata, fatta eccezione per quell’uomo in abiti consunti.
Il fisico, che assieme al fratello Leonid aveva contribuito a sviluppare il progetto Wardenclyffe, non oppose resistenza. Quando aveva visto i militari sfondare il cancello e avanzare decisi verso di lui, si era limitato a fissarli con sguardo vacuo. Aveva però riconosciuto Sforza: alla sua precedente visita, quella specie di Fonzarelli si era presentato come emissario della Mendel Foundation.
«Mi hai raccontato un sacco di balle», lo accusò netto l’ispettore, spingendolo contro la recinzione. Aveva preso a diluviare con insistenza, e la delegazione di militari e civili si era sistemata a semicerchio attorno a Solovyov. «Perché De Lestes era tanto interessato a questo posto?».
L’ingegnere scacciò un nodo in gola. I suoi occhi neri erano privi di paura, piuttosto comunicavano rassegnazione. Fece balenare lo sguardo verso il piccolo Quattordici, che fradicio e completamente nudo si nascondeva un passo dietro Sforza. Poi borbottò: «Non le ho raccontato balle: De Lestes sapeva alla perfezione quello che combinava qui Rodchenko, facevano affari insieme! Tutto quello che le ho detto è vero: la torre è stata costruita negli anni Settanta basandosi sui progetti di Nikola Tesla… energia gratis e per tutti!».
«Hai dimenticato qualche dettaglio, però», lo riprese Sforza. «La torre funziona e soprattutto, il suo vero scopo non è regalare elettricità al mondo! Semplicemente serve ad alimentare qualcosa che richiede grandi fonti di energia: un laboratorio di genetica dell’Ulybka».
«Serviva», lo sfidò sarcastico, nonostante i militari, lo scienziato. «Come crede che si possano ottenere centocinquanta terawattora senza destare sospetti? Perché pensa che abbiano finanziato tutto questo?». Indicò il traliccio circolare che svettava sopra le cime degli alberi e poi tornò a guardare Sforza. «Miliardi di rubli: fino a quando gli siamo serviti hanno messo i soldi e poi ci hanno buttato via come una scarpa vecchia».
«Dov’è il laboratorio?», lo incalzò uno dei militari, mitragliatore a tracolla e sigaro tra le labbra. «Non ci interessano le tue stronzate: portaci nel laboratorio e magari salverai la pelle».
Ci fu un istante di silenzio, rotto solo dal picchiettare ritmico della pioggia e dall’abbaiare di un cane. Un corvo, lontano, gracchiò. Per interminabili istanti, Solovyov si limitò a spostare nervosamente lo sguardo tra Sforza e il piccolo che gli stava di fianco. Finalmente poteva liberarsi del pesante fardello che l’aveva costretto al silenzio in tutti quegli anni: il prezzo che aveva dovuto pagare per riuscire a ottenere i finanziamenti di cui aveva bisogno.
«Ok, la Wardenclyffe Tower serviva a fornire l’energia per il luogo in cui creavate questi…». Sforza addolcì la voce: cercava le parole più adatte per descrivere il piccolo individuo accanto a lui. Era alto circa un metro e non era chiaro se si trattasse di un bambino sottoposto a terribili esperimenti genetici o di una qualche specie di chimera: i suoi tratti – identici a quelli della foto mostrata da Bogdanow – erano umani solo in parte, mescolati con elementi del tutto estranei. Guardandolo si riusciva a identificare in parte la fisionomia dell’Homo floresiensis e in parte qualcosa di animalesco. Aveva sei dita, una pelle pallida, quasi tendente al grigio, e il ventre era piatto, privo di ombelico.
«La chimera esiste, allora!», aveva commentato Veneziani, appena il piccolo era sbucato dalla foresta.
In un primo momento i militari erano scattati all’indietro, impauriti. Era parso però chiaro fin da subito che l’“infante” non era né aggressivo né pericoloso. La mimica del grande viso e il suo linguaggio corporeo comunicavano invece paura. O addirittura qualcosa di più intenso: riconoscenza.
Non era in grado di parlare, e di ciò si erano resi conto quasi immediatamente. Comprendeva però la loro lingua e si esprimeva a gesti, congiungendo le mani come in preghiera. Nei pochi minuti che erano occorsi per instaurare un dialogo più proficuo, il piccolo aveva eletto Sforza come suo unico interlocutore. Alla fine, Veneziani aveva compreso che voleva lo smartphone dell’ispettore.
Con l’ausilio della tastiera sul display erano finalmente riusciti a stabilire un mezzo di comunicazione: sapeva scrivere e aveva detto di chiamarsi “Quattordici”. Era nato in un luogo che conosceva come “AW” e a gesti aveva poi chiaramente indicato la recinzione della centrale.
«Qui non c’è più niente!», si affrettò a giustificarsi il fisico, il viso gravido di pioggia. «Siete arrivati tardi: se ne sono andati da quasi due mesi!».
«Chi se ne è andato?».
Il russo, sudato nonostante l’aria fredda e umida, accennò con il capo a Quattordici. Fece per muoversi. «Quelli dell’Ulybka ovviamente… sono loro che li hanno creati».
«Piantala con le stronzate», inveì Gutierrez, agitando l’M-16. Dietro di lui i militari russi si posizionarono per chiudere ogni possibile via di fuga. «Portaci nel laboratorio!».
«Chiedetelo a lui se non mi credete!». Solovyov si lasciò scappare un singhiozzo e indicò Quattordici. «Hanno finito di usare gli AW. Hanno prodotto tutto quello che gli serviva e li hanno portati via. Lui è scappato proprio durante l’ultimo trasporto».
«Di cosa sta parlando?», intervenne Veneziani. «Cos’è che “gli serviva”: i cloni?».
Il fisico annuì lentamente. «Ne hanno creati quindici negli ultimi cinque anni. Quando hanno raggiunto la giusta maturazione li hanno portati via… servono per un progetto segreto». Si fermò, indeciso se proseguire, ma decise che ormai non aveva nulla da perdere: «Non so di cosa si trattasse. Conosco solo il nome in codice: Fenice!».
Protocollo Fenice.
Ancora.
Tutto conduceva nuovamente a quello.
Ma qual era la correlazione tra la torre di Tesla (e ciò che facevano al suo interno) e i piani della SunriseX?
Fu Nobile a porsi la domanda. Forse, acquisire nuovi pezzi del puzzle avrebbe potuto fornire qualche aiuto fino a quel momento insperato. «Hanno portato via tutti i cloni? Dove esattamente? E per quale ragione?».
Solovyov allargò le braccia. Il viso terreo si fece cupo e una lacrima gli sgorgò dagli occhi mescolandosi alla pioggia. «Non lo so… Io mi occupavo solo della torre. Questo progetto è tutta la mia vita!».
«Può piangere fin quando vuole ma non mi incanta», sbottò Gutierrez. «Io non credo a una parola».
«Sto dicendo la verità», protestò il russo, alzando lo sguardo verso il piccolo esercito con i mitra spianati. «Qui non c’è più nessuno dell’Ulybka: posso dimostrarvelo, se mi lasciate passare vi presento Leonid. E vi mostro gli AW, gli Artificial Wombs… Gli uteri artificiali».