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Cittadina di Istra, oblast’ di Mosca.

08:21.

 

Leonid Solovyov era un tipo smunto che dimostrava più dei suoi sessant’anni. Intabarrato in un camice azzurro da cui sbucava una testa canuta dominata da due occhietti tristi, li accolse all’uscita del vecchio ascensore.

Si trovavano cinque piani sotto il livello della centrale, in un lungo corridoio con le pareti in cemento armato. La luce biancastra dei neon, che lasciava ampie zone d’ombra, faceva risaltare le superfici delle porte che si aprivano sia a destra sia a sinistra. L’aria era umida e ammorbata da un forte odore di muffa.

Mentre scendevano nell’interrato, Arkadiy aveva spiegato che il fratello era caduto in una brutta depressione, dovuta alla chiusura del laboratorio. Era un biologo molecolare molto valido e aveva lavorato per anni in quella base: da quando gli scienziati dell’Ulybka se ne erano andati, lui si rifiutava addirittura di uscire.

«Ma forse è meglio così…», aveva aggiunto. «Visto quel dannato morbo che sta falcidiando il genere umano!».

Appena le porte scorrevoli si aprirono se lo trovarono davanti.

«Non aspettavo ospiti», esordì piccato Leonid. La testa si piegò di scatto a sinistra, in un tic che lo fece assomigliare a un pugile impegnato a schivare un gancio. Il mazzo di chiavi che portava alla logora cintura tintinnò.

«Le prigioni irachene hanno un aspetto migliore!», commentò Gutierrez, sarcastico. Insieme a lui, della delegazione facevano parte gli inseparabili Milano e Pulaski, accompagnati da tre militari russi. Appena più defilati, oltre a un mesto Arkadiy Solovyov, c’erano anche Sforza, Nobile e Veneziani, i primi a mettere piede sul pavimento in linoleum. Il piccolo Quattordici, tremante, si era accodato all’ispettore, nascosto letteralmente dietro le sue ginocchia.

«Scusami», piagnucolò l’ingegnere, sussurrando appena all’indirizzo del fratello. «Non ho avuto scelta…».

Leonid socchiuse gli occhi a poco più che una fessura, studiando quegli estranei. Il mento scattò nuovamente. «Me lo avete riportato!», proclamò però, felice nel vedere il piccolo. Seguì una risatina acuta.

Sforza poggiò una mano protettiva sul capo di Quattordici e scambiò un’occhiata d’intesa con Nobile.

«Abbiamo bisogno di lei, dottor Solovyov», esordì, pacato, Veneziani. «E del suo laboratorio. Le abbiamo riportato uno dei suoi cloni e vorremmo…».

«Cloni?», lo interruppe il biologo, visibilmente contrariato. Il suo incarnato si fece più colorito. «Cloni?»

«Leonid non ama che vengano chiamati così…», si affrettò a spiegare Arkadiy.

Non fece in tempo a completare la frase che il biologo si avviò lungo il corridoio. Camminò talmente veloce, la testa incassata nelle spalle, che i militari si convinsero che stesse fuggendo. Mentre imbracciavano i loro fucili però lo scienziato si fermò davanti a una delle porte d’acciaio. Scostò il camice e staccò dalla cintura dei pantaloni il mazzo di chiavi.

«I cloni sono delle banali copie…», lo rimbrottò, offeso, mentre con la mano premeva una lunga fila di interruttori. Le luci si accesero una dietro l’altra come in un domino. «Siamo partiti da paleo-DNA vecchio di diecimila anni e abbiamo creato nuovi organismi non semplici cloni. Giudicate con i vostri occhi».

Si infilò in una grande sala di cemento armato, sorretta da pilastri. La temperatura era sensibilmente più alta e all’interno erano sistemate, su file di cinque, alcune strane cupole di vetro. Erano alte un’ottantina di centimetri, collegate con cavi e tubi al soffitto. La base di ognuna era allungata, una specie di bozzolo che lasciava intravedere, all’interno, due piccoli alloggiamenti porosi – uno per parte – simili ai seggiolini per trasportare i neonati.

«Questi sono gli Artificial Wombs, gli uteri artificiali», sciorinò con orgoglio Leonid. «Secondo il biologo inglese John Haldane il genere umano disporrà di queste macchine solo nel 2070… noi le usiamo già da dieci anni invece!».

Il gruppo era senza parole. I macchinari, seppur illuminati con tenui luci bluastre, apparivano vetusti e macabramente vuoti. A regime, calcolò Sforza, su quei seggiolini poteva però esserci stata una ventina di feti.

«È qui che avete sviluppato…». Veneziani si sforzò di usare la stessa terminologia cara a Leonid. «Questi nuovi organismi?». Indicò Quattordici e proseguì: «Prima accennava a paleo-DNA. A cosa si riferiva?».

Leonid mosse il mento e un vuoto sorriso di compiacimento apparve sulle sue labbra sottili. Il corpo ossuto, fino a qualche momento prima teso, si rilassò: «Avete sentito parlare del Progetto ISIS?»

«Non stiamo parlando di terroristi islamici, giusto?». Fu Sforza a lasciarsi andare alla battuta. Aveva compreso che il biologo, dopo un iniziale momento di diffidenza, aveva cambiato atteggiamento. Forse era dovuto alla solitudine forzata, o magari alla semplice voglia di rivelare qualcosa di cui andava fiero. In ogni caso sembrava più loquace.

«No… nulla a che vedere». Sorrise. Raggiunse una postazione informatica sistemata lungo la parete e digitò per alcuni istanti. «Riguarda una spedizione in Egitto, negli anni Sessanta. Fu ritrovato un sarcofago molto antico».

Collegando quelle parole alla grande somiglianza tra Quattordici e la mummia del dio Osiris, di cui aveva letto giorni prima, Veneziani azzardò: «Avete creato un nuovo organismo partendo dai resti del faraone egiziano?».

Leonid non rispose, ma si limitò a far partire un video sul monitor. La piccola delegazione si avvicinò, sistemandosi a semicerchio. «Questo è ciò che avevamo!».

Le immagini ritraevano il medesimo laboratorio in cui si trovavano, con la differenza che attorno alle piccole cupole si aggiravano decine di uomini e donne in camice bianco. La telecamera, avanzando in soggettiva, si avvicinò lentamente a una grande vetrata: dietro si vedeva chiaramente un tavolo da dissezione sormontato da una cappa laminare. Di fianco a quest’ultima, accanto al biologo – di almeno dieci anni più giovane – si notava il viso di plastica di Rodchenko.

L’inquadratura cambiò ancora. Ora sullo schermo comparve un primo piano dell’occupante del tavolo autoptico: miseri resti di un piccolo essere vivente. Era simile, per alcuni versi, a Quattordici. I suoi tessuti, però, sembravano privi di muscolatura, legati alle ossa come un sudario malandato. Le bende nelle quali il corpo era stato seppellito erano state rimosse ed erano sistemate tutto attorno allo scheletro.

«A causa dell’assenza di ossigeno e di patogeni esterni nella sepoltura, molti tessuti si erano conservati: il paleo-DNA però, principalmente per l’età, come potete immaginare era in parte compromesso. Mancavano intere sequenze nucleotidiche».

Lo scienziato si interruppe, guardando con nostalgia le immagini che ora ritraevano provette e computer con monitor a tubo catodico.

«…l’unico modo per ottenere un genoma completo era integrare le parti mancanti con le sequenze affini di cui disponevamo». Leonid si fermò, facendo cadere lo sguardo su Quattordici, sempre più avvinghiato a Sforza. «Avevamo stimato che il genoma della mummia fosse sovrapponibile a quello umano per il novantasei percento».

«Sta dicendo che la mummia non era umana?», sbottò Gutierrez, afferrando il sigaro tra le dita. «Non diciamo idiozie!».

Leonid non cadde nella provocazione. Si limitò a scannerizzarlo con i suoi occhi spenti, replicando con un’altra domanda: «Tra uomo e scimmia il DNA differisce per il tre percento. I primati, che condividono con noi il novantasette percento del genoma, sono umani? Me lo dica lei!».

«Vada avanti», lo incitò però Veneziani. «Avete integrato il patrimonio genetico del dio Osiris con quello umano?»

«Certo», ammiccò, orgoglioso, Leonid. «E abbiamo usato, per le parti compatibili, anche sequenze di scimpanzé e babbuino!».

Chimera.

Quelle parole confermavano definitivamente le supposizioni di Veneziani. Avevano creato un ibrido tra un uomo, un animale e un essere che era difficile definire umano. In una parola sola, avevano generato la mitologica chimera profetizzata dai greci. Anzi, a giudicare dal numero di uteri artificiali, ben più di una… ma per quale ragione?

«Poi cosa successe?», incalzò.

«Successe che il seme della vita cominciò a scorrere…».

Adesso sul video si vedevano alcune riprese al microscopio elettronico: una cellula si stava dividendo. Due, quattro, otto, sedici cellule…

«Una volta trasferito il genoma così completato all’interno di un ovocita umano privato del nucleo, formammo uno zigote». Leonid si voltò, poggiandosi al tavolo e cercando di saggiare le espressioni di quell’eterogeneo gruppo fatto di militari e novelli Indiana Jones. Ritenne che era necessario spiegare meglio quel passaggio. Incrociò le mani sul petto e proseguì: «Come sapete lo zigote è la prima cellula dell’uomo: opportunamente stimolata dà origine alla cosiddetta “embriogenesi”. Si forma l’embrione che poi può essere trasferito in un utero».

«Un utero artificiale… Un AW», concluse il ragionamento Veneziani, voltandosi verso le cupole. Per un istante provò a immaginare come doveva essere stato quel luogo quando all’interno vi crescevano quelle strane forme di vita.

«Non sapevamo se un utero umano sarebbe stato perfettamente compatibile», sospirò. «Una donna può partorire un cucciolo di scimpanzé? Non ne eravamo sicuri, così abbiamo sviluppato queste!». Si avvicinò a una delle cupole e le accarezzò come avrebbe potuto fare con un cucciolo.

«Dove sono tutti gli occupanti degli AW?», chiese in modo estremamente pratico e razionale Gutierrez.

Leonid ebbe uno dei suoi tic. Subito dopo fece cadere lo sguardo affranto sul pavimento. «Servivano per un progetto riservato dell’Ulybka».

«Fenice!», si intromise Sforza, senza però comprendere il rapporto tra quelle rivelazioni e i piani della SunriseX.

«Fenice», assentì Leonid. «Non so di cosa si trattasse… Quello che so è che appena l’ultimo lotto di cinque ha raggiunto una maturazione cellulare corrispondente a quattro anni di vita, l’Ulybka ha detto basta. Ha trasferito i soggetti e ha chiuso il laboratorio».

Ci fu istante di silenzio religioso, in cui nessuno osò porre altre domande. Nell’aria aleggiava ancora il riferimento, apparentemente banale, alla maturazione cellulare delle chimere. Quattro anni. Anche Quattordici, quindi, aveva quattro anni. Poteva a ragione essere definito un bambino?

«Dieci anni di ricerche cancellati con un colpo di spugna», proseguì Leonid, soffocando un singulto. «È per questo che ci siamo rivolti a De Lestes».

«Lo conoscevate già?». Sforza alzò un sopracciglio, incuriosito. Poco prima di scendere nel laboratorio lo stesso Arkadiy aveva rivelato che De Lestes era a conoscenza dei traffici di Rodchenko.

«Certo: è a lui e al cardinale Vonn che il ministro ha venduto la mummia…».