Cosenza, dieci mesi prima
(Casa degli ultrà)
È il martedì sera che precede la prima partita della stagione e sono tutti riuniti nell’edificio occupato per la riunione settimanale della Curva Sud. L’aria è densa di fumo di sigaretta e di canne. Ci saranno venti o trenta persone, ma alcuni arrivano tardi e altri devono andare via prima, per cui è difficile avere una stima corretta del numero dei presenti. Ci sono anche cinque o sei donne: Susi Sete, MonSicca e qualche altra, ma l’atmosfera trasuda testosterone.
La Curva Sud prese possesso di questo edificio abbandonato lo scorso inverno. L’occupazione è una pratica comune dei militanti dell’estrema sinistra volta all’istituzione di centri sociali e, più di recente, è diventata un’abitudine anche dei rappresentanti extra-parlamentari di organizzazioni di estrema destra come Casa Pound. Ma è inconsueto che un gruppo ultrà prenda possesso di un intero palazzo. Il gruppo lo ribattezzò “La Casa degli ultrà”, dipinse di rosso e blu i termosifoni e le scale, spazzò via l’ammasso di siringhe usate dagli eroinomani e tolse ciò che rimaneva dei sanitari nei bagni. Rilasciò perfino un comunicato stampa, suscitando l’interesse da parte delle testate giornalistiche calabresi.
Il loro slogan recitava: “Fuori le curve dagli stadi”, una sorta di grido di battaglia che si presta a ogni tipo di interpretazione, a seconda di cosa si intenda per curve. La Curva Sud afferma che lo slogan significa portare l’etica della curva nelle strade: creare un’atmosfera festosa per combattere la repressione, l’esclusione e l’intolleranza.
L’edificio si trovava all’ombra del vecchio centro di Cosenza, sulla collina opposta alla riva del fiume Busento. La nuova “casa” degli ultrà è in una posizione centrale, e chiunque poteva arrivarci a piedi, ma c’erano numerosi parcheggi intorno all’edificio, utili per le giornate in cui centinaia di persone si riunivano per stiparsi nei pulmini e andare in trasferta.
All’interno, è identico alla maggior parte delle tane degli ultrà: un computer con la pagina Facebook del gruppo aperta, fogli di carta e penne per segnare in quanti assisteranno alla partita, chi ha pagato e chi deve ancora versare la quota. Ci sono bottiglie di birra e posaceneri ovunque, qualche divano e altoparlanti collegati a telefoni rotti.
Suriciu è un ragazzo sui vent’anni. Se ne va in giro in mezzo ai compagni seduti in cerchio, facendo ondeggiare una mazza da baseball di metallo. Lo sta facendo per gioco, ma neanche troppo. Di tanto in tanto mette giù la mazza e prende la spillatrice industriale, facendo finta di pinzare il collo a qualcuno dei presenti. «Bam», urla, e scoppiano tutti a ridere.
U Lisciu, un uomo di cinquant’anni in piedi dietro al bancone del bar con una penna e un foglio di carta in mano, richiama tutti all’ordine. Elenca i prezzi del pullman di domenica per Monopoli. U Lisciu è amato da tutti. Per anni era andato alle partite con una piccola bandiera con su scritto “Mondo Fantastico”. Poi Suriciu fa un breve discorso. Vuole mettere le cose in chiaro già da subito. È basso e panciuto, con gli occhi vicini e un carattere esuberante, e nel giro di pochi secondi passa dall’essere di buon umore a diventare una furia.
«Nessuno deve venire con noi», dice Suriciu. «Guagliù, non vi costringo a fa’ nu cazzo. Voi andate dove volete». Fa una pausa, facendo roteare lentamente la mazza sopra la testa come fosse una sciarpa. «Ma se venite con noi, siamo un gruppo. Uniti. Insieme. Compatti. Fianco a fianco, guagliù. In questa stagione andremo in posti in cui non si scherza. A Catania. Giochiamo contro i reggini…».
«I leccesi», fa notare qualcuno.
«I leccesi». Suriciu sorride al solo pensiero. «Giocheremo contro i catanzaresi».
«Suriciu», dice A’Lastica, «aspe’».
La rabbia repressa esplode e ognuno comincia a gridare il nome di chi pensa dovrebbe avere la parola fra i due. «Lasciate finire Suriciu» o «continua, A’Lastica». Alla fine, è A’Lastica ad avere il sopravvento nell’accesa discussione. È inquieto e ha un’espressione tesa. Probabilmente si è guadagnato quel soprannome perché pare di gomma e può ferirti con un solo rimbalzo della mano.
«Che senso ha andare in pullman», dice A’Lastica, «se per dieci giorni ci siamo detti che prendevamo il treno?»
«Chi cazzo te l’ha detto?», sussurra Suriciu, scrocchiando il collo con aria torva. «Te l’ho suggerito io?». Nell’edificio cala il silenzio.
A’Lastica rimane sbigottito. Aveva preso questa decisione senza consultare Suriciu.
«È stato deciso in sede?», mormora ancora Suriciu. Sede è come chiamano l’edificio occupato.
A’Lastica si sente offeso. Ribolle di rabbia, e gli succede spesso quando la squadra – i Lupi, chiamati così per via del loro stemma – gioca di merda. «L’abbiamo scritto in chat», dice semplicemente.
«Affanculo la chat», sbotta Suriciu, fracassando le piastrelle con la mazza da baseball. «’Sta chat di merda. Si decide tutto qui, insieme».
«A me sembra che sia stato già deciso tutto prima di questa riunione», risponde a voce alta A’Lastica, e nella stanza torna a regnare il caos. Tutti urlano, agitano le braccia e battono le dita prima sul petto e poi sulla testa. Si parla solo in dialetto, un miscuglio confuso di D e di U. Le sillabe vengono troncate: la desinenza “-re” dei verbi viene omessa, così come la parte finale dei nomi.
La discussione tocca l’argomento principale: riguarda chi prende le decisioni e in che modo, riguarda unità e autonomia, organizzazione e rispetto – per i comandanti e per le truppe – e riguarda i soldi e il protagonismo. Eppure in quel caos anarchico c’è dell’ordine. Tre o quattro persone alzano la mano, cercando di attirare l’attenzione di U Lisciu, che è in piedi dietro al bancone del bar e decide a chi dare la parola.
U Mundatu si aggira dentro e fuori dal circolo di sedie. Sembra un giullare d’altri tempi alla corte di un re – un pagliaccio e un pacificatore. Mentre tutti brontolano, e alcuni se ne vanno infuriati, lui interrompe coraggiosamente la discussione, dicendo la dura verità a chi in quel momento aveva proprio bisogno di sentirsela dire. È un assiduo fumatore di canne, perciò ne fa girare una nel tentativo di placare gli animi, invitando tutti i presenti a tornare a sedersi. Anche lui è un tipo che si infervora facilmente, ma si placa subito e gli spunta in viso un ghigno che mette in mostra i suoi grandi denti marroni. Così, moderata da U Lisciu e U Mundatu, la riunione – in tutta la sua energia aggressiva e caotica ma allo stesso tempo mirata – va avanti.
La tensione è alta non solo perché siamo all’inizio di una nuova stagione, ma anche a causa delle divisioni interne alla curva. Nel 2015 un uomo di nome Pietro abbandonò la Curva Sud per formare un gruppo tutto suo, gli Anni Ottanta – nome che richiama il periodo di gloria in cui il Cosenza aveva i migliori ultrà del paese. Le motivazioni dietro questa scelta furono molte, tra cui la costruzione di una rampa d’accesso per i disabili e il netto rifiuto di utilizzare la tessera del tifoso, che con il tempo la Curva Sud aveva ceduto a adottare. Ma alla base c’erano anche questioni di protagonismo, ovviamente: chi avrebbe dovuto condurre i cori e chi aveva legami diretti con i fondatori dei primi gruppi ultrà cosentini. Sebbene il nome del gruppo fosse Curva Sud 1978, nessuno dei suoi membri andava già allo stadio in quell’anno, per cui il gruppo Anni Ottanta afferma di essere l’unico davvero autentico della città. Vindov (un giovane a cui mancano due denti davanti) dice che esiste soltanto un modo per scoprire quale fazione è più ultrà: venire alle mani e combattere per il titolo.
Per tutta l’estate non si era fatto altro che alimentare la tensione. Su Facebook erano volati insulti. La Curva Sud accusa gli Anni Ottanta di molte cose, principalmente del mancato appoggio al Cosenza durante la retrocessione e nei momenti di difficoltà finanziaria della società. Dicono che gli Anni Ottanta siano manipolati dai vecchi capi ormai in pensione, che disprezzano la sregolatezza della Curva Sud. A volte le due fazioni si accusano reciprocamente per gli stessi motivi, rimproverando al gruppo rivale di aver accolto tra le proprie fila dei criminali solo per fare da spalla durante gli scontri. Dal canto loro, gli Anni Ottanta sostengono che quelli della Curva Sud sono talmente anarchici da inventare cori e coreografie imbarazzanti, e ciò che più li preoccupa è la presenza di elementi non apertamente antifascisti in una città che lo è profondamente. L’unico aspetto su cui entrambi i fronti convengono è il rifiuto di qualsiasi ingerenza esterna che possa alimentare la divisione tra i due gruppi, esprimendo la propria opinione a riguardo.
Quello di Suriciu, U Lisciu e gli altri capi della Curva Sud non è un compito facile. Sanno che devono portare rispetto alle decine di gruppi minori all’interno dell’organizzazione madre: Alkool Group, Cosenza Vecchia, Banda 90 (con il loro slogan “Zimeca”, che significa più o meno “casinisti”), gli Sciollati (“i rovinati”), le Brigate, eccetera… Esistono decine di sottogruppi e di “correnti” – ognuno con il suo capo, con il suo programma e i suoi sostenitori – ma allo stesso tempo la Curva Sud deve rimanere unita e compatta non solo durante le trasferte, le partite più pericolose dove lo scontro è pressoché inevitabile, ma anche in casa.
Le difficoltà che incontra la Curva Sud a mantenere la coesione interna sono dovute in parte all’odio viscerale dei cosentini per chiunque imponga loro degli ordini dall’alto. In un servizio trasmesso in tv un un poliziotto, riferendosi agli ultrà del Cosenza, dichiarò: «Non sai mai quanti sono, a che ora arrivano e quando se ne vanno, spuntano dal nulla, e quel che è peggio è che non pagano mai il biglietto». Questo elemento sorpresa non è frutto di una strategia. Spesso sono loro i primi a non conoscere il luogo e l’orario di ritrovo. Gli appuntamenti sono rigidi come burro al sole.
I cosentini vanno fieri della loro indole anarchica. Alcuni sostenitori della squadra si fanno chiamare “lupi spuri” (lupi solitari), come se non appartenessero al branco, e sembrano quasi autocompiacersi della loro sorprendente capacità di apparire e scomparire nel nulla. Uno dei loro striscioni più famosi recita: “Al cosentino piace giocare a nascondino”, e riunirli tutti insieme, in un unico luogo, è un compito arduo. Una locandina per una manifestazione annuncia “una marcia scomposta e disordinata”. E questo conclamato disordine non è il risultato della loro incompetenza ma dell’energia creativa che sprigionano: la città è talmente piccola – conta solo 70.000 anime – che a un evento del genere è facile essere distratto da un amico di un amico. È un’energia così stimolante che spesso si viene trascinati per una viuzza acciottolata da uno slancio improvviso della folla.
Il brigantaggio non è soltanto una facciata. In Calabria il disprezzo per l’autorità è profondamente radicato. In questa parte del mondo si è convinti che dalle istituzioni nazionali e locali, o dalla chiesa, non si otterrà mai nulla di buono. I calabresi hanno sempre riposto poca fiducia nel potere, e hanno sempre giudicato ogni individuo sulla base dei meriti, e non sulla sua importanza sociale. Motivo per cui qui non ci sono titoli, e le persone non vengono chiamate per nome o cognome, ma solo con i loro appellativi: U Rimastu, Mezzochilo, U Fissatu e via discorrendo.
La città è situata vicino alla punta dello stivale ed è un luogo in cui convivono compromesso e intransigenza. Il nome ha origine dallo storico accordo chiamato consensus del 356 a.C., anno in cui le tribù guerriere dei Bruzi si coalizzarono e strinsero un accordo di pace. La collina di Pancrazio, ai piedi della quale convergono i fiumi Crati e Busento, divenne la nuova capitale dei Bruzi: Cosentia. Non era una scelta saggia farsi nemici i Bruzi. Erano indomite genti di montagna che vivevano negli altipiani della catena della Sila. Nel quarto secolo a.C., le colonie elleniche della Magna Grecia – situate lungo le coste della Calabria e della Lucania – chiesero aiuto alla madrepatria affinché soggiogasse questi popoli belligeranti. Fu inviato Alessandro I dell’Epiro (zio di Alessandro Magno) ma nonostante un accordo di pace con Roma, fu ucciso nel 330 a.C. vicino al fiume Acheronte, nei pressi della città perduta di Pandosia Bruzia. In un sito non meglio identificato della zona è seppellito anche un altro invasore: Alarico (che saccheggiò Roma nel 410 d.C.).
Nel diciannovesimo secolo, Cosenza stava fronteggiando un’insurrezione contro il regno dei Borboni: il carbonaro Vincenzo Federico e i fratelli Bandiera (originari di Venezia) vennero condannati a morte a Cosenza per aver combattuto per l’unità d’Italia. E quando, dopo l’unificazione, le truppe piemontesi iniziarono una dura repressione ai danni del Sud, la Calabria divenne famosa per gli episodi di brigantaggio. Secondo lo storico Vincenzo Cuoco, Cosenza è sempre stata «un luogo di antico e fervente sentimento repubblicano».
Ma la città non era famosa soltanto per le ribellioni. Era uno dei centri più importanti della filosofia moderna, e gli scritti risalenti al sedicesimo secolo di Bernardino Telesio ebbero un’enorme influenza su Bacon, Bruno, Campanella e Cartesio. Cosenza venne persino definita «l’Atene di Calabria», e Norman Douglas scrisse che «la testimonianza letteraria di Cosenza è di un acume eccezionale. Non vi è altra città sulla faccia della terra che possa competervi per originalità e perspicacia di pensiero».
Ecco quindi spiegato il motivo per cui questo edificio occupato nel profondo Sud può essere considerato l’equivalente del ventunesimo secolo di un covo di briganti. In questa assemblea chiassosa ed egalitaria, si beve e si fuma una canna dopo l’altra, mentre si discute di strategia, di nemici, di come sfuggire all’arresto e della conquista di nuovi spazi. E quando la riunione finisce, dopo aver bevuto e fumato un altro po’, si mette la musica a tutto volume – un miscuglio di ska, punk e hip-hop.
Nonostante regni l’anarchia, il lavoro viene suddiviso con sincera passione. Quando gli ultrà si trasferirono in questo edificio l’intera costruzione era un posto lugubre. Precedentemente si trattava di una mensa scolastica – cinque o sei stanze e un ampio seminterrato – che da molto tempo ormai era diventata il luogo di ritrovo per fumatori di crack ed eroinomani. Aghi, escrementi e vetri rotti ricoprivano il pavimento. L’immondizia era ammassata in ogni angolo. Ora invece ha più l’aspetto di un appartamento semi-arredato: ci sono divani, sedie, un bar e un bagno. I ragazzi hanno portato qui degli scatoloni pieni di magliette e sciarpe. Si contano decine di targhe e sciarpe di altri gruppi ultrà e memoriali in onore dei compagni scomparsi. Le sciarpe appese ai muri sono accomunate da un generico sprezzo della legge: tra queste spiccano i nomi “Teste fumanti”, “Spirito ribelle”, “Clandestini” e “Fedayn Bronx”. Ma si prendono molta cura di quest’ambiente che chiamano casa. Nei bagni manca lo scarico, e si è costretti a riempire un Tupperware con l’acqua del rubinetto per ovviare al problema. C’è un cartello scritto a mano che ricorda a tutti: “Un ultrà tira sempre lo sciacquone perché rispetta il suo territorio e il fratello che ha pulito prima di lui”.
L’aspetto che sicuramente colpisce di più è il fondamentalismo cromatico. Ogni cosa è dipinta dei colori rosso e blu del Cosenza: le scale, i termosifoni, le porte, gli infissi delle finestre. In città non è affatto raro vedere le tende, i cofani e i cerchioni delle auto e le serrande dei negozi dipinti con i colori della squadra.
È chiaro che sono i colori a creare una tribù. Sono i colori a creare legami profondi. Sono la ragione per cui si vive o si muore. Come recita uno dei loro cori: «Quando morirò, voglio portare i miei colori in paradiso». Sono un totem. Si difendono e si impongono. Non sono dei semplici vezzi, definiscono chi siamo, e insultare il rosso e blu equivale a insultare una madre o una sorella: è intollerabile.
E nessuno ha ancora parlato di calcio. Nessuno ha ancora parlato dei giocatori. «Cazzo», dice uno di loro, «non so neanche con chi giochiamo sabato. Ma non me ne frega niente. L’importante è che portiamo avanti i nostri colori, che ci facciamo sentire e rispettare». La vera partita si gioca tra gli ultrà.
Gli scrittori classici sapevano benissimo che l’agón – la lotta sportiva – aveva un effetto quasi stupefacente sulla psiche degli spettatori. «Effervescimus ad aliena certamina», scriveva Seneca («ci entusiasmiamo guardando gli altri combattere»). Tertulliano, nel suo trattato De spectaculis scrisse che:
Lo spirito prova un turbamento e una commozione grande, di fronte alle impurità e alle vergogne cui si assiste negli spettacoli. […] Ammettiamo pure che taluno, con un senso di moderazione e di equilibrio, usi degli spettacoli secondo l’età sua, e come lo comportino la sua natura e il grado di dignità che ricopre; tuttavia l’animo suo non potrà rimanere insensibile, indifferente; e non sarà possibile che non sia scosso da fremiti occulti di passione.
Lo sport non conduce soltanto a uno stato di elevazione spirituale, ma apre anche le porte ai più bassi istinti dell’uomo, specialmente quando l’agón greco cedette il posto ai circenses romani, il circo di lotte, a volte mortali, tra gladiatori. Sant’Agostino scrisse di Alipio:
…vedere quel sangue imbeversi di crudeltà fu tutt’uno: non distolse lo sguardo dai combattimenti, anzi ve li fissò; respirava furore senza accorgersene, prendeva gusto a quella lotta criminale, ebbro di sanguinario piacere. Che più? Guardò, gridò, si entusiasmò e se ne venne via in preda a una febbre che lo spinse a tornarvi.
Come il carnevale, il circo era un luogo di rituale licenziosità, in cui per un periodo di tempo limitato non vigeva alcuna regola. L’arena era teatro di parrhesia, di discorso ininterrotto, dove i plebei e il popolo in generale potevano sfogarsi. In quel contesto potevano dire e pensare tutto ciò che nel rigido mondo esterno non gli era permesso. I moralisti dell’antichità che osservavano quello che accadeva ai sostenitori nell’arena usavano un linguaggio quasi identico a quello dei commentatori indignati dei giorni nostri. Dione Crisostomo, nel secondo secolo, scriveva: «…pèrdono completamente la dignità, e senza vergogna alcuna dicono e fanno la prima cosa che gli viene in mente. Sembrano sotto l’effetto di qualche sostanza eccitante. Non sono in grado di seguire i giochi in maniera civile».
L’architettura dell’arena – così simile agli stadi odierni – accentuava il contrasto con il mondo civile e raffinato della città, poiché le persone perdevano la loro abituale compostezza. Come scrisse Elias Canetti nel suo libro sulle folle:
Verso l’esterno, verso la città, l’arena rivolge un muro “privo di vita”. Verso l’interno, essa costruisce un muro di uomini. Tutti i presenti nell’arena voltano le spalle alla città. Si sono staccati dalla sua struttura, dalle sue mura, dalle sue strade. Durante la loro permanenza nell’arena, nulla di ciò che accade in città li preoccupa. Si lasciano dietro la vita dei loro rapporti, delle loro regole e abitudini. Il loro stare insieme in gran numero è assicurato per un certo periodo di tempo, l’agitazione è stata loro promessa ma a una condizione determinante: che lo sfogo avvenga verso l’“interno”.
La violenza è sempre stata associata ai contesti sportivi sin da molto prima dell’inizio del ventesimo secolo. Il calcio dette prova di essere uno sport capace di incendiare gli animi così tanto che, nel 1580, il governatore di Bologna lo bandì allo scopo di «evitare risse, scandali e ostilità». L’ordinanza fu completamente ignorata, e l’anno seguente ne venne emanata un’altra rivolta a «disonesti giovani e putti, li quali con poco rispetto e riguardo danneggiano, ruinano e guastano…».
Molto spesso gli episodi di violenza avvenivano tra quartieri o villaggi rivali. Com’è ben noto, l’Italia è un Paese eterogeneo, lacerato nel corso della storia da guerre tra baroni, duchi, dogi, imperatori e papi che combattevano per il controllo del territorio, per la riscossione delle tasse e per il potere.
La battaglia di Zappolino del 1325 fu una vicenda emblematica di quel clima di guerra incessante. Non viene ricordata tanto perché costò la vita a tremila persone, ma perché durante il conflitto tra le truppe di Modena e Bologna, i modenesi rubarono un secchio di legno da un pozzo. La battaglia divenne famosa grazie al poema di Alessandro Tassoni La secchia rapita. Il furto dell’oggetto in questione fu un simbolo del disprezzo nei confronti del nemico; il suo ricordo, un esempio di valore militare e di orgoglio civico. Secondo Gianni Brera, l’odio tra città limitrofe, una volta riconosciuto il calcio come sport a livello nazionale alla fine del diciannovesimo secolo, offrì «un formidabile pretesto per dare sfogo alle faide ricorrenti tra le varie città». Il simbolismo evocato da quel secchio oggi è rappresentato dallo stendardo degli ultrà, che porta il nome del gruppo e che viene sbandierato e difeso all’ultimo sangue.
Il processo di formalizzazione del calcio ebbe inizio all’inizio degli anni Novanta del 1800, quando un medico della marina inglese, James Spensley, introdusse la Association Football in Italia. Dall’apertura del canale di Suez nel 1869, gli equipaggi inglesi sbarcavano al porto di Genova durante i loro viaggi per e dall’India. Spesso avevano giusto il tempo di tirare qualche calcio al pallone per divertimento nell’area di attracco del porto di Genova, ma quando rimanevano più a lungo, Spensley li portava vicino alla prigione a giocare sull’erba bagnata. Nel 1893, Spensley e altri ufficiali consolari britannici istituirono formalmente il Genoa Cricket and Football Club in un ufficio di via Palestro. Questa data iconica è presente su quasi ogni sciarpa, maglietta, adesivo e sito internet connesso al Genoa (il nome della società sportiva infatti conserva tuttora l’ortografia inglese).
La città di Genova è famosa per molte ragioni, tra cui il pesto di pinoli e basilico e per la focaccia ligure. Pare che l’incorretta pronuncia del nome della città (o forse il modo in cui è chiamata in dialetto genovese, Zena) abbia dato vita alla parola “jeans”. Ma alla fine del secolo scorso, la città era diventata più famosa per la sua squadra di calcio.
Sotto alcuni aspetti, il Genoa è stato uno dei club di maggior successo in Italia. Ha vinto nove scudetti, benché il primo campionato del 1898 fosse durato soltanto un giorno e coinvolgesse solo quattro squadre. Il dottor Spensley giocò in sei squadre che si aggiudicarono il campionato. L’ultima volta che il Genoa vinse uno scudetto fu nel 1924, quasi un secolo fa.
C’è chi pensava che questo prodotto d’importazione inglese avrebbe dato un esempio di civiltà, e avrebbe insegnato a una società violenta a gareggiare in maniera pacifica seguendo leggi e regole. Ma non fu così, né in Inghilterra né al di fuori dei confini britannici. Lo sport doveva essere un valido sostituto alla guerra, ma spesso divenne un pretesto per giustificare il conflitto, specialmente in Italia, in cui il termine “tifoso” venne appositamente coniato per indicare la moltitudine di sostenitori talmente febbricitanti da sembrare malati di tifo.
Molte furono le risse e i disordini a causa delle partite di calcio, tra cui le famigerate battaglie campali del 1902 tra il Genoa e l’Andrea Doria (parte di quella che diverrà la Sampdoria) e nel 1905 tra Juventus e Genoa. Nel 1912, la polizia dovette salvare un arbitro dalla lapidazione durante una partita tra Andrea Doria e Inter e nel 1914, in un incontro tra Livorno e Pisa, vennero usate pietre e armi da fuoco.
Il primo decesso avvenuto durante una partita di calcio italiano risale al 1920, quando un tifoso del Viareggio stava ricoprendo il ruolo di guardalinee. Il Viareggio, squadra dell’omonima città costiera Toscana, stava giocando contro il suo avversario locale, il Lucca, e quando la folla turbolenta divenne impossibile da gestire, un carabiniere sfoderò la pistola e sparò per errore al guardalinee, di nome Augusto Morganti. Seguirono tre giorni di rivolta.
Dal 1920 fino al 1922, quando sembrava che il paese fosse nel caos e sull’orlo della rivoluzione, le Squadre d’Azione fasciste riversarono la loro furia sui lavoratori, i socialisti e i rappresentanti dei sindacati. Il loro capo era il demagogo, ex giornalista e veterano di guerra Benito Mussolini. Tra le fila delle squadracce militava un discreto numero di veterani della prima guerra mondiale, delusi perché si sentivano traditi sia dall’esito del Trattato di Versailles che dallo sdegno della popolazione nei loro confronti, in seguito alle imprese sul campo di battaglia. Molti squadristi facevano parte del gruppo degli Arditi, fondato nel 1917 durante la prima guerra mondiale, i quali avevano militato nei regimenti di fanteria e nel 1919 avevano occupato Fiume, sotto l’egida di Gabriele D’Annunzio, in segno di protesta per la cessione della città (ora parte della moderna Croazia) al nuovo stato della Jugoslavia.
Queste bande si contraddistinguevano per la giovane età dei loro membri. Fecero propria una canzone studentesca di Torino, che in principio era stata scritta dagli Alpini, chiamata appunto Giovinezza. Sotto questi aspetti, è inquietante la somiglianza tra le camicie nere e gli odierni gruppi ultrà. Il loro nomi erano concepiti per incutere terrore – I Disperati e Gli Impavidi ne sono un esempio – e sventolavano delle bandiere dall’aspetto macabro, spesso con dei teschi e delle ossa incrociate. Era presente anche un elemento canzonatorio, poiché le bande si divertivano a rubare e fare propri i simboli dei loro rivali, che chiamavano “stracci”. L’insegna del giornale socialista «Avanti!» fu portata come trofeo negli uffici di Benito Mussolini a Milano. Molto spesso, gli squadristi erano anche consumatori di droghe a scopo ricreativo. Durante l’occupazione di Fiume era diffuso il consumo di cocaina, che veniva impiegata come stimolante per esacerbare le aggressioni contro esponenti di sinistra. A Ferrara, il gruppo di squadracce era chiamato Celibano, una storpiatura dialettale del termine inglese cherry brandy – conosciuto anche come Sangue Morlacco – liquore che questi uomini bevevano prima di entrare in azione. Ogni squadra aveva un capo chiamato ras, da una parola Etiope che significava «signore della guerra». Oggi molte tifoserie (a volte intenzionalmente, altre per puro caso) si definiscono utilizzando la parola “ultras”, disegnandola sulle loro bandiere e dividendo le due sillabe con un simbolo al centro come per indicare che “ras” è una parola separata, forse in omaggio alle sue origini.
Proprio come avrebbero fatto gli ultrà cinquant’anni dopo, gli squadristi riportarono in auge il settarismo delle epoche passate. Nel suo libro Fascist Voices, lo storico Christopher Duggan, ormai scomparso, riporta una frase piena di sgomento da parte di un ragazzo di diciotto anni, in seguito alla follia sanguinaria della primavera del 1921:
…era un susseguirsi di atti di vendetta […] le persone erano in competizione l’una contro l’altra come se lo spirito maligno del Medioevo avesse fatto riaffiorare i vecchi risentimenti dei Bianchi e dei Neri [le due fazioni del partito Guelfo che divisero in due Firenze al tempo di Dante]. Oggi come allora, sono cambiati solo i colori dei partiti; ma la ferocia è sempre la stessa, e si respira un clima di odio che sembra essere la loro linfa vitale.
La violenza degli ultrà non ha mai eguagliato quella delle squadracce (durante i tumulti del 1920 vennero uccise 288 persone, di cui solo quattro erano fasciste), ma spesso il simbolismo è identico: Mussolini voleva che l’insurrezione delle camicie nere fosse vista come una guerra di religione, con la sua liturgia e i suoi martiri che avrebbero costretto gli italiani a riconoscere – cosa che, a suo avviso, dopo la guerra non era avvenuta – «la sacralità delle gesta dei nostri caduti». Lo squadrismo propugnava una concezione perversa della religiosità: lo spargimento di sangue ne avrebbe santificato la causa e la sua abiura sarebbe stata considerata al pari della blasfemia. Negli ambienti fascisti veniva costantemente invocata la fede, in parte perché serviva a riempire il vuoto ideologico, ma anche perché, secondo Duggan, avrebbe permesso al fascismo di «tracciare il proprio sistema di valori all’interno di un quadro più famigliare, come quello del cattolicesimo».
Pochi anni più tardi, dopo che Mussolini ebbe preso il potere, di rado ci furono occasioni in cui si giocava una partita di calcio senza che scoppiasse una rissa. Nel luglio del 1925 vennero sparati dei colpi di arma da fuoco tra i tifosi del Bologna e del Genoa che si erano incontrati alla stazione di Torino Porta Nuova. È sorprendente notare che il linguaggio utilizzato nei verbali della figc in seguito agli episodi avvenuti, per descrivere le tifoserie di allora, fosse quasi identico a quello che la federazione usa oggi per etichettare gli ultrà e le loro azioni: «Questa deplorevole masnada minaccia di recare danni irreparabili al giuoco del calcio». Negli anni Trenta, l’Italia vinse due campionati del mondo consecutivi e la popolarità di questo sport, con la passione che la contraddistingueva e la strumentalizzazione politica, raggiunse nuove vette.