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Il Cairo. Poche ore prima.
20:19.
Antony Milano spalancò la porta-finestra e si ritrovò su un piccolo balcone, sul retro dell’hotel.
Nell’altra stanza, il tenente Pulaski aveva appena aperto il fuoco. Alla scarica del suo M-16 erano seguite urla e spari di revolver. Senza vedere cosa stava accadendo era impossibile capire chi avesse avuto la meglio.
«Presto». Il giovane, stringendo il piccolo Quattordici tra le braccia, incitò John Tan-Tan e Sybilla. «Sulla scala».
Setacciò con lo sguardo l’angusto vicolo che si apriva sotto di loro: deserto, come tutta la città, con le porte di diversi palazzi marcate dalla vernice rossa. Guardando più in alto, gli edifici di quattro o cinque piani si estendevano a perdita d’occhio, alternati a minareti appuntiti e a tetti costellati di parabole e antenne televisive. Il sole basso disegnava lunghe ombre rossastre e il caldo secco era ancora soffocante. Un altro sparo.
Questa volta di un mitragliatore. Non certamente di M-16, l’arma della sua collega. Dal clangore acuto, come di martellate sul ferro, poteva essere un kalashnikov.
«Pulaski, tutto ok?», urlò, mentre le manine esadattile di Quattordici si avvinghiavano alla ringhiera fuori dal balcone. Il piccolo si arrampicò con un’agilità sorprendente e quando Milano ebbe le mani libere le porse a Sybilla. Cercò di sbirciare dalla finestra verso l’altra stanza, dove gli spari si stavano susseguendo.
«Presto. Sul tetto!», tuonò ancora. Non fece in tempo a dire altro che una vetrata, a pochi metri da loro, andò in frantumi.
Dragan Sauer era nascosto nel corridoio, le spalle poggiate al muro e l’AK-47 fumante puntato verso il soffitto.
La scarica di mitra proveniente dall’interno, che aveva come polverizzato la porta, aveva colpito in pieno uno dei suoi mercenari. L’unica notizia positiva era che la serratura era stata disintegrata, facendo sventolare il battente come una banderuola.
Un altro contractor cacciò nuovamente la canna del fucile all’interno e sparò alla cieca. Una finestra, dall’altro lato della stanza, andò in frantumi.
Seguì la solita risposta di M-16: pochi colpi singoli, sempre nella loro direzione.
Nonostante la superiorità numerica erano in una situazione di stallo. Non potevano entrare senza essere colpiti. Ma forse c’era un altro modo: oltre la stanza 237, lungo il corridoio, c’era un’altra camera che raggiungeva lo spigolo del palazzo. Attirò l’attenzione dell’uomo che gli stava accanto e indicò la porta.
Il militare comprese immediatamente cosa voleva il suo capo e si staccò dal gruppo. Puntò il fucile contro la maniglia e la fece saltare. Appena la serratura fu aperta, Sauer a testa bassa lo raggiunse, protetto dal fuoco di copertura del terzo mercenario.
Attraversò la camera vuota e si diresse al balcone. Da lì si vedeva l’interno della 237, con l’americana nascosta dietro un comodino crivellato di colpi. Soprattutto, oltre lo spigolo del vecchio edificio, si vedeva una scala antincendio, su cui come topi stavano squittendo le sue prede.
Catherine Pulaski si rese conto di ciò che stava accadendo appena ebbe udito lo sparo oltre il muro. Prestò orecchio e udì i passi concitati in una stanza attigua.
“Cazzo”.
La stavano accerchiando.
Si voltò verso il balcone e, stagliato contro il sole, individuò un Big Jim con la mascella squadrata e gli occhi color ghiaccio. Puntava il fucile verso la scala antincendio.
Con un colpo di reni sgusciò verso di lui aprendo di scatto lo scuro.
Fu allora che si accorse che erano in due.
Il secondo tizio la strattonò per la canna del fucile e provò a trascinarla fuori.
Era forte, molto più di lei.
Per un istante si trovò a metà strada, tra l’aria rarefatta della camera e quella torrida dell’esterno.
Nel frattempo, il terzo mercenario spalancò la porta. Saltando il compagno morto piombò nella stanza.
Con la coda dell’occhio, il tenente notò un movimento inatteso. Era Milano, tornato indietro per aiutarla.
Il giovane tenente prese la mira e fece fuoco.
Sybilla, ansimante, salì gli ultimi gradini della scala antincendio e si ritrovò sul tetto. Era circondata di lenzuola stese ad asciugare, che sventolavano abbandonate come le vele di una nave fantasma.
Si guardò attorno, cercando di orientarsi. A ovest, verso il sole, i tetti erano un saliscendi di luci e ombre che si perdevano nella foschia. Dalla parte opposta la visuale era ostruita da un muro scrostato, sormontato da una fila di tegole rossicce. Sotto, tra le auto parcheggiate, si insinuava il vicolo, almeno dieci metri più in basso. Nessuna scala per scendere. Nessuna via d’uscita.
Tenendo per mano i bambini si mosse, titubante, cercando di allontanarsi il più possibile dai colpi di mitra.
Attraversò il tetto, voltando meccanicamente il capo a destra e a sinistra. Il cuore che le martellava nelle orecchie.
«Da quella parte», suggerì John Tan-Tan. Indicò proprio verso la parete. A guardarla bene si capiva che era come una specie di stanza, costruita al centro del tetto: forse l’accesso alle scale o all’ascensore. Se era così ci doveva essere un’uscita.
Provarono a girargli attorno e alla fine la individuarono: una porta di metallo con vetri smerigliati.
Con foga, sibilla tentò di girare la maniglia.
Inutilmente.
Era chiusa dall’interno.
Milano fece due passi nella stanza.
Il suo colpo calibro 9x19 aveva neutralizzato uno degli ostili ma Pulaski era ancora in difficoltà.
Il mercenario l’aveva trascinata sul balconcino e le teneva il corpo proteso oltre la ringhiera, pronto a buttarla di sotto.
La donna barcollò, cercando di mantenere il precario equilibrio oltre la balconata ma poi non poté opporsi.
Cadde e per un brevissimo lasso di tempo si trovò lanciata nel vuoto. Poi però trovò un appiglio: un’insegna semiarrugginita a forma di piramide, imbullonata alla facciata dell’hotel. Vi si avvinghiò con entrambe le mani, penzolando con i piedi.
Sotto lo sguardo impotente di Milano, il mercenario sbuffò. Si sporse, scavalcò a sua volta l’inferriata e allungò l’anfibio, colpendo il supporto di metallo con un calcio.
Pulaski resistette, stoica. Ma l’insegna vibrò vigorosamente. Un bullone saltò via.
L’uomo assestò un altro calcio e un altro ancora e infine il supporto si staccò dalla parete.
Le dita della donna stavano perdendo la presa e l’uomo dovette accorgersene perché caricò il tallone e questa volta fece forza sulle sue falangi.
Un nuovo calcio. La mano destra della donna cedette.
Milano si avvicinò sporgendosi a sua volta per cercare di afferrarla, ma inutilmente, era troppo in basso.
Il mercenario invece, in bilico oltre l’inferriata, sorrise e provò ad assestare un ultimo colpo. Ma fu quello fatale.
Con il braccio libero, Pulaski gli afferrò la caviglia e lo trascinò verso di sé.
Il contractor provò ad aggrapparsi al montante del balcone, senza riuscirci. Non avrebbe dovuto scavalcare… In un istante si trovò penzolante nel vuoto, a testa in giù con un unico appiglio: la sua caviglia stretta tra le dita di una donna, a sua volta aggrappata a un’insegna quasi completamente staccata dalla parete.
Trascorse solo una frazione di secondo e l’americana lo lasciò andare. Non avrebbe potuto sostenerlo neppure se avesse voluto. Tese i muscoli e provò a risalire verso il balcone, dove la mano di Milano era protesa per afferrarla. Ma il peso del mercenario aveva piegato l’unico tubo che ancora collegava l’insegna al muro.
Riuscì solo a sfiorare le dita del collega che l’ultimo bullone cedette, scaraventandola verso il vicolo.
Milano la contemplò cadere, come al rallentatore. Poi si lasciò sfuggire un rantolo di frustrazione.
E fu in quel momento che si accorse che, sul balcone, il secondo uomo non c’era più.
Sauer divorò i gradini della scala interna a due a due.
Raggiunta la cima si fermò davanti a una porta di metallo, sbarrata. Poteva essere aperta solo dall’interno.
La spalancò e si trovò di fronte Sybilla e i due bambini.
«Andate da qualche parte?».