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Abu Sir al Malaq, 78 km a sud del Cairo, Egitto.
21:50.
Un tempo si chiamava Busiris e dominava la grande pianura, nota per i templi dedicati a Osiria. Vista attraverso i fari del grosso fuoristrada dell’esercito, la cittadina appariva invece come una distesa lunare.
Il terreno sabbioso era sfregiato dai crateri lasciati dai tombaroli. Ovunque si vedevano scavatori e ruspe, che si contendevano con piccole palme rinsecchite l’orizzonte rischiarato dalla luna. La strada era una lingua d’asfalto che di tanto in tanto si inerpicava sul terreno ondulato e scorreva indistinta oltre i finestrini.
«Il capo dell’organizzazione si chiama Nikolaj Pavlovic, detto “lo Zar”», illustrò Khaled el Kamhawi scalando la marcia della Land Cruiser. Espirò un po’ di nicotina dalle narici e appoggiò la mano con la sigaretta al volante. «Si fa chiamare così, dice lui, in onore dello zar Nicola I di Russia, ed è trapiantato qui dai primi anni Novanta; visto che spesso le opere d’arte condividono la “logistica” del traffico d’armi, ha gli uomini e mezzi che ci servono».
«Credi che ci aiuterà?». Sforza era seduto sul sedile anteriore, avvinghiato allo sportello. Nonostante i fari fendessero l’oscurità solo per un limitato tratto di strada, il colonnello guidava a una velocità folle. Girava e rigirava lo sterzo come un pilota di go-kart e teneva gli occhi più spesso sullo specchietto che sul parabrezza.
«Oh, credo proprio di sì», confermò el Kamhawi, orgoglioso, «se gli mostriamo le foto satellitari».
«In albergo ci diceva che tre trafficanti d’arte sono stati uccisi fuori dalla base dell’Ulybka Corporation». Veneziani si sporse dal sedile posteriore, fissando la nuca glabra del colonnello. «Facevano parte della sua organizzazione?».
El Kamhawi annuì. «Lo Zar ha un debole per reliquie particolari». Ingranò la ridotta e all’altezza di una benna abbandonata sul ciglio svoltò a destra, lasciando la strada principale. Il fuoristrada sollevò una nuvola di polvere e si insinuò dritto nel deserto. Ai lati del sentiero tre cammelli erano intenti a ruminare intorno a dei cespugli di erbacce. «Gli abitanti dei villaggi non sentono alcun legame con la storia egizia che li circonda. Gente come il russo li usa a mo’ di bassa manovalanza: sono loro che saccheggiano le tombe. E sono loro che molti anni fa hanno trovato quello che lui sta cercando».
«Quello che sta cercando ha a che fare con i TIR nella base dell’Ulybka, giusto?», mugugnò Gutierrez a mezza voce, fissando il paesaggio indistinto che scorreva dal finestrino. Da qualche minuto una vecchia Citroën aveva preso a seguirli, fatto abbastanza insolito se si considerava che erano in mezzo al deserto e in pieno coprifuoco.
«Ci siamo», sentenziò l’autista, rallentando.
Davanti a loro, ai lati della stradicciola di ciottoli, adesso c’erano due uomini. Indossavano la galabìa, la caratteristica tunica bianca, e armati di kalashnikov facevano segno di fermarsi.
«Devo parlare con lo Zar». El Kamhawi abbassò il finestrino e si rivolse in arabo a uno dei due. Intanto, la Citroën che li aveva seguiti si arrestò pochi metri dietro di loro.
L’arabo si avvicinò sospettoso all’auto. Sbirciò prima fuori, soffermandosi sul simbolo dell’esercito impresso sulla portiera, e poi sugli occupanti. Li esaminò minuziosamente a uno a uno.
«Digli che c’è Fligel’-Adjutant», incalzò il colonnello, certo che quel nome – letteralmente “aiutante di campo” – gli avrebbe garantito la possibilità di incontrare il russo. Si richiamava tacitamente all’onorificenza che lo zar Paolo I di Russia aveva concesso alla sua guardia personale sul finire del Settecento. Lo stesso appellativo che in passato gli era stato attribuito proprio da Nikolaj.
La guardia rimase immobile per qualche istante, studiando la Citroën. Poi tornò a guardare la Land Cruiser. «Spegni la macchina».
Si allontanò di qualche passo e si diresse a un masso poco distante. Sopra vi era poggiato uno zaino, che aprì. Estrasse un telefono cellulare e si voltò di spalle.
Nel silenzio della notte, rotto solo dal frinire dei grilli, gli occupanti della jeep lo udirono parlottare velocemente. L’arabo annuì più volte e infine si avvicinò di nuovo alla Toyota. «Seguiteci».
Venti minuti dopo, la Land Cruiser fu fatta fermare davanti a un edificio squadrato di metallo. Era stretto e basso, immerso in una piana desertica. I fari illuminarono una porta scorrevole con la scritta HANGAR 18 mentre due beduini la aprivano. A differenza dell’esterno, silenzioso e immobile sotto la luce biancastra della luna piena, l’interno era un brulicare di attività: si vedevano operai caricare sacchi di juta su un vecchio aeroplano bi-ala e decine di casse di legno accatastate contro una parete arrotondata. Dalla parte opposta, nella penombra, c’era uno schieramento di uomini armati di mitra.
«Che bella sorpresa, Fligel’-Adjutant», proclamò una voce in inglese. L’uomo, sulla settantina, era seduto su una carrozzina. Si avvicinò lentamente spinto da uno dei suoi uomini. Aveva il viso segnato da rughe profonde e la pelle del colore del cuoio. Indossava una mimetica da deserto e sotto il basco sbucava un ciuffo di capelli tra il biondo e il bianco. Portava una barba ben curata e degli occhiali rotondi senza montatura, che mettevano in risalto furbe iridi azzurre.
El Kamhawi aprì lo sportello della jeep e si avvicinò tendendo la mano. «Vi presento lo Zar», dichiarò, all’indirizzo di Sforza e soci, mentre scendevano sotto lo sguardo turpe dei beduini armati.
«A cosa devo questa improvvisata?», chiese lo Zar, stringendo vigorosamente la mano del colonnello.
«Ho un affare da proporti».
Il russo poggiò le mani sulle ruote della carrozzina, osservando curioso gli altri occupanti della Land Cruiser. «Che tipo di affare?»
«Un affare molto più redditizio dell’ultimo». L’egiziano fece una pausa, gettando lo sguardo sulle canne degli AK-47 che ancora li tenevano sotto tiro. «Sono sicuro che se ti dico Progetto ISIS sai di cosa sto parlando».
Quelle parole dovettero sortire l’effetto sperato, perché il russo rimase in silenzio per diversi istanti. Giocherellò con il freno della carrozzina e poi fece cenno ai suoi uomini di abbassare le armi. «In effetti i migliori affari si fanno proprio in tempi di crisi…», ammise, alla fine. «Era il 2011, ricordo bene?».
El Kamhawi sorrise.
2011. Era quello l’anno in cui si erano conosciuti.
Nikolaj non aveva mai avuto l’aspetto di un trafficante, anche se la storia aveva insegnato che i volti di chi deturpava le rarità egizie erano estremamente eterogenei.
Il primo processo per saccheggio risaliva addirittura al 1113 a. C., quando un gruppo di cavatori fu condannato per aver depredato alcune tombe scavate nella roccia. Erano seguiti i romani e poi tutte le potenze coloniali che avevano dominato quelle terre tra il Cinquecento e il Novecento. Tutti, chi più chi meno, avevano deturpato una storia vecchia di millenni. Tutti avevano approfittato di quelle ricchezze, spesso con il beneplacito degli esperti di Luxor o del Cairo, per il loro tornaconto personale. Il culmine era però intervenuto proprio nel 2011, quando a causa della rivoluzione i controlli si erano ammorbiditi.
Per molti mesi, tra il gennaio e il giugno di quell’anno, non si sapeva chi dovesse fare cosa, e così organizzazioni come quelle del russo si erano rafforzate. Accanto a sarcofagi vecchi di millenni, monili e utensili pronti per le aste da Paolini, spesso viaggiavano anche RPG – granate con propulsione a razzo – o casse di munizioni. Oggetti, ognuno a suo modo, molto ricercati ed estremamente redditizi. Oggetti che el Kamhawi, al soldo degli americani che avevano ordito la rivoluzione del Nilo, aveva provato a far arrivare ai ribelli. Nikolaj ci aveva guadagnato una cifra a sei zeri e il colonnello aveva rischiato un processo per alto tradimento.
«So dei tuoi uomini, uccisi fuori dal laboratorio dell’Ulybka Corporation», ammonì il militare, facendo due passi verso le casse di armi depositate accanto alla parete. «C’è solo un motivo per cui potevano essere lì. Credo di sapere cosa cercavano… e soprattutto so come possiamo aiutarci a vicenda».