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Brasilia. Contemporaneamente.

Ora locale 09:15.

 

Fernanda Barbosa scese dall’auto stringendo un logoro impermeabile cerato. Visto il giorno festivo, i parcheggi multipiano dei grattacieli di cristallo della FUNAI, l’organo governativo che si occupava degli indios, erano semivuoti.

Pioveva ancora quando entrò nell’atrio principale, diretta verso il suo ufficio al quindicesimo piano, e fu assalita da un odore di abiti bagnati. Odiava la pioggia, i fiumi d’acqua nelle strade, gli autisti rintronati, l’umidità e perfino il rumore ritmico dei tergicristalli. Ma non era solo quello a darle fastidio, Fernanda Barbosa odiava praticamente tutto, a cominciare dalla sua vita da single forzata e dal suo aspetto fisico.

Era una donna irrimediabilmente brutta. Grassottella e con denti pericolosamente disallineati, aveva occhietti piccoli che si mimetizzavano su una pelle butterata. I capelli erano di un biondo posticcio, raccolti in una coda da cui fuoriuscivano quindici centimetri di ricrescita. Quella mattina, oltre all’impermeabile, indossava jeans troppo stretti per il suo fondoschiena e una camicetta a buon mercato.

«Dottoressa, buongiorno», le diede il benvenuto un omino baffuto da dietro una guardiola di vetro. «Lavora anche di domenica?».

Fernanda annuì, senza degnare di uno sguardo il dipendente della FUNAI. Era vero, lavorava anche di domenica, ma non avendo granché da fare, per lei tutti i giorni erano uguali. In più, con quella maledetta epidemia in atto, il suo dipartimento – il CGII, l’Unità di coordinamento generale per gli indiani incontattati – si era svuotato nel giro di pochi giorni. La maggior parte dei dipendenti si era data malata e attendeva a casa che l’allarme cessasse. Come in tutti i Paesi del Sud America, anche in Brasile la vaccinazione contro il nuovo Ebola era obbligatoria. Ed era stato nell’ambulatorio in cui era andata due giorni prima per farsi somministrare la sua dose che aveva incontrato quell’uomo…

«Mi chiamo Emílio Correia e mi dicono che lei lavora alla FUNAI?», le aveva sussurrato a bruciapelo il medico, con quel tono profondo da attore shakespeariano. Il suo sorriso degno dei personaggi di E.R. l’aveva perfino convinta a non chiedere spiegazioni su come l’avesse saputo. «Perdoni la mia impudenza, ma ho una notizia che credo potrebbe interessarle».

Fernanda, sdraiata sul lettino, aveva alzato un sopracciglio, stupita. Che tipo di notizia poteva essere?

«Lavoro per la SunriseX International», aveva spiegato il medico, mentre con la siringa risucchiava la dose di vaccino da iniettarle. «La società che produce… Le farà un po’ male. Durerà solo un secondo». Mentre parlava infilzò l’ago nel braccio grassottello. Subito dopo proseguì: «Qualche giorno fa, parlando con un collega, sono venuto a sapere che una tribù di indigeni Awá potrebbe essere in pericolo. Ho provato a chiamare il suo ufficio ma quando mi hanno detto che sarebbe venuta qui per il vaccino ho preferito parlarle di persona».

«Che tipo di pericolo?», si era informata Fernanda, tenendo gli occhi incollati a quelli dell’affascinante medico. Per quale motivo era così interessato agli Awá?

«Una società russa sta cercando di realizzare un nuovo vaccino… credono di trovarlo tra gli Awá. Insomma, sembra che un gruppo di militari sia stato spedito nella giungla, alle calcagna di quei poveri indigeni».

La donna si era incupita. “Poveri indigeni”. Non aveva torto a definirli così: prima i tagliatori di legna e i minatori li avevano derubati delle loro terre, e adesso anche una multinazionale a caccia di chissà quale elisir? «Le società straniere hanno preso la giungla per un grande supermercato di medicinali», aveva replicato. «Sa che circa il settanta percento delle cure contro l’AIDS derivava da vegetali della foresta amazzonica?»

«Lo so e so anche che per tutelare gli indios disponete di mezzi importanti, come impianti satellitari: forse potete individuare i militari ostili prima che raggiungano la tribù».

«Difficile, la FUNAI esercita il controllo su quattordici milioni di ettari…».

Non era riuscita neppure a finire la frase, che un velo di tristezza aveva coperto il viso liscio e sbarbato del medico. Era rimasto zitto e con le labbra socchiuse, evidentemente deluso. Chissà, forse in quel momento così duro per l’umanità, aveva sentito di poter far del bene a qualcuno: i “poveri Awá”.

A Fernanda, che non gli aveva mai tolto gli occhi di dosso, era parso di riconoscere un pulcino bagnato di cui potersi prendere cura. Un pulcino che solo lei poteva rassicurare in qualche modo.

«Forse un modo ci sarebbe, Emílio…», si era lasciata andare, mostrando gli incisivi storti.

 

Due giorni più tardi era esattamente dove aveva promesso di essere. L’addetto alle rilevazioni satellitari della FUNAI, che lei aveva avvisato subito dopo aver parlato con Correia, le aveva telefonato poco prima.

«Il tuo amico aveva ragione», annunciò il giovane occhialuto, andandole incontro e tendendo la mano.

«Cosa hai trovato?».

Il ragazzo, allampanato e con due vistosi occhiali bifocali, le mostrò alcune fotografie satellitari in bianco e nero. «Sono partito dall’ultima posizione conosciuta degli Awá. Qui!». Indicò un puntino sulla mappa, non troppo distante, in linea d’aria, dalla Missione O’Reilly. «Naturalmente gli avvistamenti senza infrarossi non sono possibili sotto la volta della giungla».

«Questo cos’è?», tagliò corto Fernanda. Sulla fotografia si vedeva un grande specchio d’acqua e, nei pressi di due isolotti brulli, alcune imbarcazioni.

«Forse è proprio quello che cerchiamo». Poggiò sulla scrivania coloniale il mucchietto di foto e voltò il monitor del computer. Un documento internet con l’intestazione del “ministero della Difesa” ara aperto e in bella mostra. «Ieri mattina un Black Hawk senza transponder ha violato il nostro spazio aereo. Gli americani negano che sia loro ma una cosa è certa: era diretto proprio nella riserva Caru».

«E perché nessuno è intervenuto?».

Il giovane, stretto in un dolcevita bianco, sollevò le spalle. «Forse l’epidemia ci ha lasciato un po’ a corto di militari…».

Fernanda tornò a osservare la foto e poi fece perdere lo sguardo oltre la finestra: tra le nuvole plumbee, la scritta FUNAI in cima al grattacielo più alto del complesso spiccava chiara come una lama di coltello. Come ciò che aveva in mente. «Questi in acqua sono loro quindi? Gli occupanti dell’elicottero?».

L’addetto annuì: «La cosa strana è che erano in difficoltà e pare proprio che gli Awá li abbiano tolti dai guai».

«Abbiamo le coordinate esatte?»

«Certo».

La donna rimase impassibile. Per un istante, un piccolo dubbio sulla storia raccontata dal medico, e su come l’avesse realmente saputa, cercò di farsi strada in lei. Ma non ci riuscì: lo sguardo sensuale di Emílio era stampato indelebilmente nella sua memoria.

Appena il giovane uscì, Fernanda prese il telefono e compose il numero che le aveva dato Correia.

«Dottore», squittì, ripetendosi che tanto era un peccato senza vittime. «Ho notizie per lei…».

 

Dieci minuti più tardi due telefonate attraversarono l’Atlantico: la prima diretta a Dragan Sauer, la seconda a Theodore Greenidge.