Catania, 1996
Michele Spampinato era magro e teso come una corda di violino. Aveva i gomiti appuntiti e i piedi veloci, eppure il suo viso era tondo: con grandi orecchie, un naso largo e un sorriso sfuggente.
Era cresciuto nel quartiere catanese di San Cristoforo. Era un quartiere vicino al centro eppure completamente diverso: al posto dei ruderi romani e della sfarzosa architettura barocca dell’epoca di Vincenzo Bellini, c’erano vicoli stretti, balconi pericolanti e baracche di lamiera. Cavi e tubature erano distesi alla rinfusa fra un isolato e l’altro e l’aria era pervasa dall’odore di pesce, di frutta e di tabacco. Eppure, nonostante tutto, era un luogo semplice e ricercato. “La moda alle puttane”, diceva un graffito sul muro, “lo stile agli ultrà”.
La tifoseria madre di Catania era chiamata Falange d’Assalto Rossoazzurra ed era stata fondata nel 1979 da un fascista di bassa statura di nome Ciccio, che tutti chiamavano Ciccio Fascista o Ciccio Falange. La sede dell’associazione si trovava a un passo da Castello Ursino e aveva come porta un ponte levatoio dipinto di rossoazzurro. Ciccio Fascista adorava il fatto che gli spalti del Catania fossero sempre stati orientati verso l’estrema destra. La società calcistica di Catania si chiamava originariamente Associazione Fascista Calcio Catania.
Spampinato, però, stava iniziando a staccarsi da quel gruppo storico. Voleva fare le cose in maniera diversa. Aveva radunato un gruppetto di persone dai bassifondi, che lo seguiva perché era una persona decisa e gli faceva amare il posto in cui vivevano. «Come si fa a non amare una città», diceva parlando a raffica come suo solito, «che ti permette di sciare su un vulcano, e dove da un lato c’è una eruzione e dall’altro il mare?». Era sempre circondato dai ragazzini di altri quartieri malfamati.
Spampinato non era ossessionato dal nome del suo nuovo gruppo, e questo rifiuto ad aggrapparsi a un nome specifico era dovuto in parte al tentativo di evitare una “mafizzazione” della curva.
Qui c’è una grande ferita», dice, «che sarebbe poi la Mafia. Non serve a niente fare finta che non esista. È radicata nei quartieri e ogni quartiere è la rappresentazione della famiglia che lo controlla. Voi ci siete cresciuti. Vivete il vostro quartiere come fosse un gruppo, con il nome che porta, e ogni quartiere ha il suo nome, ed è questa la mentalità che portate sulle gradinate.
Spampinato voleva evitare etichette che dividessero i fedeli rossoazzurri. Pensava che concentrandosi soltanto sulla purezza della causa del Catania non ci sarebbero state divisioni. «Dagli anni Novanta», ricorda, «abbiamo provato a disfarci degli striscioni». Sembrava quasi che quest’uomo teso, all’epoca poco più che ventenne, fosse un puritano, che distruggeva le immagini e le icone che impedivano l’accesso al vero oggetto d’adorazione.
Presto lui e i suoi uomini smisero di incontrarsi a Castel Ursino e si trasferirono a piazza Dante, all’aria aperta, sotto la grossa quercia a ridosso delle mura del monastero. Per pochi spicci, potevi prendere una bottiglia di birra, e se non avevi soldi, farla segnare, o qualcun altro l’avrebbe pagata al posto tuo. Spampinato organizzava quegli incontri settimanali. Aveva un’energia nervosa che rimetteva in riga le persone. Mentre parlava non stava mai fermo, fissava le truppe con sdegno, oppure si metteva a discutere con qualcuno. Sembrava mettere il broncio, e rimaneva in silenzio con aria pensierosa poi, tutto d’un tratto, diceva a qualcuno dei presenti di fare silenzio, e gli spiegava perché. E se il tipo non la smetteva di interromperlo, Spampinato lo portava fuori dal cerchio e gli insegnava come ci si comportava. Era l’unico momento in cui potevi togliergli gli occhi di dosso.
Una volta che Spampinato stabiliva la linea, la discussione era chiusa. Prendeva le decisioni in un istante, abbandonando una causa e abbracciandone un’altra. (Il gruppo alla fine venne chiamato I Decisi). Le sue parole erano legge. E quando diceva: «Questo è un ordine», rimanevano tutti in silenzio.
Spampinato era cresciuto con il mito di una squadra punita e osteggiata dalle autorità sportive del continente. C’erano stati anche momenti di gloria, però, come quella volta che inaspettatamente il Catania batté l’Inter per 2 a 0 nel 1961, impedendo alla squadra milanese di vincere lo scudetto. Il cronista commentò urlando quel «Clamoroso al Cibali», che ancora oggi si usa tutte le volte che c’è da commentare un evento sconvolgente.
All’epoca il custode dello stadio era un uomo burbero chiamato Angelo Grasso. Faceva quel lavoro da trent’anni, e ogni anno gli insulti che doveva tollerare diventavano sempre più pesanti. La gente gli rompeva le finestre e gli pisciava sul tetto di casa dalle gradinate. Nel 1983 perse la testa, caricò il fucile e iniziò a sparare all’impazzata contro la Curva Sud, ferendo trentadue tifosi e uccidendone uno.
I catanesi si erano sempre sentiti svantaggiati. Credevano che la loro città dovesse essere il capoluogo della Sicilia (come lo era al tempo degli Aragonesi). Ma avevano sempre avuto sfortuna. Catania era stata distrutta nove volte – sia dai terremoti che dalle eruzioni del possente Etna, il cui picco innevato è visibile da ogni angolo della città. Dopo ognuno di questi disastri i catanesi ricostruivano la loro città, provando a ricostruirla nello stesso posto, con le stesse piazze. Nel fortino alla fine della collina lontano dalla piazza principale è raffigurata una fenice con la scritta “Melior de cinere surgo” (dalle ceneri rinasco migliore).
Forse è per questo motivo che il tifo a Catania è ossessivo. È un modo di identificarsi con questa bella città ferita. I tifosi più anziani raccontano che il club venne cofondato da un barone, Gaetano Ventimiglia, che in seguito collaborò con Alfred Hitchcock… o che, come il grande Torino degli anni Quaranta, anche il Catania aveva ingaggiato un allenatore ungherese, Géza Kertész. Morì durante la seconda guerra mondiale e viene ricordato tutt’oggi come “lo Schindler di Catania”, per aver tentato di salvare diverse famiglie di ebrei. È un tifo che scivola sempre nella superstizione: allo stadio è stato fatto un buco nel plexiglass del tunnel dei giocatori affinché i tifosi possano tirare del sale addosso ai calciatori mentre fanno il loro ingresso in campo, in segno di buon auspicio.
Spampinato si infuriava quando vedeva i suoi concittadini tifare altre squadre. C’era solo un modo di porre rimedio a questa situazione. «È un tipo di repressione», afferma senza perdere un colpo, «un’imposizione che aiuta la gente a non dimenticare mai che qui non si tifa Milan o Juventus. Qui c’è solo il Catania. Lo si fa con i numeri, radunando le persone, dicendo “qui non si fa festa [per lo scudetto del Milan o della Juve] perché altrimenti la festa te la facciamo noi”». «Quelli che non sono con noi», piaceva dire a Spampinato, «diventano automaticamente nostri nemici». Se volevi diventare il personaggio più importante sugli spalti – quello che dirige i cori dal centro – dovevi combattere anche contro gli altri gruppi locali. E in un certo senso dovevi anche dimostrare di essere più ultrà degli altri: più duro, più estremo, più radicale. Spampinato amava l’adrenalina dei combattimenti corpo a corpo e l’effetto che avevano su chi perdeva la lotta: «Pretendevamo rispetto, e se non ci veniva riconosciuto, ce lo prendevamo».
Questo attaccamento alla maglia fece sì che gli ultrà catanesi furono tra i primi a rifiutarsi di dedicare dei cori ai singoli giocatori. Dopo la “Sentenza Bosman” del 1995 ai calciatori venne permesso di lasciare le squadre a fine contratto, e questo li portò a diventare più itineranti o, a detta dei tifosi, più sleali di prima. Spampinato decise che nessuno di loro andasse elogiato né applaudito. «Il comportamento sportivo non abita dalle nostre parti», dice. «Una volta qui Zola ha segnato e hanno battuto tutti le mani. Ci siamo alzati in massa e stavamo quasi per buttarli giù dalle gradinate».
Spampinato era sempre proccupato che qualcuno lo tradisse. Diceva di amare la sua città nello stesso modo in cui la amava il giornalista antimafia Giuseppe Fava: «…come una puttana che usa tutto il suo fascino per farti perdere la ragione, ma che allo stesso tempo ti ha tradito migliaia di volte». Essere un ultrà non aveva nulla a che fare con lo sport. «Non mi piace nemmeno granché, il calcio», mi confidò una volta. «Se mi chiedi qualcosa sulla Serie A, non so risponderti. In cima alla classifica ci sarà la Juventus, perché c’è sempre la Juventus, ma io mi limito solo alla serie dove gioca il Catania». La squadra per lui era una rappresentazione di ciò che amava davvero: quella città dove, diceva: «Sei sempre in contatto con la gente. In ogni casa sei a casa tua».
Era preoccupato che i giocatori forestieri finissero per tradire la città. L’onore più grande, per chi era sugli spalti, fu quando, a Messina, il Catania aveva la stessa divisa bianca della squadra di casa, e i giocatori dovettero prendere in prestito le maglie rossoazzurre dai tifosi. «I giocatori», scrisse Spampinato nella sua ammirevole autobiografia Quando saremo tutti nella nord, devono «essere consapevoli del nostro fiato sul collo […] Devono memorizzare le nostre facce e sapere che ci si troveranno davanti tutte le volte che non si sono impegnati abbastanza».
Talvolta i bersagli delle loro provocazioni erano inquietantemente precisi. Venne innalzato uno striscione che affermava che un particolare consigliere comunale veniva “tenuto d’occhio”. Ma spesso i loro striscioni sapevano essere anche sorprendentemente eruditi, come il lungo avvertimento in latino che riportava le parole di Federico ii: “Noli offendere patriam Agathae quia ultrix iniuriarum est” (“Non offendere il paese di Agata, poiché è vendicatrice di ogni ingiustizia”).
Nonostante l’attaccamento alla sacra maglia, i membri del gruppo di Spampinato erano casual. Non indossavano le maglie dei giocatori, ma andavano allo stadio con gli abiti di tutti i giorni. Molti gruppi ultrà – dalla metà degli anni Novanta in poi – si vestivano in questo modo per mimetizzarsi in mezzo alla folla dello stadio, da una parte perché andava di moda e dall’altra per una decisione strategica: vestirsi in borghese rendeva più difficile essere identificati dalla polizia e dagli ultrà rivali.
Il gruppo di Spampinato a poco a poco si costruì la reputazione di uno dei più duri d’Italia. In primo luogo perché per assistere alle partite che si svolgevano fuori dalla Sicilia, i catanesi dovevano prendere il traghetto a Messina e quello spazio ristretto diventava sempre il teatro di qualche rissa. In mezzo ai pullman e alle macchine in fila nell’affollata area di imbarco, i catanesi sapevano sempre con esattezza quali squadre ci sarebbero state e dove erano dirette. Non gradivano gli incontri casuali. Quando il Catania giocava in trasferta, I Decisi arrivavano sempre allo stadio con cinque o sei ore di anticipo, e aspettavano che arrivassero i rivali. «Era spavalderia pura», ricorda Ciccio, «arrivare in una città che non è tua e dire: “Siamo qui, vi abbiamo portato Catania a casa vostra”», enfatizza le sue parole battendo due dita sul sottobicchiere, «“e ce ne andiamo in giro, e se ci vuoi affrontare, sai dove trovarci…”».
Avevano delle vedette nelle stazioni e negli aeroporti, pronte ad avvisare Spampinato dell’arrivo dei rivali. Stampavano biglietti falsi per far entrare la loro gente a vedere la partita, costringendo la polizia a farli sedere nei settori riservati alla tifoseria avversaria, che poi avrebbero attaccato. Indossavano dei passamontagna. «Eravamo diventati un esercito senza volto», ricorda Spampinato. In una partita contro il Messina il lancio di sassi, bombe carta e razzi fu così incessante che un tifoso del Messina, Antonino Currò, rimase ucciso.
Un’estate Spampinato e i suoi attaccarono gli ultrà della Juventus che, in attesa dell’inizio di un’amichevole pre-campionato, stavano mangiando e bevendo sotto la gradinata del Catania. Spampinato spaccò una bottiglia di birra in testa a uno dei tifosi e il resto del gruppo si diresse duramente all’attacco, appropriandosi dello striscione dei Fighters. Secondo la tradizione ultrà, il gruppo a cui viene sottratto lo striscione deve sciogliersi, ma quello che successe in seguito – stando a Spampinato – fu che i Fighters pagarono ventimila euro a un mafioso locale per rientrarne in possesso. Spampinato lo restituì durante un incontro tesissimo, ma non prima che i suoi ragazzi lo avessero strappato e ricoperto di feci.
I Decisi non erano l’unico gruppo attivo in quegli anni a Catania, che aveva i Sostenitori, l’anr (Associazione Non Riconosciuta), gli Irriducibili, la Falange, gli Ultras Ghetto, Gioventù, gli Indians, i Drunks, il Club Angelo Massimino, i Pazzi, la Zafferana Rossoazzurra, e via dicendo. Ma Spampinato era a capo di tutti e guidava la carica. Le sue truppe erano riunite sotto uno striscione che diceva: “A sostegno di una fede”, e quando veniva presa una decisione dal consiglio direttivo dei Decisi, quella era la linea da seguire. Eppure, allo stesso tempo, c’era tanta di quell’energia e spontaneità che risultava quasi impossibile impartire ordini a quella marmaglia. «Il gruppo non esiste più», scrisse Spampinato riferendosi a quegli anni. «La folla comanda, ed è la folla che comanda se stessa».