28 ottobre 1979: Roma-Lazio
Come spesso succedeva in curva, nessuno conosceva il suo vero nome. Lo chiamavano semplicemente lo Zigano, per via del suo modo di vestire da straccione. Aveva diciotto anni e andava a vedere la Roma allo Stadio Olimpico da quando ne aveva otto.
Proveniva da una di quelle povere famiglie romane che si arrangiava come poteva. Suo padre era un saldatore disoccupato che occasionalmente vendeva frutta a piazza Vittorio Emanuele, dove risiedeva. Zigano aveva lasciato la scuola e dava una mano in famiglia lavorando saltuariamente come cameriere, come meccanico e, a volte, compiendo rapine.
La Roma era l’unica cosa che dava significato alla sua vita. «In cosa e in chi dovrebbe credere un diciottenne?», domandò una volta. «Quali prospettive offrono gli adulti alle nuove generazioni? Il mio ideale è la Roma».
Uno dei suoi più cari amici della curva giallorossa era Geppo, il poeta dai capelli lunghi che scriveva le canzoni per la Curva Sud. Qualche mese prima, nel marzo del 1978, i due ragazzi avevano fatto irruzione negli uffici del «Messaggero», infuriati per una descrizione che il quotidiano dette degli ultrà. Arrivati alla sede del giornale, Geppo e Zigano spiegarono cosa significava davvero essere degli ultrà: «Noi siamo i veri tifosi… diamo botte e ne riceviamo». I ragazzi raccontarono della crescente spirale d’odio tra romanisti e laziali, come l’episodio avvenuto durante un derby, durante il quale i biancoazzuri avevano esposto uno striscione in cui c’era scritto che gli ultrà della Roma avrebbero fatto “la stessa fine di Taccola” (giocatore morto all’età di venticinque anni). I romanisti a loro volta replicarono con “Dieci, cento, mille Re Cecconi”, e schernirono la scomparsa del calciatore con un altro striscione: “Tabocchini [il gioielliere che aveva sparato per sbaglio a Re Cecconi] ci ha insegnato: uccidere un laziale non è un reato”. L’Olimpico fu il primo stadio ad avere un tunnel per proteggere i giocatori durante il loro ingresso in campo e, nell’ottobre del 1977, furono introdotte persino delle telecamere a circuito chiuso.
Data la situazione, l’atmosfera che si respirava al derby Roma-Lazio nell’ottobre 1979 era molto tesa. Le mura della capitale erano imbrattate di scritte inneggianti alla morte degli avversari laziali. «Non era semplice retorica», insiste un ultrà attempato. «Desideravamo veramente leggere sui giornali che i nostri nemici venissero accoltellati o uccisi a colpi di arma da fuoco».
Il giorno prima della partita, Zigano aveva comprato tre razzi nautici ad alta potenza in un negozio di piazza Emporio. Costavano quindicimila lire l’uno. Lui, Geppo e gli altri compagni li avevano portati di nascosto all’Olimpico, insieme a un tubo di alluminio che serviva per lanciare il razzo, nascosto dentro a uno striscione arrotolato. La tensione crebbe quando i laziali si resero conto che i romanisti erano riusciti in qualche modo a scassinare il loro deposito all’interno dello stadio, portando via tutti i fumogeni. I romanisti, a loro volta, si infuriarono quando i laziali rivolsero un insulto al capitano della Roma, che si stava riprendendo a fatica da un infortunio: “Rocca bavoso, i morti non resuscitano”. Un altro striscione diceva: “Olocausto giallorosso”.
All’una e mezza, Zigano caricò uno dei razzi nautici nel tubo e lo fece partire. L’ordigno volò sopra la Curva Nord, dove erano riuniti tutti i laziali, e finì fuori dallo stadio. Tutti applaudirono ed esultarono. Era uno dei razzi più spettacolari che avessero mai visto. Zigano allora ne caricò un altro, e questa volta attraversò l’intero campo da gioco, cadendo direttamente in Curva Nord.
Vincenzo Paparelli, un meccanico di trentatré anni, non doveva nemmeno essere lì. Suo fratello gli aveva dato il suo abbonamento stagionale, affinché potesse assistere al grande incontro. Vincenzo era seduto sulle gradinate, mangiando semi di girasole con sua moglie Vanda e i suoi due figli piccoli. All’improvviso la donna sentì un botto.
«L’hai sentito?», chiese Vanda, girandosi verso suo marito. Il fumogeno usciva dall’occhio sinistro di Vincenzo, che collassò a poca distanza da lei. D’istinto Vanda cercò di tirare fuori il razzo, ma si ustionò la mano. Lui cadde scivolando al suolo. Tutti intorno si alzarono, chiamando a voce alta il personale medico d’emergenza, ma per Paparelli non c’era più niente da fare. In Curva Sud, i romanisti non sapevano neanche cos’era successo. Videro solo un po’di movimento sugli spalti opposti ma nient’altro. Incoraggiato dagli altri, che stavano cantando “morirete tutti”, Zigano sparò un altro razzo ma questa volta la traiettoria fu deviata e finì sulla pista di atletica vuota vicino al campo.
I tifosi della Lazio – alcuni indossavano degli zuccotti bianchi e azzurri fatti a mano – tolsero gli striscioni. Molti di loro uscirono dallo stadio per affrontare i tifosi della Roma dall’altro lato. Qualcuno urlò a Pino Wilson, il capitano anglo-italiano della Lazio, che la partita doveva essere interrotta (ma invece si continuò a giocare). Fu allora che i romanisti si accorsero che era successo qualcosa. Zigano udì il grido «assassini!» dai tifosi della Lazio che erano rimasti sulle gradinate, e fuggì di corsa dallo stadio nella speranza di non essere riconosciuto.
Si dette alla fuga per quindici mesi, spostandosi tra Bergamo, Milano, Brescia e Pescara fino ad arrivare in Svizzera. Ogni tanto si muoveva in treno ma di solito faceva l’autostop, e trovava lavori occasionali dove poteva. Zigano aveva letteralmente giocato con il fuoco senza rendersi conto delle conseguenze. Durante il suo periodo di latitanza chiamò il fratello di Paparelli per esprimere l’orrore che provava per quello che era successo, dicendogli che si sarebbe consegnato alla giustizia. In Svizzera rilasciò perfino delle interviste a due giornalisti: «Mi sono rovinato la vita per quella robaccia […] quel disgraziato è morto ma sono disgraziato anch’io a vivere con questo peso sulla coscienza». Il 25 gennaio 1981 mantenne la sua promessa. Fu processato, giudicato colpevole di omicidio colposo e condannato a sette anni e otto mesi.
Numerose furono le conseguenze dopo quel terribile omicidio. In seguito a una lunga discussione, gli Eagles della Lazio decisero che era arrivato il momento di trasferirsi in modo permanente in Curva Nord (fino a quel momento occupavano la Curva Nord solo in occasione del derby con la Roma). Per loro era ormai divenuto un luogo sacro, e vi si riunirono per la partita del 9 dicembre 1979 tra Lazio e Udinese. I laziali cominciarono a intonare un coro, sulle note della Fanfara dei bersaglieri, il cui testo esprimeva il desiderio di vendetta per la morte di Vincenzo Paparelli.
Quella partita segnò l’inizio dell’era oscura del mondo ultrà. «Prima di quel giorno», ricorda Grinta nella sua autobiografia, «era un gioco, una moda, un fenomeno giovanile, ora invece per me, come per i miei tanti amici, non era più un gioco bensì una guerra quotidiana […] tutti avevano dentro il mio stesso odio».
Per anni nella capitale si continuò a scrivere sui muri la famosa quanto crudele frase: “Dieci, cento, mille Paparelli” o “razzi in faccia”, una chiara provocazione diretta ai laziali che invocava il tragico episodio. Negli anni Novanta Gabriele, figlio di Vincenzo Paparelli, teneva sempre un pennello e della vernice nel portabagagli della macchina per coprire le scritte ingiuriose e per evitare che sua madre le vedesse.
Nel frattempo ai tifosi della Roma fu vietato l’uso dello striscione dei cucs perché conteneva la parola “commando”. Vennero proibiti anche i timpani e qualsiasi altro genere di attrezzatura di tipo militare. Nonostante questo divieto, nacque uno dei cori più evocativi del movimento ultrà, intonato in quasi tutte le curve nelle sue versioni più disparate. È lo stesso adattamento di Red River Valley che cantano gli ultrà del Cosenza. Con le sue terzine orecchiabili e quel senso malinconico di speranza che un giorno la bandiera sventolerà di nuovo e i tamburi risuoneranno, sembra un inno pieno di entusiasmo di un revivalista in attesa del ritorno del Signore e della terra promessa. Il ritmo cambia e le strofe si ripetono ancora e ancora, rallentando all’improvviso così da poterti godere ogni battito e restare ipnotizzato in una sorta di sogno a occhi aperti in piena beatitudine: «Quando al ciel si alzeran le bandiere, e i tamburi a suonar torneran, un sol grido allor si alzerà, Roma vinci ancor per gli ultrà».
In questo coro non è tanto rilevante la declamazione appassionata da parte dei tifosi, quanto la frequenza con cui la parola “ultrà” si insinua nel testo. L’ammirazione dei tifosi nei confronti di questo o quell’altro giocatore era ormai superata – anche prima della fine del movimento ultrà delle origini – ed era chiaro che i cori non fossero indirizzati più soltanto alla squadra, ma anche a se stessi. Se prima quella divinità laica era rappresentata unicamente dalla maglia, in quel momento fu il gruppo stesso a diventare l’oggetto di venerazione (chiamasi demoteismo). Come nella maggior parte dei movimenti settari in cui la congregazione sostituisce la figura divina con qualcosa di più famigliare – loro stessi e il loro leader – così alcuni ultrà cominciarono a insistere che adesso era il loro gruppo, e non la squadra, l’entità che non poteva essere insultata, presa in giro o toccata.