Prologo

Piana delle Piramidi di Giza, Egitto.

1961.

 

Il beduino accese un fiammifero e lo accostò al suo sigaro. Mentre teneva le mani a coppa, per evitare che qualcuno riuscisse a vederlo nell’oscurità, si voltò verso occidente.

La piramide di Cheope, rischiarata dalla luna piena, si stagliava come un’immensa nube sotto il cielo stellato. Tutt’attorno, aleggiava una pallida nebbia che avvolgeva il tempio a valle di Micerino, il luogo dell’appuntamento.

«Magbarat Alzoar?», lo interrogò un giovane, avvicinandosi lentamente. Era solo, avvolto in un’uniforme scura e con una sigaretta tra le dita.

Il beduino lo scrutò nell’oscurità. Serrò le labbra attorno al cheroot e annuì. «Aveva appuntamento con qualcun altro?», sussurrò in russo quasi perfetto, la voce baritonale.

Il giovane si sollevò il cappello militare e sorrise. Una dentatura bianca risaltava sugli occhi color della pece. «È spiritoso. Credo che andremo d’accordo».

«Ha portato i soldi?», fece l’anziano, passandosi una mano all’altezza della cintura della galabìa, il lungo abito bianco caratteristico del luogo.

«Non pensavo che voi foste attaccati al denaro come un qualunque capitalista».

Il cammello del beduino emise un bramito e lui si limitò a muovere le labbra, senza dire nulla. Poi cambiò idea: «Vendere carne e tappeti non frutta più come una volta… Le informazioni valgono di più!». Fece una pausa, un sorriso sardonico sul viso. «E come sa, l’ospitalità è il cardine della cultura della mia gente».

«Parlami dei due uomini della tua tribù», tagliò corto il giovane.

«Sono al Cairo. In ospedale».

«Questo lo so», ringhiò. «Sono già stati interrogati dai nostri agenti ma sono in stato confusionale».

«Le esalazioni del sepolcro, pare…».

«Sei certo che le tue informazioni siano attendibili?».

Il beduino sorrise nuovamente alla luce rossiccia del sigaro. «Non saresti qui se non lo pensassi».

Il ragazzo scosse il capo.

«Sono entrati nella tomba l’altro ieri notte, sono stati male un bel po’ dopo», lo rassicurò l’egiziano, tirando un’altra boccata. «Naturalmente abbiamo parlato prima…».

«Conosci il luogo?».

 

Un’ora più tardi, un convoglio di undici mezzi cingolati, alcune jeep e tre vecchi carri armati T-28 attraversò la necropoli. Procedettero lentamente, sollevando cumuli di sabbia millenaria livellata dal vento e sobbalzando sul terreno sconnesso.

Il sole si stava alzando a oriente e la foschia polverosa mattutina incorniciava l’inconfondibile profilo delle tre piramidi principali. Il caldo era già asfissiante e il terreno ondulato era forato in più punti: segno inconfondibile della presenza di tombaroli notturni.

I mezzi si fermarono esattamente dove aveva indicato il beduino: la strada aveva il consueto colore ambrato e a pochi passi dal ciglio, su una lieve altura, era stata posizionata una cerata scura, sorretta da travetti di legno. Al di sotto, si vedevano alcuni gradini ricavati nel suolo, che scendevano di un paio di metri nel cuore della terra.

«Compagno generale, ben arrivato». Il giovane militare tese la mano, fissando l’esposizione di mostrine e medaglie dell’uomo che gli si stagliava davanti.

«Buongiorno», si accigliò quest’ultimo, il fiato corto per la scarpinata. Sotto la rigida uniforme sfoggiava un addome prorompente e un fisico corpulento e sudato. «Lei si chiama?»

«Compagno Michail Rodchenko», replicò il giovane, annuendo lentamente. «Dottor Michail Rod-
chenko».

«Ah, è lei…».

«In persona: quando ci siamo resi conto che i due beduini che hanno trovato il sepolcro erano in stato confusionale, ci siamo rivolti a un membro del loro clan». Indicò un uomo su un promontorio poco lontano, la caratteristica kufiyya a cingergli il capo. «Prima che si sentissero male ha parlato con i due beduini che hanno trovato la tomba».

«I due del Cairo hanno vuotato il sacco con qualcun altro oltre a noi?»

«Assolutamente no. Li ho interrogati personalmente, sotto la supervisione dei compagni agenti del Comitato, ma non sono in condizioni di parlare».

Il generale sospirò. Secondo gli ordini che aveva ricevuto direttamente da Mosca, doveva presenziare personalmente all’apertura del sarcofago.

«È pericoloso?», si informò, abbassando il capo per riuscire a sbirciare sotto la cerata. Accanto a lui c’erano alcuni militari che indossavano maschere antigas: «Mi dicono che i beduini sono stati male proprio dopo essere entrati nel sepolcro».

«Ho verificato di persona la salubrità dell’aria», rispose Rodchenko. «Qualunque cosa ci fosse appena aperta la tomba, adesso si è dissolta».

Il generale puntò lo sguardo indagatore sul dispositivo che il giovane medico teneva tra le mani. Assomigliava a una radio a transistor, su cui campeggiavano grosse manopole e lancette. Dalla sommità fuoriusciva un lungo tubo che terminava in un piccolo apparato dalla forma di una maniglia.

«L’aria è respirabile», proseguì il medico, accennando con lo sguardo proprio al dispositivo, «tuttavia, poiché non sappiamo cosa troveremo all’interno del sarcofago, suggerisco di usare ugualmente le maschere antigas».

Il generale annuì e una volta indossato il dispositivo scese lungo la scaletta appoggiandosi alle pareti di tufo.

L’ingresso alla stanza del sepolcro era basso e sormontato da un altorilievo raffigurante un oggetto alato.

«Procediamo», ordinò, una volta dentro.

La stanza mortuaria era quadrata e relativamente piccola. Sulle pareti erano affastellati ideogrammi sulle tonalità del rosso, in gran parte scoloriti. Si notavano diverse nicchie, all’interno delle quali vi era tutto un fiorire degli oggetti più cari del defunto: gioielli, papiri con formule magiche, un bastone da passeggio, uno scrigno dorato. Il soffitto era a volta, appena accennata, anch’esso colmo di incisioni raffiguranti le divinità dei morti. Il sarcofago, completamente in pietra e privo di qualsiasi incisione ornamentale, si trovava invece al centro della camera.

Uno dei militari più giovani, dotato di pala, fissò il generale e si limitò ad annuire. Si chiamava Nikolaj Pavlovic e benché in quel periodo non si azzardasse a rivelarlo, i suoi genitori lo avevano chiamato così in onore dello zar Nicola I di Russia.

Infilò la lama nell’incavo del sarcofago e fece leva. Ma non ottenne alcun risultato apprezzabile. La lastra, troppo grossa e pesante, non si mosse di un millimetro. Occorsero diversi minuti, affinché con l’aiuto di altri numerosi addetti del luogo, impacciati dalle maschere antigas, si riuscisse a sollevare il coperchio. Qualcosa però andò storto e mentre il mastodontico blocco di granito veniva fatto scorrere, uno dei manovali perse la presa. Il masso si sollevò come scagliato in alto da una mano invisibile e poi cadde pesantemente sopra le gambe di Nikolaj, che si accasciò, tramortito.

«Cattivo presagio!», sbraitò qualcuno, tentando di sorreggerlo. Ma non fece in tempo: seguirono attimi di concitata agitazione che non dettero modo ai presenti di rendersi conto di ciò che stava accadendo. Una nuvola di polvere si innalzò quasi all’istante dall’interno del sepolcro aperto. Sembrava una mattina di nebbia sopra una palude e per un attimo tutto si perse nel grigio. Quando la nube polverosa si diradò, la visione del corpo mummificato colpì tutti presenti.

Le dimensioni dello scheletro erano minute, simili a quelle di un bambino. Ciò che lasciò però perplessi gli archeologi russi furono le forme anomale della testa. Le orbite erano ampie, la fronte spaziosa e il capo allungato, proteso all’indietro. Tra le bende logorate dal tempo, si intuivano degli zigomi sporgenti e una bocca minuscola: sulla mandibola erano incastonati piccoli denti seghettati, che davano l’impressione di essere incastrati gli uni sugli altri.

«La tomba del visitatore», si lasciò sfuggire uno dei manovali che avevano aiutato a sollevare il coperchio. Blaterando qualcosa in arabo, fece cadere lo sguardo terrorizzato sul corpo esanime di Nikolaj Pavlovic. «Il ritorno degli dèi alati!».

Michail Rodchenko non si lasciò impressionare da quelle leggende, che in un modo o nell’altro richiamavano teorie strampalate sugli alieni. Non era certamente quello il suo campo: la sua mente di medico si concentrò invece sulla fisionomia della mummia. Quella strana espressione compiaciuta da cartone animato, con i denti superiori uniti a quelli inferiori, gli fece rimbalzare in testa una parola in russo: улыбка, ulybka, sorriso.

Non poteva sapere che grazie a quello stesso sorriso sarebbe diventato uno degli uomini più potenti di Russia.