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Giungla amazzonica, da qualche parte a sud-est della riserva Caru. Diverse ore più tardi.

Ora locale 22:15.

 

«Per essere tornato dall’aldilà sei in gran forma». Sorridente e seduto davanti al piccolo fuoco, Nigel Sforza ingollò una bevanda aromatica calda.

Nel cuore della giungla la vegetazione attorno al villaggio era avvolta nell’oscurità più totale. Risuonava del gorgoglio lontano di una cascata, di fruscii e scricchiolii continui, dell’urlo delle scimmie e del gracidare persistente delle rane. La piccola fiammella rischiarava il volto emaciato di Veneziani e quelli, se possibile ancora più pallidi, di Nobile, Sforza e Sybilla.

Dopo essere stato salvato dagli Awá, con pochi graffi e molta paura, il gruppo aveva accettato l’ospitalità offerta da Sasso Grigio. Avevano marciato per l’intera giornata sotto la fitta volta della foresta, attraversando una serie infinita di saliscendi scoscesi e scivolosi. Infine, al calar del sole, erano giunti a quell’assembramento di tettoie di palma. Lo sciamano gli aveva assegnato una tapãí e gli aveva fatto portare carne arrosto e una strana bevanda dal vago sapore di cannella. La stessa che Sforza, seduto per terra con le gambe incrociate e gli occhiali da sole tirati sulla fronte, sembrava apprezzare.

«Ti credevamo morto», riuscì a sospirare Sybilla Andrews. Nonostante avesse già trascorso un’intera giornata assieme a Zeno Veneziani, ancora, come tutti, stentava a credere di averlo davanti a lei in carne e ossa. Vederlo, a bordo della canoa che l’aveva salvata dall’anaconda, era stata come un’apparizione. «Come sapevi che stavamo venendo a cercarti?»

«Non lo sapevo», ammise, pacato, il pubblico ministero. Il suo viso, con la barba argentata di diversi giorni a cingergli la mascella squadrata, era rilassato. Gli Awá lo avevano come rigenerato. Le sue paure romane, di un “quasi” anziano sulla soglia della pensione, erano un ricordo lontano. L’idea di compiere un giro del mondo in solitaria – sulla barca che avrebbe chiamato Foxy lady – erano distanti come un’altra galassia. Così come la sua più grande paura: lasciare questo mondo senza aver fatto nulla di realmente utile per i posteri. I giorni che aveva trascorso con quella tribù, in sintonia con la natura e l’universo, avevano cancellato come un colpo di spugna tutte le sue inquietudini. Tutte tranne una: il virus. Il motivo per cui si era già sacrificato una volta…

«Quando l’esploratore è venuto a riferire dell’arrivo di un elicottero», chiarì, «Sasso Grigio è venuto da me».

«Come hai capito che potevamo essere noi?». Sforza si alzò e raggiunse una radice che sbucava dal terreno. Sopra, la donna india che aveva portato il cibo vi aveva appoggiato un sacchetto di pelle e una canna di bambù lunga e sottile.

«Non avevo idea che foste voi. Mi interessava semplicemente l’elicottero…».

«E noi che credevamo fossi venuto a salvarci come un cavaliere sul suo destriero bianco!». L’ispettore aprì il sacchetto e prese tra le dita una polvere color cenere verdastro. «È quello che credo io?»

«Epena», ammonì il PM. «È un potente allucinogeno. La cannetta si chiama mokohiro: è la prima cosa che mi ha offerto Sasso Grigio quando mi sono svegliato».

L’ispettore la studiò per qualche attimo e tornò a sedersi attorno al fuoco, porgendo il sacchetto a Nobile.

L’ex ambasciatore, che fino a quel momento era rimasto in silenzio a fissare la fiammella prodotta dalla resina degli indigeni, alzò il capo. Alla vista di quell’oggetto un turbine di ricordi gli riaffiorò prepotentemente alla mente. L’università, molti anni prima; quella polvere e le cannucce, fatti arrivare appositamente dal Brasile dal Pezza; lui che si infilava una delle estremità in una narice e un suo compagno – il più delle volte proprio Fausto Valvano – che soffiava all’altra parte, per fargli inalare l’Epena. Un’altra vita. Una vita in cui era stato un patetico tossicodipendente.

“Da quanto non tiro più di coca?”, si chiese.

Un mese, forse addirittura di più. Eppure era ancora lì… senza alcun aiuto da parte degli oppiacei aveva decifrato l’enigma di Behaye. Aveva attraversato la foresta, gli oceani. Era scampato ad aggressioni e attentati con un solo obiettivo: il bambino che poteva permettere all’umanità di sopravvivere.

Allontanò con un gesto risoluto il mokohiro e fissò Veneziani. «Senza offesa, Zeno. Non eravamo venuti a cercare te!».

Il PM si appoggiò a uno dei tronchi. «Non lo credevo affatto», ammise. «Siete qui per il bambino, immagino! Lo stesso motivo per cui a me interessava l’elicottero».

«Abbiamo le coordinate esatte della nostra posizione!», si intromise Hannibal Gutierrez, sbucando dalla boscaglia con il ricevitore GPS in mano. Accanto a lui apparve la sagoma eterea del professor de Souza, con una pipa tra le labbra.

Poiché sotto la fitta volta della foresta i segnali dei satelliti faticavano ad arrivare, in compagnia di Milano e della Pulaski, i due erano andati a fare un sopralluogo. Era sufficiente una radura abbastanza aperta o uno specchio d’acqua per ottenere un fix, una triangolazione GPS affidabile. Cosa che, evidentemente, avevano trovato.

«La città più vicina è Juriti», sciorinò il militare. «Più di cinquanta chilometri da qui!».

Nobile lo ignorò e provò a riportare la discussione su ciò che gli interessava. «Come sai del bam-
bino?»

«Ho semplicemente fatto due più due!». Veneziani si limitò a indicare il piccolo scrigno di legno che gli aveva mostrato John Tan-Tan. Era poco lontano dalla tettoia, coperto da un lembo di stoffa. «Giudica tu stesso».

Nobile, incuriosito, non si fece pregare. Si avvicinò e, inginocchiatosi di fronte al baule, portò a favore del fuoco crepitante il contenuto: articoli di giornale.

«Non siamo venuti qui per un tesoro», lo sferzò Gutierrez, afferrando da un contenitore di terracotta una specie di costoletta carbonizzata. «Vi ricordo che abbiamo una missione da compiere».

«Credo che quei documenti chiariranno meglio ciò con cui abbiamo a che fare!», lo riprese Veneziani.

«Sono articoli simili a quelli che ci ha mostrato Rodchenko a New York».

«Sono stati raccolti dal fondatore della Missione Charles O’Reilly», confermò il PM. «E c’è anche un suo diario».

Nobile lo individuò tra le carte e prese a sfogliarlo.

«Rodchenko non ci ha detto tutta la verità!», specificò Veneziani. «I giganti da cui è stato estratto il morbo non sono i soli a essere stati trovati. Negli articoli raccolti da O’Reilly si parla anche di mummie di piccole dimensioni… tutte con la stessa particolarità!».

«Esadattilia!», concluse la frase Nobile, che proprio in quel momento aveva aperto la pagina in cui si vedeva il disegno di una mano con sei dita.

«Esadattilia?», sospirò de Souza, incredulo.

«Esatto».

«Ma come ha a che fare questa storia con il virus e la SunriseX?», aggiunse Sybilla.

«I giganti da cui hanno estratto il virus sono solo la punta dell’iceberg!», sentenziò Veneziani. «Ci sono decine di ritrovamenti archeologici simili. Tutti confermano, in un modo o nell’altro, che oltre all’Homo sapiens, in periodi ancestrali vivevano anche altre razze… e da queste potremmo aver ereditato parte del nostro DNA».

«Insomma», si intromise Gutierrez, addentando un pezzo di carne. «Siamo qui per parlare di archeologia misteriosa o del bambino che dobbiamo ritrovare?».

E fu a quel punto che da un cespuglio, provvidenzialmente, sbucò un bimbo sorridente. «Avete ancora fame?», ridacchiò, cordiale. «Vi ho portato altra carne di scimmia».

Gutierrez sputò per terra, schifato.

Veneziani invece si alzò in piedi come per accogliere l’ospite d’onore della cena. In tono solenne comunicò: «Vi presento Jonathan, il bambino più ricercato al mondo», si interruppe in modo teatrale. «È nato alla Missione e sua madre era una Awá. Il padre? Be’, ho buoni motivi per ritenere che fosse un discendente diretto di Charles O’Reilly!».