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Quarantacinque minuti dopo.
02:16.
L’elicottero AgustaWestland 189 si era sollevato in volo dall’edificio 3 poco dopo che l’allarme aveva cominciato a suonare. Tutto si era svolto così velocemente e di sorpresa che nessuno, fuori dalla base, era stato in grado di impedire al velivolo di decollare.
Gli uomini di Nikolaj Pavlovic si erano limitati a osservare la scena con un distacco quasi irreale: avevano udito il rombo dei rotori sulle loro teste e poi avevano individuato l’ombra in hovering. Ma era troppo in alto: avevano lanciato una granata nel buio, con il solo effetto di creare uno scenografico fuoco artificiale lontano dall’abitacolo.
Il grosso elicottero aveva così inclinato il muso affusolato in avanti ed era scomparso turbinando dietro le piramidi di Giza.
«Se scattano i sistemi di sicurezza i laboratori vengono automaticamente sigillati», aveva spiegato con orgoglio Rodchenko pochi giorni prima, durante la prima visita di Verdi. «Il supporto vitale e ogni altro comando viene trasferito nella sala di osservazione».
E così era stato. Il vecchio era fuggito sfruttando proprio i tanto elogiati sistemi di protezione della base: quando l’allarme aveva sigillato i due laboratori, immobilizzando di fatto i suoi aggressori, lui era stato l’unico a poter uscire. “Ogni altro comando” comprendeva ovviamente la possibilità di aprire selettivamente le saracinesche: ciò che aveva fatto per arrivare indisturbato sul tetto. E adesso, mentre un vento proveniente dal Sahara aveva preso a insinuarsi tra le strade deserte e oscure di Giza, era tutto finito.
«Così l’ape regina se l’è filata», borbottò Pavlovic.
Rodchenko, immobile come un ritratto, non gli rispose. Era visibilmente provato, ma almeno era vivo. Come tutti gli occupanti dei laboratori e tutte le cavie, era stato fatto uscire all’aria aperta, nel cortile: poco prima di fuggire, infatti, Verdi aveva manomesso il supporto vitale e solo per un caso fortuito gli uomini dello Zar erano riusciti a disinnescare il sistema d’allarme e liberarli.
«Almeno adesso hai di nuovo la tua base», lo incalzò ancora, ironico, il mercante d’ami, voltando la sua carrozzina. «Quello che volevi, no?».
Il ministro continuò a non rispondere, chiuso in un silenzio carico di tensione. Si limitò a far cadere lo sguardo sui visi scuri e anneriti di fuliggine delle molte persone che gli stavano intorno. Circondati da cadaveri, dai detriti delle esplosioni, dal fumo che ancora aleggiava nell’aria, i compagni di quell’avventura avevano un’aria spaesata. Sconfitta.
Per la prima volta, da quando lo conosceva, notò che le rughe sul volto di Veneziani si erano fatte più profonde. Nobile era in piedi, abbracciato a Sybilla e Jonathan, le spalle protette da una pesante coperta. Gutierrez passeggiava nervosamente nei pressi dei garage, fumando come una ciminiera, mentre Sforza stava seduto su un copertone accanto a Quattordici. Sembravano, nessuno escluso, aver perso tutta l’energia che li aveva spronati in quelle settimane. La linfa che gli aveva permesso di arrivare fin lì.
E poi c’erano loro, le chimere. Erano le più impaurite di tutti. Erano accucciate in un angolo dello spiazzo, tra alcuni barili di cherosene e il muro della recinzione: Zer, con fare materno, si aggirava fra loro e li carezzava uno a uno, scambiando occhiate d’intesa. Nessuno parlava, ma chissà, forse avevano un loro modo di comunicare.
Mentre gli uomini di Pavlovic facevano da spola da un TIR a un altro, per constatare di persona se i reperti della “tomba del visitatore” ci fossero tutti, Rodchenko distolse lo sguardo.
«Non quello che volevo io…», ammise il ministro, rispondendo alla domanda del trafficante, ancora aleggiante nell’aria. «Tutti noi abbiamo ottenuto ciò che volevamo!». Fissò prima Mar’ja Efimova e poi Jonathan. Unendo le peculiarità del sistema immunitario del bambino con il siRNA dell’Ulybka, si sarebbe potuto mettere a punto un vaccino realmente efficace.
«Se due ore fa ci avessero detto che saremmo riusciti a riprenderci la base ci avremmo messo la firma», aggiunse Veneziani, a indirizzo dei compagni che ormai considerava più che amici, quasi fratelli. «Volevamo un posto per sviluppare il vaccino. Ce l’abbiamo! Tutto il resto non ha importanza: la strada è ancora lunga, ci sarà da lottare, da combattere, da parlare con i governi… Una cosa però è certa: oggi è il primo giorno di una nuova era».
Ci furono mormorii d’assenso e capi che si piegavano, annuendo convinti. La linea di demarcazione tra la sconfitta e la vittoria era molto sottile…
Una luce, all’orizzonte, dalla parte della Sfinge, si accese all’improvviso. Il black-out stava finalmente dando una tregua: esattamente come il piano di Verdi.
La guerra non era finita, tutt’altro. Ne erano tutti consapevoli. Non lo sarebbe stata fino a che il capo dei Tredici, il folle che si faceva chiamare il Settimo Oracolo, sarebbe riuscito a nascondersi. Ma una battaglia, quella più importante, quella per la sopravvivenza, era stata appena vinta.
Il gruppo si voltò quasi simultaneamente verso la necropoli, ora illuminata da una rassicurante luce giallognola. Molti scrutarono le piramidi, altri chiusero semplicemente gli occhi. Alcuni si abbracciarono e tirarono un sospiro di sollievo, come se avessero raggiunto il traguardo dopo una lunga corsa.
Anche se milioni di persone erano già morte fino a quel momento, finalmente c’era uno spiraglio per l’umanità.