Stura di Demonte, 7 luglio 2016

 

 

 

 

 

 

 

Ciccio Bucci accostò la Jeep Renegade sulla corsia d’emergenza del viadotto. La strada a due corsie in quel punto si trovava a quarantacinque metri sopra la golena del fiume Stura di Demonte. Era conosciuto come il “viadotto dei suicidi”. Fu qui che Edoardo, l’unico figlio di Gianni Agnelli (l’ormai defunto proprietario della Fiat e della Juventus), si tolse la vita nel 2000.

Bucci aveva sempre avuto un’ossessione per la Juventus. Nato nel 1976, maggiore di tre fratelli maschi, era cresciuto a San Severo, un’antica città mercantile in Puglia. Aveva trascorso la sua infanzia guardando i grandi della Juventus – Michel Platini, Roberto Baggio, Fabrizio Ravanelli e Gianluca Vialli – ed era rimasto ipnotizzato dai colori a strisce bianche e nere della squadra. Gli davano l’impressione di essere i simboli dell’efficienza e della determinazione tipica del Nord, di un mondo in cui esisteva più di una sfumatura di grigio. Bucci era diventato un tifoso ossessivo.

Si tolse gli occhiali da sole, il suo marchio di fabbrica, e si sfregò il viso. Sotto quei capelli neri ingellati, aveva un brutto livido sull’occhio destro e un taglio sulla fronte. Gli faceva ancora male la gola e la massaggiava con le dita per verificare il dolore. Si sforzò di ricordare com’era arrivato fino a lì, così lontano da casa e così vicino alla fine. La vita non era stata più la stessa dalla morte di sua madre. La donna aveva sempre creduto in lui, e adesso che se n’era andata, aveva perso la fiducia in se stesso.

Diede un’occhiata allo sfarzo della Jeep. Era lo sponsor ufficiale della Juventus e Ciccio lavorava per il club che amava. Continuava a dire agli amici che per la prima volta in vita sua era diventato un membro “ufficiale”. La società gli aveva dato questa macchina imponente come bonus per il suo lavoro di slo, o “supporter liaison officer” – addetto alle relazioni con i tifosi – benché ufficialmente fosse impiegato presso una compagnia di sicurezza chiamata Telecontrol. Era un intermediario, incaricato di appianare le tensioni tra la società calcistica e gli ultrà intransigenti. Ecco perché il suo lavoro si era trasformato in un incubo: non c’era modo di vincere. Riceveva costantemente minacce e, la notte prima, venne persino picchiato.

Bucci uscì dalla macchina e si godé per un attimo la vista. Sullo sfondo riusciva a scorgere in lontananza la prima delle massicce montagne alpine. In primo piano c’erano gli edifici rettangolari dei capannoni industriali e i campi di mais. Da qualche parte c’era Beinette, il paesino in cui una volta viveva con Gabriella, la sua ex, e loro figlio Fabio. Era tornato lì per annaffiare le piante mentre lei era in vacanza.

Fabio era l’unica cosa che amava più della Juventus. Quel pensiero lo fece scoppiare in lacrime. Bucci sentiva di doverlo fare per mettere in salvo Fabio, per tenere quei teppisti alla larga dalla sua famiglia. Non c’era nient’altro che potesse fare in quel momento. Era tutto logico e inevitabile. Mentre scavalcava il guardrail di metallo sentì un paio di operai urlargli qualcosa. Rimase in piedi dal lato opposto.Sul bordo c’era spazio solo per i talloni e doveva tenere le ginocchia piegate contro la ringhiera sporgente. Guardò in cielo, e poi giù verso l’asfalto e la boscaglia che si estendeva sotto di lui. Chiuse gli occhi pensando a sua madre e a Fabio, e si gettò.