Prefazione

 

 

 

 

 

 

 

26 dicembre 2018

 

Dede si trovava al solito pub, il Cartoons, in via Emanuele Filiberto a Milano. Il Cartoons era il classico locale in stile inglese, in legno scuro e lucido con dei poster di cartoni animati incorniciati sulle pareti. Il pub era pieno di ultrà dell’Inter. Mancavano soltanto due ore all’inizio della partita contro il Napoli.

Dede non era un ultrà dell’Inter. Era un piastrellista trentanovenne di Varese, una città a sessanta chilometri a nord-ovest di Milano. Aveva una moglie e due figli e si allenava in una palestra di arti marziali in cui aveva vinto alcuni tornei di scherma corta sportiva, disciplina che prevede l’uso di stiletti. Aveva dieci anni di diffida dagli stadi alle spalle. Dede era un po’ ingrassato nell’ultimo periodo ma sapeva ancora farsi valere in combattimento. Si trovava lì con alcuni ultrà del Varese, parte di un gruppo chiamato Blood & Honour gemellato con gli ultrà dell’Inter.

Non erano gli unici forestieri che i vari gruppi ultrà interisti – i Boys san, gli Irriducibili e i Vikings – avevano invitato a partecipare agli scontri. Al pub c’erano anche gli ultrà della Populaire Sud di Nizza, che avevano dei conti in sospeso con i napoletani a causa di scontri avvenuti qualche anno prima tra le due tifoserie.

La Blood & Honour era anche un’organizzazione neo-nazista. Venne fondata in Inghilterra nel 1987 da Ian Stuart Donaldson, il frontman di un gruppo rock di suprematisti bianchi, gli Skrewdriver. Il nome si ispirava al motto della gioventù hitleriana, Blut und Ehre (sangue e onore). Dopo la morte di Donaldson in un incidente stradale avvenuto nel 1993, la Blood & Honour si trasformò in un movimento internazionale con varie diramazioni in Europa e in America. Nel 1998 un nuovo gruppo di ultrà di Varese decise di utilizzare la stessa runa OÞalan come logo, un simbolo usato sia dalla Waffen-ss che da un’organizzazione fascista italiana fuorilegge: Avanguardia Nazionale.

La brutalità dei membri della Blood & Honour era un fenomeno che raramente si era verificato all’interno delle curve delle squadre di calcio italiane. Se martelli, asce, mazze da baseball e coltelli erano stati utilizzati in precedenza durante gli scontri, ora questa violenza veniva accompagnata da un’ideologia nazista il cui unico mezzo di espressione sembrava essere la forza bruta. Nell’arco di tre anni, gli uomini della Blood & Honour erano riusciti a sconfiggere i gruppi di ultrà tradizionali del Varese, e a diventare i capi della curva, facendo sventolare la loro bandiera – nera a caratteri bianchi – più in alto di tutte le altre.

Tuttavia il gruppo fu al centro di controversie legali. Alcuni membri vennero arrestati per reati di droga e aggressioni a mano armata, oltre a rapine in banca e pestaggi. Sebbene uno dei capi fosse sopravvissuto a una sparatoria, altri furono meno fortunati: un certo Claudino fu pugnalato a morte fuori dal bar in cui lavorava, e Saverio – fuggito in Spagna – venne accoltellato a Torremolinos. Un membro della banda ora viveva tra Marocco e Spagna e aveva legami con la ’Ndrangheta, importando tonnellate di hashish attraverso il porto di Genova.

La banda dei Blood & Honour aveva delle affinità politiche con gli ultrà dell’Inter. L’acronimo san nel nome dell’organizzazione interista dei Boys san – uno dei primi gruppi ultrà italiani – sta per “squadre di azione nerazzurre”, un chiaro riferimento alle squadre d’azione di Mussolini. Il leader dei Boys san si faceva chiamare Il Rosso e, insieme ad altri capi ultrà, aveva pianificato l’attacco ai tifosi del Napoli nei minimi particolari. Per settimane alcuni membri dell’organizzazione si erano infiltrati negli account social dei tifosi napoletani. Delle vedette in sella ai motorini attesero il passaggio del convoglio dei napoletani che proveniva dalla tangenziale. Il resto degli ultrà interisti si trovava in un altro pub, il Baretto, per distrarre gli agenti in borghese.

Una volta scattato il segnale – «Stanno imboccando via Novara in questo momento» – un centinaio di uomini in macchina si diresse in fretta e furia a via Fratelli Zoia, una traversa di via Novara. La sua vicinanza allo stadio lo rendeva il luogo ideale in cui tendere una trappola, e i due ampi parchi bui poco distanti erano perfetti per darsi alla fuga o per nascondere le armi – roncole, mazze e spranghe – che nessuno portava con sé, e che erano state nascoste nel luogo dell’imboscata.

Gli ultrà del Napoli viaggiavano a bordo di tre pulmini da nove posti e due auto. L’attacco iniziò con il lancio di un ordigno artigianale – una bomba carta – contro la parte anteriore della prima macchina. In quel momento un centinaio di ultrà interisti si riversarono sul posto e lanciarono dei fumogeni rossi sulla strada a due corsie. Entrambi i lati della carreggiata furono illuminati da quei tubetti sibilanti. Sullo sfondo di quel bagliore, delle sagome – che brandivano spranghe, mazze e avevano il volto coperto da cappucci, sciarpe e passamontagna – si precipitarono in direzione dei veicoli.

«Forza, andiamo», urlavano in molti, con le braccia alzate al cielo. Il frastuono riecheggiava come fossero urla di guerra, un ululato di ironico disprezzo. Furono lanciate altre bombe carta. Cominciarono a suonare gli antifurti, dando ritmo all’atmosfera caotica. I cani abbaiavano.

I napoletani uscirono in massa dai loro veicoli e la battaglia ebbe inizio. Delle sagome incappucciate correvano le une verso le altre, prendendosi a calci e pugni e deridendosi. Furono lanciate delle spranghe di metallo, che sferragliarono rotolando sull’asfalto.

Era difficile vedere cosa stesse succedendo. I petardi e i fumogeni creavano una fitta coltre di fumo. Una delle vetture dei tifosi napoletani fece manovra nell’altra corsia e urtò qualcosa. Sembrava come se le ruote del pulmino passassero sopra a dei dossi spugnosi. I presenti gridavano, e battevano sui lati del veicolo con i palmi delle mani.

«È vostro, è vostro», urlavano i napoletani agli ultrà dell’Inter.

«Tregua, tregua», imploravano gli altri.

La battaglia si fermò. Smisero di picchiarsi come se non fosse stato altro che un gioco. I napoletani fecero un passo indietro e lasciarono che qualche tifoso dell’Inter recuperasse il corpo. Le gambe di Dede erano contorte in una posizione innaturale e la sua cassa toracica sembrava avere qualcosa che non andava. Tre uomini lo raccolsero da terra ma era come sollevare una scatola di cartone fradicio. Quel corpo, che avrebbe dovuto essere rigido, era invece troppo molle per poter essere trasportato come si deve.

Quando Dede morì all’ospedale San Carlo di Milano quella notte, era l’ennesimo episodio funesto della storia degli ultrà. La vicenda aveva tutto il necessario per far apparire queste figure come la quintessenza del male. Erano coinvolti neo-nazisti trafficanti di droga che avevano organizzato un’imboscata in stile militare. Gli insulti a sfondo razziale durante la partita ai danni di Kalidou Koulibaly, difensore del Napoli, non fecero altro che alimentare la convinzione che gli ultrà fossero feccia.

Ma la storia era molto più complessa di come la riportavano le prime pagine dei giornali. Quando la polizia vide i filmati della rissa, ripresa sia dai balconi dei palazzi che dalle telecamere di sicurezza, fu subito chiaro che non c’era stato quasi nessun contatto tra le due tifoserie. Si erano tenuti per lo più a distanza, insultandosi gli uni con gli altri, e lanciandosi spranghe di metallo. Considerando che c’erano almeno un centinaio di interisti armati di oggetti affilati e pesanti, usati per lo più in campo edilizio o nella silvicoltura, la lista dei feriti era eccezionalmente corta. L’incidente mortale era avvenuto per caso, e non in maniera premeditata. Molti testimoni affermarono persino che gli ultrà dell’Inter avessero applaudito i tifosi napoletani per aver ridato loro il corpo del ragazzo in fin di vita, come se l’aggressione fosse parte di un gioco di ruolo rituale che si poteva interrompere quando la vita reale, o la morte, intervenivano.

Esagerare l’aspetto violento convenne a tutti. Fu un’ottima storia per i giornalisti, e servì anche alla polizia per dimostrare che l’orda di ultrà rappresentasse una minaccia. Gli stessi ultrà cercarono di descrivere l’accaduto, con imbellettamenti e spavalderia, come un confronto epico in cui, come disse qualcuno, «ci siamo fatti valere con onore». Affermando di aver «sfregiato i volti dei nemici», cominciarono a incutere terrore. Spesso gli ultrà sono contenti quando vengono accusati di fatti che non hanno mai commesso, perché accresce la loro reputazione tra le uniche persone il cui giudizio conta davvero: quello degli altri ultrà.

Più si indaga a fondo, più è evidente che esista un complotto volto a fare disinformazione da parte di entrambi i fronti. Nulla è come sembra. La versione della storia raccontata dalla polizia è esattamente l’opposto di quanto riportato dagli ultrà e, poiché per i giornalisti è più facile e sicuro parlare con la polizia, di solito prevale la versione di quest’ultima. Gli ultrà divengono quindi i capri espiatori, che a loro volta incolpano le forze dell’ordine e i giornalisti.

Ma nonostante la loro spregiudicatezza, gli ultrà ne hanno abbastanza di essere fraintesi. A differenza di Sonny Barger, il capo degli Hells Angels che una volta disse a Hunter S. Thompson: «Nessuno ha mai scritto niente di bello su di noi, ma è pur vero che non abbiamo mai fatto niente di buono per meritarcelo», gli ultrà – pur non negando di essere violenti e casinisti – pensano di aver fatto del bene. Ma per poterlo vedere, devi essere uno di loro, vivergli fianco a fianco. «Non ci capirai mai», dicono sempre, «a meno che tu non sia uno di noi».