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Mosca.

19:15.

 

«Ci racconti quello che sa del “delitto degli infanti dalla bocca cucita”!». Veneziani, che fino a quel momento si era limitato ad ascoltare Sforza, fece un passo avanti verso il divano. Nonostante l’aria fredda del locale era madido di sudore. «De Lestes, Istra e il delitto sono in qualche modo connessi: forse potrebbero condurci nel luogo che cerchiamo».

«Sappiamo che il caso degli infanti è stato appena chiuso», aggiunse Nobile, affacciato alla finestra. La vista era impagabile: nonostante le strade fossero deserte, i famosi Stagni del Patriarca, meta di turisti, mantenevano il loro fascino fuori dal tempo. «Casualmente il presunto killer si sarebbe suicidato…».

Bogdanow rimase in silenzio, il torace che faceva su e giù, affannato. «Vi dico solo un nome», desistette, infine. «Ulybka Corporation».

«Ulybka?». Adesso che Sforza ci pensava, Arkadiy Solovyov, l’ingegnere che lavorava alla torre di Tesla, aveva nominato la società durante la sua visita a metà agosto. «Cosa ha a che fare l’Ulybka con gli infanti?».

Bogdanow scosse il capo. «Non so nulla di certo, perché quando è venuto fuori il nome dell’Ulybka e del ministro Rodchenko, mi hanno impedito di fare altre domande».

Michail Rodchenko.

Ancora lui. In effetti, quando tutto era cominciato, erano stati proprio i suoi uomini a rapirlo fuori dall’installazione di Istra.

«Una cosa la so però», proseguì a fatica il poliziotto. «Tutto quello che avete letto sul delitto è falso!».

«Che l’assassino non fosse realmente un turco lo immaginavamo…».

«Non solo. È inventata anche la storia della bocca cucita». Bogdanow sorrise, come se fosse orgoglioso di quel dettaglio, che tanto era piaciuto ai giornalisti. «In effetti era una bocca molto piccola, con denti aguzzi, quasi seghettati. Purtroppo, prima che io arrivassi sul posto, una delle testimoni aveva visto i corpi e aveva preso a blaterare che quei cadaveri erano strani. Mi sono dovuto inventare una balla per zittire le voci!».

«E che mi dici delle sei dita?», insistette Sforza.

«Ufficialmente non ne so nulla…».

«I primi testimoni hanno parlato di esadattilia, ma poi la notizia è come scomparsa dalla stampa», gli ricordò Nobile.

Bogdanow annuì. Si mise seduto a fatica e tirò a sé un piccolo Ultrabook che teneva su un tavolinetto smaltato. Era in stand-by e appena lo aprì lo schermo si accese. Richiamò a video una serie di fotografie e le mostrò ai suoi ospiti.

Nobile portò la mano sulla bocca. «Cristo santo!».

L’immagine, scattata presumibilmente sul tavolo dell’obitorio, ritraeva uno dei due infanti. La pelle era grigiastra e la testa molto più grande del normale. Gli occhi erano giganteschi, se paragonati a quelli di un bambino, e naso e bocca minuscoli. La fisionomia ricordava vagamente la ricostruzione del dio Osiris oppure dei famosi “grigi”: gli extraterrestri che a partire da Roswell tanto avevano affascinato fanatici di tutto il mondo.

«Altro che bambini, erano due esseri assolutamente identici, alti circa un metro», mormorò. «Cloni, probabilmente». Mostrò un’altra immagine, in cui i due “infanti” erano sistemati l’uno accanto all’altro: ora era evidente la somiglianza tra i due e in più si vedevano anche mani e piedi, tutti a sei dita.

«Questa storia non mi ha fatto dormire la notte», sbottò il tenente del dipartimento investigazioni criminali, richiudendo il portatile. «Quando siamo arrivati gli uomini dell’Ulybka avevano fatto un gran casino: quegli esseri gli erano scappati e i gendarmi avevano sparato per abbatterli. Ma i colpi di AK-47 non passano inosservati in una piccola comunità, la gente era scesa in strada e i testimoni erano ovunque. I cadaveri, mezzi nudi, erano per terra, per fortuna abbastanza distanti dai curiosi. Voi cosa avreste fatto se vi avessero ordinato di insabbiare tutto?»

«Avremmo inventato una balla ancora più grande della realtà?», sorrise Veneziani. «Un depistaggio bello e buono da dare in pasto alla stampa?»

«La bocca era realmente molto piccola: vista da lontano poteva sembrare cucita», si giustificò il russo, con un lieve ghigno.

«Niente bocca cucita quindi, e niente serial killer», sintetizzò Veneziani, stizzito. «Se il dettaglio delle sei dita non vi fosse sfuggito, per poi scomparire subito dopo le prime pubblicazioni, oggi non saremmo neppure qui!».

«Sapete cosa penso?», incalzò Bogdanow, lasciandosi cadere sul cuscino. Improvvisamente sembrava più loquace, ansioso di rivelare tutto ciò che fino a quel momento aveva dovuto tenere giocoforza per sé. «Questa storia puzza di eugenetica. L’Ulybka faceva strani esperimenti, ibridi, clonazioni… Quei due esseri ne sono il frutto».

«Prima dicevi che ti hanno imposto di insabbiare la vicenda», domandò ancora Sforza. «Chi è stato?».

Il tenente accennò un sorriso e indicò il soffitto. «Piani alti».

«Per proteggere Rodchenko?».

Bogdanow scosse il capo. «Forse… o forse per nascondere qualcosa di ancora più grosso: la torre di Tesla funziona per davvero, produce energia che non viene immessa nella rete elettrica…».

«E questo come lo sai?»

«Nello stesso modo in cui ho quelle foto sul computer personale o mi posso permettere di vivere qui, a pochi passi dalla fermata di Ulitsa 1905», sbottò, sarcastico, Bogdanow. «Sapete quanto costa un metro quadro in questa zona?»

«In effetti no…», ammise Sforza. Corruzione, informatori, furti e abuso d’ufficio. Non gli interessava cosa facesse il tenente per arrotondare: il punto era decisamente un altro: «A cosa serve secondo te l’energia di Tesla?»

«A far funzionare i laboratori dove hanno clonato quegli esseri!».

Nobile deglutì per la crudezza della risposta. Erano passati con disarmante naturalezza da un delitto di cronaca alla clonazione di umanoidi a sei dita. Le domande che avrebbe voluto porre erano decine ma in quel momento la priorità era un’altra.

«Sai dove sono i laboratori?».

Anatoly Bogdanow sfoderò il sorriso di un gatto che ha afferrato un topo e l’ha appena portato al suo padrone.

«A Istra, naturalmente».