Cosenza, 1985
Nel 1985 i Nuclei Sconvolti avevano iniziato a tenere le loro riunioni settimanali nel convento di Padre Fedele. In quegli anni il frate era diventato un personaggio di spicco. A volte dirigeva i cori pre-partita tramite il sistema di altoparlanti dello stadio, o si arrampicava su uno dei pali dei riflettori che svettavano a trenta metri di altezza sopra la curva, dirigendo i cori da lì. «Ero diventato il re di Cosenza», ricorda.
Lo fotografavano mentre baciava il campo o mentre era in mezzo ai tifosi, con indosso un cappello rosso e blu, sventolando una sciarpa sopra la testa. La domenica mattina, nelle giornate di campionato, andava a celebrare la messa per i giocatori con Pastachina. La sua notorietà aveva raggiunto persino i reggini, gli avversari regionali del Cosenza, i quali una volta esposero un striscione che recitava: “Tuo Padre Fedele, tua madre mignotta”.
All’interno del convento i Nuclei Sconvolti ebbero più spazio per immagazzinare il proprio materiale. Padre Fedele li aiutò anche con l’organizzazione della logistica, mettendo a disposizione il furgone e la cucina. Era un’epoca in cui gli ultrà facevano a gara a chi aveva la coreografia più memorabile. Ciccio e Piero volevano creare una bandiera rossa e blu che copriva tutto il settore principale, così ordinarono milleduecento metri di materiale da una fabbrica di Prato, a 750 chilometri di distanza. Tonino andò direttamente nella città toscana a ritirarlo, riponendolo dentro delle scatole di cartone. La madre di Piero era una sarta, e anche lui se la cavava con la macchina da cucire. Passava ogni minuto del suo tempo libero ad attaccare il rosso al blu e viceversa.
Tutte le persone che passavano facevano delle foto. Altri diedero una mano a stendere le strisce cucite, o andavano a prendere qualche panino per Piero.
Qualcuno trovò dei carrelli per la spesa in cui stipare tutto il materiale, perché era talmente pesante che nessuno sarebbe stato in grado di trasportarlo. Tutta la città di Cosenza sapeva ora del bandierone. La mattina del 6 aprile 1985, i ragazzi dispiegarono la bandiera adagiandola in un parcheggio auto. Mentre la arrotolavano, non riuscivano a credere a quanto fosse grande: lunga cento metri e larga venti. «Sembra», disse Paride, l’intellettuale del gruppo, «la sciarpa di Gulliver».
Una volta stesa completamente, una folata di vento ne alzò un angolo e la fece ondeggiare in diagonale, lungo i suoi colori rosso e blu. Gli ultrà strafatti la fissarono meravigliati. La bandiera aveva preso vita. La arrotolarono ancora una volta e la trasportarono in venti dentro al furgone malandato di Padre Fedele.
Quella domenica gli ultrà sedettero sulle gradinate principali. Si giocava la partita contro il Catanzaro. La bandiera venne dispiegata in modo non uniforme, dal punto più alto della tribuna fino in fondo agli scalini, sopra la testa degli spettatori. Tutti saltavano sotto al vessillo, che sembrava rimbalzare, quindi i ragazzi della fila superiore ci lanciarono sopra dei coriandoli bianchi che sembravano fiocchi di neve. Nonostante il Cosenza avesse vinto il derby per 1 a 0, con un tiro di sinistro dall’angolo di Alberto Aita, si parlava soltanto della bandiera e di come un intero settore si fosse completamente tinto di rosso blu.
Due mesi più tardi, il 5 giugno del 1985, gli ultrà del Cosenza aprirono una mensa per i poveri. Un avvocato del posto offrì al frate un edificio a un solo piano ubicato in via Mazzini, a pochi metri da dove vivevano Piero e Claudio. Sebbene alcuni ultrà la ritenessero una perdita di tempo, molti altri furono attratti dall’idea, specialmente Piero, che in poco tempo escogitò alcune idee su come creare il menù, organizzare i posti a sedere, e reperire le forniture di cibo. La curva e il banco alimentare gli sembravano una cosa sola. Cucinare per gli affamati era una follia alla quale non si poteva resistere, proprio come essere un ultrà.
Era anche un ottimo cuoco: amava curiosare tra le botteghe, cercando di trovare gli ingredienti giusti e trattando sul prezzo con un sorriso sulle labbra, capitando ogni tanto nei negozi dei suoi amici che gli offrivano un bicchiere di vino. Gli piaceva la maestria necessaria a lavorare in cucina, oltre alla possibilità di ascoltare la sua musica preferita – i Clash, ma anche i The Sound, i Depeche Mode e gli U2 – mentre spianava la sfoglia.
Quando i Nuclei Sconvolti aprirono la loro prima mensa, ricevettero soltanto tre visite, che la settimana dopo diventarono diciassette. Preparare una quantità di cibo sempre maggiore non fu un problema: Padre Fedele poteva sempre fare pressione sulla gente affinché elargisse donazioni. Ogni avventore arrivava con una storia che era impaziente di raccontare. Una volta terminato il cibo, venivano riposti gli attrezzi e gli ultrà tornavano dalle loro famiglie o al lavoro. Piero rimase sempre indietro ad ascoltare le storie di tutti. Sedeva con loro fino a sera, invitando i senzatetto in cucina a consumare gli avanzi mentre loro gli raccontavano ciò che li affliggeva. Cercava continuamente di convincerli a venire allo stadio la domenica, dicendogli che la curva era la via per la salvezza.
Quell’estate, Padre Fedele e i ragazzi del Cosenza organizzarono il primo incontro a livello nazionale degli ultrà. Attraverso il passaparola, le tifoserie del Genoa, dell’Atalanta, della Reggina, del Bari e di altre squadre vennero a sapere della riunione. Venne tenuto un dibattito al Cinema Italia con il nome di “Abbandona il ghetto per creare una controcultura ultrà”. Ma più che un semplice evento controculturale, l’incontro era un tentativo da parte di Padre Fedele di promuovere la fratellanza e la pace fra i tifosi. Aveva uno slogan che ripeteva in continuazione: «Tifo sì, violenza no. Pace». Per caso, un giornalista de «La Repubblica», che era in vacanza al mare vicino Fuscaldo, venne ad assistere l’incontro degli ultrà per vedere di cosa si trattasse. Scrisse un articolo al riguardo che fece pubblicità al frate, e presto altri giornalisti vennero a intervistare l’eccentrico frate e la sua banda di ultrà caritatevoli e anticonformisti.
Le foto di quella riunione mettono in mostra la giovane età degli ultrà. Nelle assolate montagne della Sila, intorno a Padre Fedele, i partecipanti hanno poco più di vent’anni. Questi giovani avevano riscoperto un nuovo modo di essere ultrà. «Dicevamo», ricorda Luca, «ragazzi, stiamo attenti a non scatenare una guerra tra di noi. Il vero nemico non sono le persone come noi che vivono in altre città, ma le istituzioni». A modo loro, gli ultrà del Cosenza erano degli intransigenti, proprio come i loro colleghi di Verona, ma la loro rabbia era indirizzata verso i padroni, e non verso gli stranieri.