Cosenza, 23 gennaio 2006

 

 

 

 

 

 

 

«Hanno arrestato Padre». La voce si sparse in fretta. C’era chi telefonava agli amici e chi accendeva la tv. «Padre Fedele è in carcere».

Era accusato di aver ripetutamente stuprato una suora all’interno dell’Oasi Francescana. Nel “legalese” del mandato di arresto, si affermava che avesse costretto una suora siciliana a “congiungersi” a lui. Dietro quella fredda definizione, i dettagli delle cinque aggressioni – avvenute tra febbraio e giugno ٢٠٠٥ – erano macabri. Si presumeva che gli episodi fossero in tutto cinque. Dopo aver dato alla suora in questione – che viveva nell’Oasi assieme alle Suore dei Poveri di San Francesco – una pillola per farla cedere, permise ad altri di stuprarla, e filmò la violenza. Precedentemente al primo stupro, il ٢٨ febbraio, si suppone che Padre Fedele avesse insinuato di conoscere un mafioso messinese per intimidirla. Si credeva che i due stupri successivi fossero avvenuti in presenza di pervertiti che avevano pagato cifre a sei zeri per assistere. In seguito la suora sosteneva di aver ricevuto minacce: «Attenta a quello che fai, ti stiamo col fiato sul collo». Il meno violento fra gli ultrà, quello che aveva patrocinato la campagna per la pace nello sport e che era stato promotore di un centro per le vittime di violenza domestica, veniva ora accusato del peggiore dei crimini.

La squadra investigativa rilasciò intercettazioni telefoniche oscene di Padre Fedele, e ben presto i quotidiani riportarono delle conversazioni intime in cui il carismatico frate chiedeva alle donne di fornirgli dettagli sui loro seni, sull’intimo che indossavano e su dove lui potesse mettere le mani. Padre Fedele negò fermamente le accuse. Il giorno del suo arresto dichiarò: «Oggi è il più bel giorno della mia vita, perché mi sento più vicino a Gesù Cristo, perseguitato e crocifisso». Fuori dalla prigione c’erano vari giornalisti, e a loro fianco erano presenti Canaletta, Claudio e sua moglie. «Non ci crederemo mai», urlavano.

Quella sera altri ultrà cosentini si radunarono fuori dalla prigione, continuando a cantare la canzone che Padre Fedele aveva reso famosa allo stadio: «Maracanà, Maracanà, siamo venuti fino a qua, e canteremo, e grideremo, forza Cosenza, alè alè». Avevano con loro uno striscione che riportava quello che era diventato il motto di Padre Fedele: “Tifo sì, violenza no, pace”. Nel corso dei decenni, erano stati incarcerati migliaia di ultrà e ogni singola volta venivano cantati i loro nomi e implorata la loro libertà. Questo arresto però gettava tutti gli altri nell’ombra. La domenica seguente, alla partita in casa contro il Ragusa, comparve un semplice striscione che diceva: “Liberate il frate”.

L’arresto di Padre Fedele, l’uomo corpulento e focoso che aveva funto da guida spirituale per gli ultrà non solo del Cosenza ma di tutta Italia, divenne un caso nazionale. Stavano tutti cercando di capire chi realmente fosse. La sua amica, la pornostar Luana Borgia, disse: «Diciamo che è un frate che sicuramente non rimane indifferente al fascino femminile». Disse che aveva «l’occhio lungo» per le donne. Emanuele Giacoia, un giornalista che lo conosceva molto bene, lo descrisse come un uomo «esuberante, disponibile e generoso», ma con un carattere «focoso, talvolta incontenibile». Furono tante le donne indignate alla vista di un presunto stupratore prontamente difeso da un gruppo dominato dagli uomini. Nonostante molte donne si fossero schierate al suo fianco, nessuna di loro era famosa come il resto degli ultrà cosentini (in prevalenza uomini).

Padre Fedele aspirava da sempre alle luci della ribalta. Il suo desiderio di protagonismo era quasi patologico. Ma ora che i riflettori nazionali erano puntati su di lui, anziché essere adulato, veniva denigrato. I programmi televisivi e i quotidiani facevano ironia sulle sue debolezze. Chi aveva lavorato con lui in Africa lo accusava di essere un donnaiolo. E i giornalisti che prima si erano appassionati della sua esuberanza ora scrivevano profili malinconici del loro eroe caduto.

Chi non viveva a Cosenza dava per scontato che fosse colpevole. In un’epoca in cui in tutto il mondo venivano rivelati i crimini a sfondo sessuale della Chiesa Cattolica, Padre Fedele sembrava un altro esempio di un terribile abuso di potere travestito da misericordia. Si sosteneva che avesse persuaso altre donne a fare sesso con lui in cambio di aiuto con le richieste d’asilo. In passato era apparso, ogni tanto, leggermente ridicolo, ma mai così sinistro.

Gli ultrà del Cosenza rimasero comunque al suo fianco. Semplicemente si rifiutavano di credere a quelle accuse. Canaletta scrisse una lunga lettera aperta a Padre Fedele mentre era in prigione. «Mi hai portato in Africa», diceva, «dove mi hai mostrato cosa vuol dire gestire una clinica per i lebbrosi, cosa significa costruire un’infermeria nel deserto, dare da mangiare a bambini che muoiono di fame, che prima di incontrarti si nutrivano soltanto di cassava e cavallette. Abbiamo litigato migliaia di volte. Mai, mai, mai nei trenta anni che ti conosco ho pensato, nemmeno per un istante, che quello di cui ti ti accusano potesse essere una possibilità».

Canaletta trascorreva spesso la notte all’Oasi in veste di guardiano notturno e perciò era convinto che se ci fosse stato qualcosa che non andava, se ne sarebbe senz’altro accorto. Dichiarò che Padre Fedele era sempre stato per gli ultrà: «Un esempio di solidarietà e amore sconfinato nei confronti di chi soffre e dei dimenticati di questo pianeta». Disse anche che Padre Fedele aveva sempre dimostrato «un sincero affetto per gli emarginati». Claudio ricorda che Padre Fedele fu accusato del solo crimine che gli ultrà ritenevano imperdonabile: «Gli avremmo perdonato tutto, anche l’omicidio, mai però lo stupro».

Molti amici di Padre Fedele erano convinti che fosse stato incastrato. Sembrava che qualcuno si fosse messo deliberatamente alla ricerca del suo punto debole – ed erano in pochi a non sapere che si trattasse delle donne – per muovergli delle accuse. Per molti, erano davvero troppo macabre per essere credibili: la pillola misteriosa, le cifre a sei zeri – prima 160.000 euro, poi 100.000 – per assistere allo stupro, le minacce mafiose. Sembrava la trama di un romanzo noir.

A quegli ultrà cosentini che erano stati ripetutamente accusati o perfino internati, sembrava l’ennesimo complotto. Sapevano che Padre Fedele poteva essere un buffone, un attaccabrighe. Era un casinista, proprio come i suoi ultrà, uno che aveva dormito sotto i ponti per dare voce ai senzatetto, uno che aveva fatto lo sciopero della fame quando la squadra del Cosenza era sull’orlo della retrocessione. Ma lui stesso, però, aveva più volte denunciato la violenza sessuale. La sua battaglia in difesa delle giovani donne aveva condotto all’arresto di sette persone. Aveva denunciato con coraggio i trafficanti di droga. Aveva costruito un’Oasi multi milionaria che gli alti vertici della Chiesa guardavano di invidia. Aveva anche denunciato la corruzione in un ospedale – del quale poi si era proposto come nuovo direttore – che in seguito divenne il più grosso caso di bancarotta della sanità calabrese. Altro che stupratore, dicevano i suoi sostenitori, Padre Fedele era un vero e proprio sasso nelle scarpe dei corrotti.

Canaletta osò scriverlo pubblicamente. Sulla fanzine del Cosenza scrisse che «la gerarchia della Chiesa cosentina stava portando a termine un progetto che aveva in mente da lungo tempo e che aveva un solo grosso ostacolo: Padre Fedele». Accusava la Chiesa di volersi appropriare dell’Oasi Francescana, cacciare i bisognosi per trasformarla, a tutti gli effetti, in una struttura più simile a un hotel, visto che: «Conoscono un solo Dio: il denaro». Claudio, editor della rivista, venne querelato per diffamazione dal vescovo, e si dichiarò «pronto a essere bruciato sul rogo» invece di rinnegare quello che aveva scritto. Ribadì la convinzione che vi fosse una “congiura” contro Padre Fedele.