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Giungla amazzonica. Poco dopo.
Veneziani e John Tan-Tan si avventurarono su un sentiero lievemente in salita. Superata una linea di boscaglia a prima vista impenetrabile, si trovarono nel verde abbracciante di una radura tempestata di fiori colorati e farfalle. Tutt’intorno gli alberi di caucciù si protendevano verso il cielo per contendersi un po’ di luce e occultavano del tutto l’orizzonte. La giungla era una sinfonia di suoni, dai gracidii delle rane, al cinguettare degli uccelli, allo sbattere delle ali di pappagalli, tucani e colibrì: sembrava che tutte le forme di vita gli stessero dando uno strano benvenuto. O forse, più probabilmente, facevano esattamente come se loro non ci fossero.
«Manca molto?», si informò Veneziani, già completamente sudato per l’umidità. Era a torso nudo con la fasciatura sul costato che si spostava a ogni passo. Avanzava lentamente, con i pollici infilati nei passanti dei bermuda.
«Siamo quasi arrivati», ridacchiò John Tan-Tan. Durante il breve tragitto dall’ansa del fiume dove si erano incontrati, il bambino aveva rivelato una serie di altri dettagli decisamente interessanti. Aveva raccontato di un certo Leonardo, che su sollecitazione di Veneziani era stato poi identificato nell’archeologo Domianello. A quanto pareva, il giorno della sua partenza per l’Italia, il bambino e Fernandes l’avevano accompagnato a Manaus. Al loro rientro alla Missione, l’avevano trovata rasa al suolo. I due, impauriti e presi dallo sconforto, si erano diretti ad Anamã e avevano chiesto aiuto.
«Padre Gonçalo mi aveva detto di aspettarlo. Dovevo sempre tenere le mani in tasca…», si giustificò il bambino. «Ma io mi ero stancato… stavo seduto sul baule fuori dallo steccato e a un certo punto è arrivato un teshari-rin che mi ha portato al suo villaggio».
Veneziani emise un grugnito. Il bimbo, cresciuto nella Missione O’Reilly, aveva voglia di parlare. Con gli indigeni Awá, a quanto aveva detto, poteva scambiare solo poche parole con Sasso Grigio. Era l’unico a conoscere un po’ di inglese ma purtroppo lo sciamano non era interessato a confidarsi con un bambino. Per quella ragione John Tan-Tan in pochi minuti aveva narrato senza fronzoli la storia della sua intera vita. Con una conseguenza ovvia e al tempo stesso dirompente: i sopravvissuti al raid della SunriseX erano due. Padre Fernandes era stato rapito dalla multinazionale mentre dello stesso Jonathan, probabilmente, non sapevano nulla.
«Eccoci, siamo arrivati», annunciò il piccolo, fermò davanti a una tapãí, la sua tettoia di rami.
Una donna con i seni scoperti e una collana di ossa al collo si voltò. Li scrutò per qualche attimo, poi prese un piccolo contenitore e si allontanò, voltandosi di tanto in tanto.
«È questo il baule che ti dicevo», chiarì il piccolo, mostrando una cassa di legno poggiata su un tronco. Era lunga una quarantina di centimetri, con il coperchio superiore arrotondato e coprispigoli di metallo verdastro.
Veneziani lo setacciò con interesse. Quel baule trasmetteva qualcosa di epico, gli ricordava quello descritto da Stevenson nell’Isola del Tesoro. Doveva essere in una cassa come quella che il vecchio Billy Bones aveva nascosto la mappa del capitano Flint.
«Quando mi hanno portato via», proseguì Jonathan, con enfasi, «gli uomini coperti di meh-nu hanno preso anche il baule».
«Possiamo aprirlo?»
«Certo!». Era privo di serratura e il bambino sollevò il coperchio. Con un ampio gesto della mano esadattila invitò il PM ad avvicinarsi di più.
Veneziani verificò l’interno, interessato: conteneva per lo più quaderni, ritagli di giornale ingialliti e qualche fotografia.
Si accosciò e cominciò con queste ultime. Erano tre in tutto, in bianco e nero e con ritratta sempre la stessa persona: un religioso relativamente giovane, con un sorriso stanco e i capelli brillantinati. Nella prima si vedeva quasi esclusivamente il viso, nelle altre due, in cui posava con altre persone, era invece a figura intera.
Veneziani si strofinò gli occhi per riuscire a scrutare meglio nella penombra della foresta. Nelle immagini sgranate a figura intera, il religioso indossava dei guanti, mentre gli altri soggetti erano in maniche di camicia.
«È padre Charles O’Reilly», spiegò John Tan-Tan. «Padre Gonçalo lo disse quando mostrò le carte a Leonardo».
«E Leonardo cosa disse?».
Il piccolo sorrise senza rispondere. Si dondolò sui piedi scalzi e poi allargò le braccia. «Niente. Guardò i giornali…».
Veneziani mise da parte le fotografie e fece lo stesso, dedicandosi ai ritagli. Erano numerosi e molto vecchi: su alcuni c’erano le date scritte a mano, con una grafia inclinata. Su altri era presente la pagina intera, con il giorno stampato a lettere gotiche: si andava dal 1856 fino al 1961.
«Padre O’Reilly se li faceva mandare da tutto il mondo», continuò a spiegare il bambino, riportando evidentemente le parole che Fernandes doveva avere pronunciato a indirizzo di Domianello.
Cominciò a leggere uno dei più antichi, del giorno di Natale del 1868:
La tomba misurava circa sei metri per uno. Era profonda in tutto meno di un metro. Le spoglie dell’uomo gigante erano pietrificate, con la testa enorme dalla circonferenza di 81 centimetri. L’individuo era alto tre metri e trentacinque e aveva una fronte piccola, bassa e inclinata all’indietro.
Il PM sospirò. Quell’articolo era simile nei contenuti a quello mostrato da Rodchenko a New York. Ne prese un altro del «Times» e lo lesse.
Gli operai al lavoro sulla costruzione della nuova ferrovia della Virginia hanno interrotto, ieri, gli scavi. La compagnia comunica che si sono imbattuti in un sepolcro contenente i resti di un nativo americano di epoca estremamente remota. Lo scheletro presenta dimensioni notevoli, con un femore molto più lungo del normale, tanto da far ipotizzare una statura di quasi tre metri.
Stesso tenore del precedente articolo.
Ne sfogliò altri più velocemente: provenivano da quotidiani del Wisconsin, del New Mexico e di San Antonio, ma anche dall’Egitto, dall’India e perfino dalla Norvegia.
Si soffermò su quello più recente, del 1961. Era scritto in inglese, anche se non era indicata la testata:
Il ritrovamento al Cairo di un sepolcro risalente a diecimila anni fa è stato la scusa, per l’esercito sovietico, per inviare nuove truppe. A giudizio degli esperti del Museo di antichità egizie non vi sarebbero reperti tanto rilevanti da giustificare un tale spiegamento di forze. Alcuni testimoni raccontano però che il ritrovamento sarebbe relativo al sepolcro del dio Osiris. Conterrebbe una mummia di piccole dimensioni, alta non più di un metro e mezzo, con grandi occhi e una bocca piccola. Le mani e i piedi avrebbero tutte sei dita.
Veneziani rimase fermo per qualche istante a contemplare il ritaglio. A parte il dettaglio che non si parlava di un gigante bensì di una mummia di piccole dimensioni, anche lì c’era la costante della polidattilia.
Radiografò la rimanente parte della pagina, piegata all’interno. Accanto all’articolo c’era una ricostruzione dell’aspetto che doveva avere l’occupante del sepolcro quando era in vita. Chissà perché gli ricordava una delle copertine di «National Geographic», che aveva letto qualche tempo prima: il “dio” Osiris, stando al disegno, aveva una vaga somiglianza con un ominide che aveva popolato la terra cinquantamila anni fa. Come si chiamava? Homo floresiensis?
Per un secondo si fece distrarre da uno stormo di fenicotteri alzatosi in volo, poi mise da parte i giornali e si dedicò a un piccolo quaderno rilegato in cuoio. Era un diario e dalla prima pagina si evinceva che era appartenuto direttamente a Charles O’Reilly. Lo sfogliò velocemente: conteneva ricordi che andavano dal 1912 fino al 1963. Di interi anni c’erano soltanto poche righe, di altri pagine e pagine con descrizioni e disegni di scheletri e di mani.
Veneziani si soffermò su un foglio in cui era raffigurato un arto esadattilo. Sembrava uno di quei disegni fatti da un bambino, in cui si traccia con una matita il perimetro della mano. La differenza era che qui le dita erano sei, con il pollice poco più grande rispetto al mignolo opposto. A margine c’era una riflessione di O’Reilly:
Non so perché Dio nostro Signore mi ha fatto questo dono ma una cosa è certa: se sono sopravvissuto alla peste è perché sono uno di loro e le mie sei croci lo dimostrano.
Non servì molta inventiva a Veneziani: le sei croci di cui parlava il religioso erano le sei dita… stesso numero di quelle dei giganti, di Osiris e, a quanto pareva, evidentemente, anche di O’Reilly.
«È come la mia», commentò felice Jonathan, vedendo il disegno.
Veneziani alzò lo sguardo e gli sorrise. Non capiva la correlazione tra i giganti dei primi ritrovamenti e la mummia più piccola degli ultimi. Una cosa però gli era estremamente chiara: «Padre O’Reilly era proprio come te», sospirò. «Sei tu quello che la SunriseX cercava!».