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Il Cairo. Trenta minuti più tardi.
14:15.
Il Buddha Bar era un locale alla moda, con DJ che a ogni ora del giorno e della notte suonavano musica arabeggiante mescolata a sonorità techno. Si trovava all’interno del casinò del Cairo, situato sulla punta meridionale dell’isola di Gezira.
Per arrivarci, Sauer aveva dovuto percorrere a piedi i vicoli a ridosso dell’ambasciata britannica: molte delle porte degli edifici erano state imbrattate con vernice rossa e scritte in arabo che mettevano all’erta sul possibile contagio. La manifestazione di protesta di poco prima si era diretta dalla parte opposta, verso l’ospedale Ahmed Maher, così sulla sponda est del fiume e sul ponte Kasr Al Nile non aveva incontrato anima viva. Solo due camion dell’esercito lanciati verso la Cairo Opera House gli erano sfrecciati a fianco. I militari, protetti da vistose maschere antigas, si erano limitati a fissarlo senza scendere dai loro cingolati.
L’edificio del casinò era un grattacielo circolare di colore rossiccio che con i suoi trenta piani si stagliava sullo skyline. Quando il mercenario vi entrò lo trovò insolitamente affollato. Se non fosse stato per i molti giocatori con il viso coperto da mascherine sterili, sarebbe potuta sembrare una giornata di normale routine.
La grande statua di un Buddha con le gambe incrociate lo accolse in fondo a una scalinata di legno, appena ebbe raggiunto il luogo dell’appuntamento. Il mercenario strizzò gli occhi affacciandosi al ballatoio: in basso, i tavolini del bar, rischiarati da lampadari che diffondevano luci sulle tonalità del viola, sembravano isole in un mare di marmi policromi. Accanto alla grande vetrata affacciata sul Nilo c’erano due vistosi tendaggi profilati in oro. Fu lì che Sauer individuò la sagoma di Ylenia. Indossava un velo islamico che le copriva le ciocche di capelli neri e dal quale affioravano i suoi splendidi occhi verdi.
«Che succede?», le domandò, lanciando occhiate ai pochi avventori seduti nel locale.
«Non potevo parlartene al telefono». La donna fece strada fino a un tavolino rotondo. Davanti a una pinta di birra e a una barchetta di legno colma di sushi e sashimi, c’era un uomo.
Sauer lo squadrò: magrolino, camicia sbottonata, occhi contornati di rughe, pochi capelli. Era certo di non conoscerlo. Si sedette, in attesa che la sua fidanzata spiegasse il motivo di tanta riservatezza.
«Mike, Dragan», fece le presentazioni Ylenia. «Mike è dell’ambasciata…».
«Ci sono problemi?», si informò il mercenario, fissando con diffidenza l’omino.
«Direi proprio di sì!», tuonò l’estraneo, senza cerimonie.
Sauer non rispose immediatamente e si limitò a scambiare un’occhiata con Ylenia. «Ha insistito per incontrarci in privato…», sbuffò. «Quindi sono risolvibili. Cosa succede, avete finito i passaporti in bianco? Servono più soldi?»
«Non esattamente», ammiccò Mike, sorseggiando un po’ di birra e cercando di dissimulare la tensione. «C’è un problema con il certificato di vaccinazione».
«Cosa c’entra il certificato? Qual è il problema?».
Il funzionario dell’ambasciata si guardò attorno, per essere certo che non ci fosse nessuno che potesse udirlo. «Il vaccino è il problema!».
Dragan accennò un sorriso: «È tutto in regola».
«Non mi interessa che sia tutto in regola o meno… non è questo il punto: ognuno è libero di scegliere se vaccinarsi oppure no».
«E allora cosa le interessa?»
«Salvare la pelle. Come tutti». Si allungò sul tavolo e abbassò la voce. «Il vaccino è pericoloso!».
«Questo è ciò che credono le migliaia di persone che protestano in tutto il mondo. Qual è la novità?»
«Ora ci sono le prove».
Il mercenario lo contemplò, in attesa, senza dire nulla.
«C’è un dispaccio riservato», balbettò il funzionario, modulando la voce. «È arrivato questa mattina in ambasciata». Fece scorrere sul tavolino laccato un foglio piegato in due parti. «Lo legga. Se non è un problema quello…».
Sauer afferrò il documento e lo scorse velocemente: era una lettera e l’intestazione recava la roboante dicitura TOP SECRET. «È impossibile!», alzò la voce. Mentre lo diceva, però, per un istante ripensò alla provetta del vaccino che teneva sul comodino dell’hotel. Quel dannato medicinale stava complicando le cose: dall’approvazione della risoluzione ONU n. 1015 per viaggiare era obbligatorio esibire un certificato che attestava l’avvenuta vaccinazione.
«Il documento è autentico».
«Perché lo racconta a me?», lo interruppe il mercenario. La sua voce di solito sicura questa volta sobbalzò.
«Perché so chi siete», lo sferzò Mike. «E soprattutto perché si dice che esistono due varianti del vaccino… Una per il popolo e una, per così dire, per le élite».
«Non mi risulta nulla di simile». Era vero, nessuno gliene aveva mai parlato. Su indicazione di Greenidge si era limitato a consegnare il missionario ai russi e a intascare il meritato compenso. Anche ammesso che ciò che stava dicendo quel Mike fosse vero, per sintetizzare un nuovo vaccino con il DNA di Fernandes sarebbero occorse molte ricerche. Sempre che fosse davvero possibile.
«So dell’Ulybka, qui a Giza, dove avete portato il brasiliano. Circolano un sacco di voci su quel posto: esperimenti con cavie umane». Mike si fermò di colpo in cerca di orecchie indiscrete che però non c’erano. I pochi avventori presenti non lo degnavano di uno sguardo. «Avrete sentito anche voi che qualche giorno fa hanno ammazzato tre curiosi da quelle parti. Non so che razza di ricerche fanno ma tutto questo ha a che fare con il vaccino!».
«Dice di avere le sue fonti», si intromise Ylenia, tagliando corto. Poggiò le mani pacatamente sul tavolo. «La cosa importante è che se gli forniamo alcune dosi del secondo vaccino, avremo i documenti», sintetizzò.
Dragan scosse il capo, rammaricato. «Se sa così tante cose, saprà che è impossibile: il secondo vaccino non esiste ancora. Tutto dipende da quel maledetto missionario».
A venti chilometri di distanza, nel laboratorio sotterraneo della multinazionale Ulybka, i virologi russi avvolti in tute hazmat erano alle prese con la loro cavia. Padre Fernandes non stava rispondendo bene agli stimoli: il suo sistema immunitario, invece di produrre gli anticorpi, come avrebbe dovuto, stava collassando.
«Diazepam», ordinò il primo, da dietro una vetrata. «Presto. Quindici milligrammi».
«Continua a non reagire», lo avvertì il secondo medico, che stava maneggiando una flebo con un liquido lattescente. «Non è compatibile: c’è qualcosa che non va».
Un suono persistente e appena percettibile cominciò a echeggiare nel laboratorio. Altri paramedici si avvicinarono allarmati al letto. Il defibrillatore fu prelevato dal suo alloggiamento nella parete.
«Cosa succede?», indagò il virologo.
«È in arresto cardiaco».