Roma, 1982-83

 

 

 

 

 

 

 

Le domeniche pomeriggio molti tifosi parlavano della Magica. Il termine si riferiva alla trasformazione che prendeva atto quando tutti i sostenitori si riunivano. Grazie a una misteriosa alchimia, gli ultrà che si sentivano soli o perduti trovavano loro stessi in mezzo a un gruppo allegro e scatenato. E – miracolo ancora più grande – una squadra come la Roma, che si era sempre rivelata una delusione, rispecchiava ora quell’alchimia, ed era in corsa per il titolo di campione d’Italia. Le parole magiche che resero tutto possibile erano, secondo gli ultrà, le parole dei loro cori. «Avevamo la sensazione», dice un veterano dei cucs, «che la partita non potesse iniziare senza di noi».

I romani sono sempre stati degli amanti delle canzoni da bar. Prendere quelle canzoni popolari un po’ sconce e ironiche da quel contesto creava un senso di continuità con il passato. Era il segno che anche le curve ora si rivolgevano ai romani, raccontandogli la loro storia e le loro origini. Quei cori ripercorrevano i miti di Roma: l’impero, la grandezza, gli spettacoli circensi. Il simbolo della squadra era la lupa che allatta Romolo e Remo, e la famosa leggenda – dei due fratelli di sangue reale ridotti a orfani, che vivevano in una grotta e pascolavano le pecore – aveva una potenza inaudita perché rispecchiava in pieno i sentimenti dei tifosi: possiamo fare di meglio, i nostri antenati erano grandi ed è solo questione di tempo prima di prenderci la nostra rivincita contro questa ingiustizia. Le canzoni popolari non avevano necessariamente dei toni eroici, erano piuttosto delle celebrazioni di una voluttuosa e ignava ebrietà, come in La società dei magnaccioni amata dagli ultrà romani che si sentivano membri della cosiddetta zozza società.

Le canzoni erano dei tributi alla determinazione incrollabile dei tifosi, che erano sempre al fianco della Roma: «Maciniamo chilometri, superiamo gli ostacoli…», cantavano. La Roma non aveva soltanto una tra le migliori coreografie, di un giallo e rosso fiammeggianti, ma anche una tra le migliori canzoni d’autore. «Dimmi cos’è che ci fa sentire amici anche se non ci conosciamo», sulle note dell’inno romanista di Antonello Venditti, «Dimmi cos’è che ci fa sentire uniti anche se siamo lontani… grazie Roma, che ci fai piangere e abbracciarci ancora». Se non provavi un amore viscerale per la Roma, il testo poteva avere un suono tremendamente melenso, quasi strappalacrime. Ma se eri romanista, quelle canzoni ti facevano venire la pelle d’oca e, dicevano, anche gli «occhi lucidi».

L’inizio della stagione fortunata della Roma fu dovuto, in parte, a un cambiamento delle regole che dall’inizio del campionato 1980-81 consentivano di nuovo alle squadre italiane di inserire in rosa un giocatore straniero. La Roma acquistò un centrocampista brasiliano di nome Paulo Roberto Falcão. Con i suoi capelli biondi e ricci e il suo stile elegante e composto, sembrava avere il pieno controllo del gioco sia in difesa che in attacco, segnando gol, intercettando i passaggi e salvando allo stesso tempo la palla al limite. Era capace di fare passaggi con il tacco, con la spalla o con un tocco di testa.

Aveva subito parecchie delusioni negli anni passati. La Roma arrivò seconda nel 1981 e terza nel 1982. Peggio ancora per Falcão, la nazionale brasiliana era stata sconfitta dall’Italia durante i mondiali in Spagna. Ma la stagione 1982-83 preannunciava la vittoria. “Forza Roma, forza Lupi, son finiti i tempi cupi”, diceva uno striscione. Come per la vittoria dello scudetto da parte del Torino pochi anni prima, sembrava esserci una profonda connessione tra la squadra – che includeva un giovane Carlo Ancelotti, e centravanti prolifici come Bruno Conti e Roberto Pruzzo – e i suoi ultrà. Prima dell’invenzione delle statistiche su internet, i giocatori erano soliti chiamare il tifoso italo-americano Antonio Bongi, archivista fanatico, e chiedergli di raccontargli un’altra volta i loro gol. Franco Tancredi, il portiere, amava sentire gli inni della Roma perché gli infondevano coraggio quando si trovava tra i pali. I giocatori abbracciavano gli ultrà, e lo fecero anche quel glorioso 1 maggio del 1983. Con la vittoria del campionato ormai in pugno, Falcão segno un gol su punizione contro l’Avellino e istintivamente corse verso Geppo e Er Mortadella che si trovavano alle spalle della porta e li abbracciò. (Quel giorno Er Mortadella avrebbe dovuto prestare servizio militare ed era fuggito dalla caserma; quando fu visto in televisione, venne punito per essersi assentato senza permesso). Il giorno della vittoria dello scudetto, l’ultima giornata di campionato contro il Torino, lo striscione dei cucs venne finalmente riammesso allo stadio.