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01:27.
ACCESSO NEGATO.
Immobili di fronte alla serratura del laboratorio B, Sforza e Gutierrez si guardarono attoniti. Zer e Sybilla erano un passo dietro, per verificare che non arrivasse nessuno dal vano scala. Dai piani superiori, gli spari e le esplosioni giungevano attutiti ed erano sensibilmente diminuiti di numero e intensità.
«È sicuro della combinazione?». L’ispettore si voltò verso Rodchenko, poggiato alla parete. L’abito solitamente impeccabile del politico era impregnato di sangue all’altezza dell’addome, il viso cianotico.
«Riprova!», lo spronò Gutierrez, indicando il tastierino con la punta dell’M-16.
Sforza digitò nuovamente la combinazione che secondo il ministro doveva aprire la serratura. Stesso identico risultato.
ACCESSO NEGATO.
«Devono averla cambiata», esclamò con sorpresa Rodchenko.
«Facciamola saltare», suggerì l’americano, scrutando in viso prima Sforza e poi il ministro.
Fu Zer, la chimera, a fare cenno di no con il capo.
«Se spari qua sotto scatta il sistema di sicurezza», spiegò Rodchenko, soffocando un colpo di tosse. «Scendono le paratie in titanio, per isolare il laboratorio da agenti batteriologici, chimici e radiologici».
Non fece in tempo a controbattere che inaspettatamente la porta scattò da sola.
Mar’ja Efimova era impalata sull’uscio, a metà tra la luce abbagliante del laboratorio e la penombra del corridoio. «Michail, sei ferito», si limitò a dire, asciutta. «Hai bisogno di assistenza».
Fece cenno a due paramedici che andarono incontro al ministro e lo sorressero. Lo aiutarono a entrare e a sdraiarsi su uno dei lettini.
Rodchenko accennò una specie di sorriso di ringraziamento. Era stato lui a raccomandare la Efimova a Verdi, nella speranza che facesse proprio ciò che aveva appena fatto: aiutarlo nel momento del bisogno. «Grazie», le sussurrò.
Ma lei non lo degnò di uno sguardo, concentrandosi su un piano d’appoggio di metallo sterile colmo di strumenti chirurgici. Evitò di osservare anche verso la vetrata, dove immaginava che Verdi fosse furibondo.
Sforza, Gutierrez, Zer e Sybilla nel frattempo entrarono nel laboratorio in fila indiana. Sui loro volti si dipinse un’espressione tra lo stupore e il ribrezzo. John Tan-Tan era lì, a pochi passi, legato a un tavolo operatorio ma cosciente. Dietro, sistemate su due file di strani lettini sormontati da cupole di vetro, c’era invece una decina di chimere. Erano tutte identiche, tutte addormentate, tutte collegate a futuristici macchinari.
Zer si precipitò verso la prima postazione, poggiando dolcemente le sue mani esadattile sul capo bitorzoluto di uno dei suoi simili.
«Dovevo aspettarmelo!», disse all’improvviso una voce metallica dall’interfono. Lo specchio che dominava la parete principale si trasformò in uno spesso vetro trasparente.
Sforza, Gutierrez e Sybilla si voltarono all’unisono e sulle prime gli parve di avere di fronte un quadro rinascimentale. Raffigurava una figura eterea, immobile, lo sguardo fiero che dominava da sopra una folta barba bianca. Era poggiato a un bastone da passeggio e protetto dal cristallo ostentava una calma glaciale.
«Avrei dovuto scegliere un altro capo dipartimento», aggiunse Verdi, con rammarico.
Ci fu un bisbiglio appena percettibile. Dalle loro postazioni i bioinformatici si alzarono in piedi.
«Immagino che questa sia la fine del progetto», dedusse l’anziano, osservando tristemente le telecamere di sorveglianza attorno alla base. All’esterno nessuno stava più sparando, segno che la resistenza dei suoi uomini era stata piegata. Anche nei corridoi un gruppetto di ostili capeggiati dal quel pubblico ministero romano stava avanzando indisturbato. Era finita: Rodchenko aveva approfittato dell’unico momento di debolezza. La transizione: i suoi uomini se ne erano andati ma la Guardia speciale non li aveva ancora rimpiazzati del tutto.
«Non c’era bisogno di tutto questo», riferì, saccente. «Potevi semplicemente non darmi la base. Sarei andato altrove».
Il ministro emise un grugnito, mentre le mani agili della Efimova gli medicavano l’addome.
«Offrirti?», sibilò. «Credi che se avessi avuto scelta l’avrei fatto?».
“In effetti…”. Verdi sorrise, annuendo. «Non saresti arrivato dove sei se non fosse stato per noi… tu e tutti i burattini che pasteggiavano a champagne al Bohemian Grove». Fece una lunghissima pausa, respirando lentamente ossigeno da una bombola di metallo. Osservò con distacco gli estranei che si muovevano oltre il cristallo antiproiettile e poi, come se stesse leggendo un libro di favole, cambiò tono di voce. «Sapete perché ho scelto il numero sette?».
Sforza si accigliò e scambiò un’occhiata con Gutierrez, nel frattempo spostatosi verso la porta interna. L’unica che secondo Rodchenko dava accesso alla sala di osservazione in cui era rintanato Verdi.
«Sette è il simbolo magico e religioso della perfezione. Rappresenta l’equilibrio, la rinascita, il perfezionamento della natura umana. È per questo che sarò ricordato come il Settimo Oracolo; d’altra parte, se c’è un messaggio ci deve essere un messaggero…». Come se stesse osservando dei pesci rari in un acquario, l’anziano carezzò il cristallo, mettendo poi a fuoco uno dei monitor accanto alla parete. Si assicurò che gli uomini che presidiavano l’aviosuperficie sopra l’edificio 3 avessero ricevuto il suo SOS. Era così: un gruppo di cinque Guardie Speciali stavano venendo in suo aiuto. Proseguì a parlare, con il solo intento di guadagnare secondi preziosi. «Dovevo aspettarmi che tu e qualcuno dei tuoi compari, come quel buffone di Signorini, non avreste capito l’importanza di quello che stavamo facendo… di ciò che abbiamo fatto!».
Il ministro ignorò il riferimento al presidente del Consiglio italiano, ucciso proprio dall’uomo che aveva di fronte. Il dolore per la ferita all’addome, in quel momento, era più forte di quello per la perdita dell’amico.
«Cosa avete fatto?», ringhiò invece Sybilla, accanto al piccolo Jonathan. Dal poco che poteva capire sfiorandolo, sembrava che la sua temperatura corporea fosse estremamente bassa. «Cosa gli avete fatto?»
«Al soggetto immune, intende?». Verdi la squadrò come un insetto fastidioso. «Nulla, se non prelevargli un campione di sangue».
La Efimova annuì. «È vero».
«Fino a che non arriveranno i frutti del Progetto Fenice è una cavia preziosa…», specificò l’anziano. «Ci serve vivo per la nostra ricerca».
«La ricerca del vero messaggio», ipotizzò Sforza, richiamando alla memoria la spiegazione del cardinale Vonn. «Avete diffuso il virus nel mondo e sterminato la popolazione… tutto per cercare quel dannato messaggio!».
«Vedo che siete informati», ammise Verdi. «Ma non così bene come credete… vi è sfuggito un dettaglio».
Sforza lo studiò con sguardo interrogativo. Non gli interessava granché il racconto ma doveva riuscire a tenerlo occupato mentre Gutierrez provava a stanarlo.
«Vi sono sfuggite quelle». L’anziano indicò con orgoglio le cupole di vetro, all’interno delle quali erano intubati i cloni. «Sono ciò che c’è di più simile ai nostri creatori. La perfezione: uomo e animale uniti nello stesso individuo… in una parola sola “chimere”».
In quel momento Gutierrez attirò l’attenzione di Sforza su uno dei display di sorveglianza. Le riprese a circuito chiuso inquadravano un laboratorio del tutto simile a quello dove si trovavano. Doveva essere il laboratorio A, di cui aveva parlato Rodchenko prima di pianificare la sortita: era dalla parte opposta rispetto alla loro posizione e il locale di osservazione si trovava esattamente nel mezzo, separato da entrambi con ampie vetrate. Un gruppo di uomini armati vi era appena penetrato: facce conosciute.
«Qual è il dettaglio che ci è sfuggito?», incalzò ancora Sybilla. Il suo sguardo si perse oltre l’anziano e finì sull’altra paratia di cristallo, alle sue spalle: Nobile e Veneziani erano nel laboratorio attiguo, sorridenti e attorniati dai mercenari dello Zar. «A cosa vi servivano le chimere?».
L’anziano sfoderò l’espressione di un professore annoiato da una domanda sciocca. «Avevamo bisogno degli originali naturalmente…». Poi si voltò, dando prova di essersi accorto dei nuovi arrivati. Non rappresentavano un problema, esattamente come gli uomini di Rodchenko: la porta che dava sul corridoio era inaccessibile dall’esterno e l’unico collegamento con la sala di osservazione erano i laboratori. Anche in quel caso, però, solo lui avrebbe potuto farli entrare…
«Se avete gli originali, le copie dei nostri creatori, perché avete diffuso il virus?»
«Non lo capite vero?». Verdi mosse qualche passo, facendo dondolare il capo da una parte e dall’altra. Un pendolo tra il laboratorio A, colmo di militari, e il B, delle sue chimere. «Lo scopo era avere un punto di partenza per confrontare il genoma. L’originale da cui derivano i geni umani… e dal quale nel corso dei secoli il nostro materiale genetico si è evoluto».
«Sta dicendo che il DNA umano è mutato?».
Verdi annuì di nuovo. «Certo. Il DNA come lo conosciamo oggi si è evoluto, è mutato nel corso dei secoli. Per trovare il messaggio è più semplice cercare schemi nucleotidici nell’originale, per poi verificare se c’è corrispondenza nei frutti di Fenice».
I frutti di Fenice.
La superficialità di quell’uomo era nauseante. I “frutti di Fenice”, come li aveva chiamati, equivalevano a sette miliardi di morti…
Veneziani provò a restare concentrato. Cercando di capire cosa stesse facendo Gutierrez dall’altra parte, esternò un’osservazione estremamente più pratica: «Cercavate un termine di paragone, seppure incompleto e degradato…», dedusse. «Siete partiti dalla mummia e avete ricostruito l’originale dei nostri creatori… il tutto per avere qualcosa da paragonare al DNA dell’uomo?».
Già mentre lo stava dicendo, faticava a credere alle sue parole. Verdi, invece, apparve soddisfatto.
«Se si sa cosa si sta cercando… lo si trova prima!», assentì, fissandolo di sottecchi. Finalmente qualcuno con cui valeva la pena parlare. Ritenne necessario aggiungere qualche elemento: «Sapete come si selezionano i batteri?», li interrogò. «Prendiamo una popolazione X: ammettiamo che io voglia scoprire chi in quella popolazione ha particolari geni che gli conferiscono una certa resistenza. Aggiungiamo un antibiotico nella coltura e aspettiamo. L’antibiotico ucciderà tutti i batteri che non hanno quel particolare gene e risparmierà quelli che ce l’hanno. Si chiama selezione artificiale!».
«Figlio di puttana. È questo che avete fatto», sbottò Nobile. «È così che la chiama? Una selezione artificiale del genere umano. E il tutto solo per individuare quegli individui che, forse, e ribadisco forse, hanno un messaggio nascosto nel DNA…?».
Un rumore sordo e inaspettato lo costrinse a interrompersi.
Dal corridoio qualcuno stava sparando. Non aveva la minima possibilità di aprire le serrature ma il suo fine era evidentemente un altro: innescare l’allarme per agenti NBCR. E ci riuscì.
Grosse paratie, simili a enormi tapparelle di titanio, cominciarono a scendere sferragliando lungo i muri del laboratorio.
L’allarme stava suonando. Di nuovo.