Carpi-Cosenza, oggi

 

 

 

 

 

 

 

Dovremmo partire a mezzanotte, quindi un paio d’ore prima alla Casa Degli Ultrà inizia ad arrivare gente. Stasera c’è qualche ragazza nuova, una di loro sta vincendo al tavolo da biliardo mentre gli uomini prestano più attenzione alle sue forme che al panno blu. Continua a cambiare le regole del gioco, ma a nessuno sembra importare fintanto che sta lì.

Tiriamo fuori il megafono e cominciamo a scaldarci la voce. Suriciu beve rum così in fretta che si è già scolato mezza bottiglia. Sta in piedi e canta, sbattendo a terra una sedia per scandire il ritmo: «Che bello è quando esco di casa…».

Come al solito, ci sono tante persone tranquille e sobrie in disparte, che sorridono alla scena. I diffidati fanno un salto per augurare a tutti buona fortuna per il lungo viaggio verso nord. All’improvviso inizia una discussione bonaria per i soldi, perché ci rendiamo conto di non averne nemmeno la metà di quelli che servono per arrivare in Emilia e per tornare indietro. Il programma è di viaggiare di notte, tagliando per la costa orientale passando per la Basilicata e magari fare colazione ad Ancona, e poi proseguire verso nord, verso Bologna e oltre.

«Dobbiamo arrivare allo stadio alle dieci», dice Mezzochilo.

Un paio di persone gli danno qualche scappellotto sul collo, ridendo. «Se guida Rosario non arriviamo fino all’intervallo».

Si litiga per il pullman su cui salire, e c’è chi fa di tutto per capitare con la giocatrice di biliardo. Queste liti si aggiungono a quelle sui soldi e alla fine c’è una confusione totale. U Lisciu darà un passaggio a MonSicca sulla sua bmw e tenta di moderare la discussione.

Partiamo a mezzanotte e mezza ma non riusciamo a trovare U Rimastu. Non risponde al telefono, quindi saliamo in macchina e facciamo un giro in città per cercarlo. A ogni isolato, Rosario vede un amico e urla dal finestrino: «Dov’è U Rimastu?».

Parcheggiamo e aspettiamo. Passa un’ora. Poi ci spostiamo di nuovo e andiamo ad aspettare da un’altra parte. Alla fine, si fa vedere. Rosario gli strilla ma U Rimastu mormora qualcosa a bassa voce e ci mettiamo alla ricerca di U Mundatu. Riusciamo a imboccare l’autostrada alle due passate.

Rosario guida veloce ma non indossa la cintura, e così per le dodici ore successive il bip del segnale acustico risuona nell’abitacolo. È lui a scegliere la musica, e la sola stazione radio che riesce a intercettare tra i monti manda in onda un meraviglioso pop dozzinale inframezzato dalle telefonate di nottambuli solitari che provano a chiacchierare in diretta con altri nottambuli solitari come loro. Le gallerie sono abbastanza lunghe da conciliare il sonno quando la radio perde il segnale, ma non appena usciamo dal tunnel quella musica sdolcinata torna a conficcartisi nel cervello. Rosario ha una guida scattosa, veniamo fatti volare per tutto l’autobus come cartine Rizla lanciate al vento e non ci vuole molto perché tutti rinuncino all’idea di prendere sonno. Susi Sete fa girare quel che resta della seconda bottiglia di rum. U Rimastu trita le cime d’erba con un grinder dai denti a punta e fuma una canna dopo l’altra.

È già mattina inoltrata quando arriviamo ad Ancona, quella piega di mare a metà del litorale Adriatico (ankón è la parola greca per gomito). Nessuno ha chiuso occhio, ma la stanchezza ha un effetto stranamente inebriante. La maggior parte di noi ha trascorso il viaggio verso nord a bere, quindi è difficile capire la differenza tra chi è ubriaco e chi è semplicemente stanco, ma anche chi è rimasto lucido sembra avere gli occhi rossi ed essere su di giri, pronto a divertirsi appena si scende dal pulmino.

La donna nel bar sembra nervosa quando vede entrare nel locale trenta calabresi. Ma nel giro di cinque minuti ci vende tutti i cornetti che le sono rimasti e, alla vista dei soldi, si rilassa. Ci stravacchiamo sulle sedie, chiedendoci se il famoso monumento ai caduti della città – una scalinata sormontata da un colonnato circolare – non dovrebbe essere abbattuto da un bulldozer, dato che risale al ventennio fascista.

Una volta ricaricate le batterie iniziamo a scaldare le voci. In un paio d’ore arriviamo a Carpi. Dovrebbe essere una delle più graziose cittadine italiane ma si vede soltanto la polizia, che è lì ad attenderci ai caselli dell’autostrada e ci ferma subito, insistendo per farci attendere l’arrivo degli altri pulmini. «Siamo solo noi», dice Rosario, facendo il finto tonto. La polizia non si muove, consapevole che ce sono altri in arrivo. «Vogliamo andare a vedere la partita», si lamenta la truppa. È quasi ora del calcio d’inizio. La polizia resta immobile e ci ignora. Rimaniamo là per altri venti minuti. Abbiamo viaggiato tutta la notte e ci stiamo perdendo gran parte del primo tempo.

Quando arriva il resto del convoglio la polizia ci dà il via libera, scortandoci a sirene spiegate allo stadio. I tifosi seduti dal lato del finestrino si sporgono, guardando con malizia le signore eleganti in strada avvolte nelle loro pellicce. Mentre cantiamo tutti tengono il ritmo, sbattendo tra loro le bottiglie vuote così forte che il fondo di una si rompe facendo cadere frammenti di vetro in strada.

È solo quando finalmente riusciamo ad arrivare allo stadio – siamo su una striscia sottile di cemento al di sopra di quella che ha l’aspetto della rampa di un velodromo – che capiamo quanti cosentini ci sono. Tanti tra quelli che vivono al Nord sono accorsi per l’occasione. Ci sono teppistelli, ragazzini, famiglie e amici. Anche Donata Bergamini, la sorella del centrocampista ucciso negli anni Ottanta, è qui e i tifosi la abbracciano. Ci siamo ritrovati lontano da casa, e sembra quasi un atto di ribellione. Siamo i tifosi in trasferta, gli sfavoriti, i terroni bistrattati – ed eccoci qui, a cantare a squarciagola e a innalzare bandiere rossoblù in terra straniera. Sembra quasi una conquista – modesta, limitata – ma è comunque un’intrusione audace.

La partita finisce 1 a 1. Il Cosenza pareggia a pochi minuti dalla fine, quindi a noi sembra quasi una vittoria. Camminiamo nel parcheggio senza smettere di cantare. Mentre superiamo la stazione dei treni vediamo i cosentini che cantano ai binari, gli altri passeggeri gli sorridono quando la polizia accorre per far cessare il baccano.

È un’esperienza vertiginosa e sfiancante. È euforico trovarcisi in mezzo ma poi subentrano la stanchezza e il mal di testa. È una retorica incentrata sulla provocazione, eppure sembra che non ci sia niente di ribelle in tutto questo. E forse non siamo altro che uccelli in gabbia.

 

Ciccio Bucci era cresciuto a San Severo, in Puglia, in una famiglia modesta. Suo padre faceva il bidello e sua madre la casalinga. Aveva due fratelli, e in casa c’era sempre chiasso. Bucci era sempre alla ricerca di un modo per farsi strada e i suoi genitori tolleravano i suoi modi maliziosi. Sapevano che il figlio era un po’ una canaglia, ma era anche sempre allegro e divertente. E non era un cattivo ragazzo. Faceva parte dei boy scout e frequentava un istituto tecnico in cui studiava ragioneria.

I suoi amici dicevano che era un trascinatore, una persona in grado di ispirare gli altri e istigarli, uno che aveva sempre un piano. Alto, magro e vestito bene anche se con abiti a buon mercato, Bucci cercava di essere amico di tutti. Venne eletto rappresentante d’istituto ma frequentava anche i professori, scommettendo con loro al bar sui risultati delle partite. Era persuasivo e popolare, anche se non riuscivi mai a capire con certezza quale altro piano stesse architettando. L’unica cosa certa era che ogni volta che la Juventus giocava qualche partita al Sud, Bucci trovava il modo di procurarsi un biglietto per andarla a vedere. A volte la seguiva anche al Nord, andando a Torino in compagnia di uno dei suoi fratelli.

E ogni volta che si trovava sugli spalti faceva nuove amicizie. Aveva quel particolare talento, tipico dei commercianti, con cui riusciva a far pensare ai suoi interlocutori che si stesse comportando in maniera generosa nei loro confronti. E ben presto le persone che aveva incontrato allo stadio cominciarono a ricambiare la sua generosità, offrendogli un posto dove trascorrere la notte a Torino o un passaggio allo stadio la domenica seguente.

E dopo qualche anno di viaggi a Torino per andare a vedere le partite, Bucci decise di trasferirsi definitivamente in città. Ma il primo inverno che vi trascorse fu duro. Essendo cresciuto fra i vicoli ripidi e acciottolati del Sud, trovava noiosi i viali piatti e perpendicolari di Torino. I piemontesi sembravano freddi e poco espansivi nei suoi confronti. Non avevano il buon umore rilassato dei suoi vecchi amici di San Severo. Gli sembrava che lo guardassero dall’alto in basso, non solo perché veniva dal Sud, ma perché era diventato un traffichino.

Visto che non era riuscito a trovare lavoro come ragioniere aveva usato la sua energia e immaginazione per sbarcare il lunario. Allestiva banchi del mercato, si piazzava sul retro di un camioncino con un microfono a decantare le virtù di un qualche utensile da cucina di plastica o di qualche rivoluzionario panno per le pulizie. Presto entrò nel settore della merce contraffatta, vendendo maglie e sciarpe della Juventus che acquistava per pochi soldi fuori città. Divenne un altro personaggio della strada e degli spalti, cercava solo di tirare avanti.

Procacciarsi biglietti e rivenderli agli amici giù al Sud, e agli amici degli amici, era una piccola fonte di guadagno. Divenne l’intermediario dei ragazzi di San Severo che volevano assistere a una partita allo Stadio Delle Alpi. Si improvvisava anche agente di viaggio: organizzava pullman, treni e soggiorni in hotel economici. La sua reputazione crebbe. Se volevi un biglietto, tutti sapevano che Bucci era l’uomo che faceva al caso tuo. Si faceva tanti amici non perché fosse un bagarino senza scrupoli, ma perché era un tipo affabile. Iniziò a fare parecchi soldi e nel corso degli anni divenne un bon viveur in una città rinomata per i suoi vini pregiati, la cioccolata e bevande aromatiche.

Visto che era sempre a caccia di biglietti, fece amicizia con un gruppo che sembrava averne sempre qualcuno da vendere: i Drughi. Presto iniziò a fare come tanti altri: li comprava in blocco e li rivendeva ritagliandosi un margine di profitto ogni volta che ne aveva l’occasione. Iniziò a frequentare il loro circolo, a tre fermate di autobus dalla stazione della metro di Mirafiori, un quartiere povero a sud della città. Gli piaceva quel posto. Persino i soffitti erano dipinti di bianco e nero e ovunque erano appese vecchie foto dei calciatori della Juventus. C’erano pile alte una spanna di biglietti e banconote, un cane chiamato Snatch e un poster enorme di Benito Mussolini. Più biglietti vendeva e più i Drughi si comportavano in maniera amichevole nei suoi confronti. Per la prima volta da quando si era trasferito al Nord, gli sembrava di aver trovato una famiglia. La maggior parte dei membri del gruppo era originaria del Sud e tutti, come lui, amavano la Vecchia Signora del calcio italiano.

Alla fine degli anni Novanta ci fu un vuoto di potere all’interno dei Drughi. Il loro leader, Pino Fridd n’Pitt, era in prigione a causa di un maldestro tentativo di rapina a mano armata e Bucci colse l’occasione per scalare i ranghi, guadagnandosi in fretta una stella d’oro sulla colonna portante del quartier generale per la vendita dei biglietti. Sotto molti aspetti questo gruppo ultrà era simile a una forza vendita: ogni membro cercava di smerciare quanti più biglietti possibile, riempiendo sia le proprie tasche che quelle dell’organizzazione.

Presto Bucci si ritrovò a fare una vita da signore. Era sempre al telefono – aveva più di tremila contatti in rubrica – e le persone lo chiamavano a qualsiasi ora del giorno e della notte, implorandolo di trovargli un biglietto. Poteva quasi stabilire lui il prezzo. Si era trasferito fuori città, assieme a una donna di nome Gabriella. Ebbero presto un figlio di nome Fabio, e vivevano in un appartamento a Beinette, davanti a un deposito che riciclava metalli.