Torino, metà anni Settanta

 

 

 

 

 

 

 

Torino è un’augustea città percorsa da ampi viali e edifici signorili. La sua griglia di strade perpendicolari è attraversata da due fiumi – il Po e la Dora Riparia – che confluiscono vicino al cimitero monumentale dove sono sepolti i giocatori del Grande Torino. La basilica di Superga domina il panorama della città, per i torinesi un ricordo delle glorie del passato e della mortalità. Sullo sfondo, ma neanche troppo lontane, si stagliano le cime innevate delle Alpi.

Scelta come prima capitale del Regno d’Italia, Torino ha sempre avuto la grandezza nel sangue. Con la sua vasta comunità ebraica e protestante, subisce una minore influenza da parte del cattolicesimo rispetto ad altre città italiane, e i suoi tram, la cioccolata e il dialetto gallo-italico gli danno un’aria decisamente mitteleuropea. È una città di buongustai che produce alcune delle bevande migliori al mondo: non solo vini eleganti come Barbera e Barolo, ma anche vini aromatici come i vermouth Cinzano e Martini. Ma soprattutto ospita le squadre della Juventus e del Torino.

Durante il boom economico degli anni Sessanta, Torino subì un cambiamento radicale. L’industria automobilistica della fiat aveva assunto nello stabilimento di Mirafiori migliaia di lavoratori provenienti dal Sud. La maggior parte erano tifosi della Juventus, e se non lo erano, presto lo sarebbero diventati i loro figli. I sostenitori della Juve e i gruppi ultrà della squadra si sono sempre distinti dagli altri. Se il tifo organizzato era spesso stato un’espressione dell’attaccamento al territorio, questo non era certo il caso della Juventus. Grazie ai suoi continui successi in campionato, i suoi tifosi non si trovavano soltanto a Torino, e neanche in Piemonte, ma in tutta Italia. Si stima che i sostenitori della Vecchia Signora del calcio italiano, chiamata anche la “fidanzata d’Italia”, siano circa quattordici milioni in tutta la penisola. A Torino, i giocatori e i tifosi della Juve vengono apostrofati con il nomignolo di rigatìn o gobbi. Spesso lo stemma dei gruppi ultrà della Juventus non aveva solo i tipici colori bianco e nero della squadra (ispirati a quelli del Notts County) ma il bianco rosso e verde della bandiera italiana. Il tricolore italiano non suggeriva solo che la Juventus si aggiudicasse ogni anno lo scudetto (nel 1971-72, 1972-73 e nel 1974-75, la Juventus vinse il suo quattordicesimo, quindicesimo e sedicesimo campionato) ma che era una squadra appartenente a tutta la nazione.

Come sempre, i gruppi ultrà della Juventus nacquero dalle associazioni ufficiali come Primo Amore e lo Juventus Club Filadelfia. I primi ultrà della Juventus hanno tratto ispirazione dai movimenti di estrema sinistra e avevano nomi come Venceremos (imitazione del grido di battaglia della sinistra latinoamericana). Un famoso slogan di estrema sinistra – “il potere appartiene ai lavoratori” – fu modificato in: “Il potere appartiene ai bianconeri”. Tuttavia, di lì a poco, si sarebbero fatte avanti le fazioni appartenenti alla corrente politica opposta. I Panthers si vestivano come i loro colleghi di ultra-destra della Lazio: «Giacche mimetiche, jeans infilati negli anfibi, bandane sulla fronte come gli Apache, la bandiera come pretesto per usare l’asta a mo’ di manganello…». Fra i gruppi ultrà della Juventus si erano create diverse alleanze di natura politica, ma era sempre presente un nugolo di irredenti fedeli al personaggio di Mussolini, e che con il tempo avrebbe assunto il comando della curva.

Un altro dei gruppi juventini delle origini era chiamato Fossa dei Campioni. Aveva come simbolo un elmetto alato, e ovviamente, un tricolore sulla corazza. Il leader, Antonio Marinaro, era nato a Melfi, in Basilicata. Nessuno sa perché Antonio venisse soprannominato Jackie l’Ultrà. Alcuni dicono che fosse una semplificazione di Jekyll, perché quest’uomo dalla stazza mastodontica con dei baffi alla Freddy Mercury aveva due personalità: era gentile e aggressivo, elegante e chiassoso. Come tanti altri, era un capo ultrà che non aveva trovato il suo senso di appartenenza nel luogo di origine, ma in quello d’adozione. Essere un ultrà significava anche sapersi affermare, nonostante fosse un immigrato. Lo stesso valeva per Pino Fridd n’Pitt (Pino cuore freddo), un teppistello nato a Foggia. All’inizio della stagione 1977-78 assisté alla sua prima partita di campionato, in cui la Juve vinse contro il Foggia per 6 a 0, e da lì decise di passare dalla parte dei vincitori.

Lentamente la Fossa dei Campioni si trasformò in un nuovo gruppo chiamato i Fighters. Il loro capo storico era Beppe Rossi. Con la sua capigliatura folta, il naso aquilino e il sorriso smagliante, era un personaggio che in dialetto definivano baccaglione, un tipo persuasivo. I Fighters tennero come simbolo l’elmetto, aggiungendo delle chiavi inglesi incrociate come fossero delle ossa su una bandiera pirata (le chiavi inglesi erano l’arma preferita dagli ultrà, potenti ma quasi mai letali). Rossi, come tanti altri, era ossessionato dall’idea di creare una tifoseria d’ispirazione inglese: fare a meno dei timpani e contare solo sulle mani, sulla voce e sulle sciarpe. Amava i Pink Floyd e l’inno del Liverpool, You’ll Never Walk Alone.

Le coreografie della Juventus dell’epoca erano piuttosto semplici. La nonna di Rossi metteva da parte delle assi di legno che raccoglieva, così che il nipote potesse ricavarci delle bare che simboleggiavano la morte degli avversari. Una volta, un ultrà trovò per caso centinaia di poster di Bobby Solo nuovi di zecca, quindi decise di usarli nella coreografia. Diversamente da oggi, l’atteggiamento dei protagonisti dell’epoca era piuttosto ingenuo, considerando che l’unica forma di incentivo non era il denaro, ma la passione per la squadra e per i fratelli ultrà.

Secondo Beppe Franzo – da sempre ultrà della Juventus – essere un ultrà era una «visione spirituale dell’esistenza». Ma questa presunta spiritualità era per certi versi simile a quella delle camicie nere di Mussolini, che all’inizio del ventesimo secolo l’avrebbero trasformata in violenza. Franzo parla in maniera molto schietta di quello che è sempre stato il codice degli ultrà: «Non indietreggiare mai, non abbandonare il tuo compagno in battaglia, picchia duro […] nel corso dei secoli riaffiora la natura degli uomini, incontrollata e incontrollabile».

A differenza dei loro rivali della Juventus, i tifosi del Torino erano abituati alle sconfitte. «Siamo stati», scrissero due sostenitori, «massacrati dal destino […] siamo trapezisti del pianto, adepti delle fregature da prendere, acrobati dell’arte di godere con poco». Un giocatore del Toro, citando una frase che aveva sentito, fu molto più diretto: «Tifare per il Toro è come masturbarsi con la sabbia».

Un alone di leggenda circondò tanto gli ultrà del Toro quanto la loro debole squadra. Strega era un leader duro come la roccia che diede avvio alla tradizione di vestirsi da prete per offrire l’estrema unzione alla Juventus prima dei derby. Sogliola era stato talmente tante volte in carcere che annoiava i compagni durante le trasferte, descrivendoglielo nei minimi dettagli ogni volta che ne vedeva uno durante il viaggio. Il Pittore faceva degli striscioni così lunghi che doveva sedersi con la macchina da cucire vicino alla finestra, con il tessuto che penzolava da un appartamento all’altro, coinvolgendo le persone nelle sue creazioni color granata. Si racconta spesso la storia di quella volta che, durante una partita, era talmente nervoso che afferrò le ringhiere ghiacciate degli spalti e ci rimase attaccato. L’unico modo per liberarlo era usare il caro vecchio “solvente alpino”: l’urina.

La ragione per cui tutti questi personaggi restano nella memoria collettiva, come per la Lazio due anni prima, è la loro posizione di capi ultrà in un momento di gloria calcistica. Dopo decenni di sofferenza, il Torino cominciò a riflettere non solo la passione dei suoi tifosi, ma anche il loro prestigio dovuto al successo inaspettato.

Molti dei giocatori all’inizio della stagione 1975-76 avevano militato nella squadra per tutta la loro carriera. Paolo Pulici rimase al Torino per quindici anni, mentre il capitano Giorgio Ferrini, ritiratosi da poco, lavorava come allenatore in seconda. Non era esattamente brutto, ma aveva un aspetto da cattivo: la pelle butterata, un naso a punta e i capelli sciupati. Era stato nominato La Diga per via delle gomitate che aveva dato durante la sua carriera, che erano così efficienti da non far passare nessun attaccante. In difesa c’era Vittorio Caporale, e l’allenatore era Gigi Radice, chiamato Il Tedesco per via degli occhi di ghiaccio e del carattere freddo. Come Maestrelli prima di lui, era un commissario tecnico che si era portato dietro giocatori da altre squadre, come Patrizio Sala, che conosceva e di cui si fidava. Gli ultrà si affezionarono molto ai giocatori grazie alla loro onestà e alla loro testardaggine. Francesco Ciccio Graziani venne corteggiato dal presidente del Napoli ma non si fece impressionare dall’offerta in denaro: «Mi dispiace, signor presidente, ma ho dato la mia parola e ne ho una sola».

I giocatori erano molto superstiziosi e, più vittorie accumulavano, più frequenti divenivano i piccoli gesti per propiziare la fortuna. Paolo Pulici – soprannominato Pupi – insisteva per uscire dallo spogliatoio per ultimo e ogni giocatore si sedeva sempre nello stesso posto sul pullman. Il legame con i tifosi era rappresentato da una ragazza che si affacciava sempre dal balcone per salutare la sua squadra ogni volta che era in partenza per lo stadio. Se non si faceva vedere, dovevano fermare il pullman e aspettare. I calciatori la chiamavano bagna cauda in onore al piatto fumante al sapore di acciughe preparato da ogni piemontese che si rispetti. Quello degli ultrà è sempre stato un mondo dominato dagli uomini, ma tra le fila degli ultrà del Toro, come in ogni altra tifoseria, vi era un contingente di donne che finivano per essere oggetto delle solite fantasie maschili: dee, sorelle, madri e compagne. Come scrisse un tifoso appassionato del Toro con una prosa quasi erotica, queste tifose erano «le sacerdotesse che alimentavano il fuoco della passione».

Fu un campionato sensazionale sia perché il Toro vinse lo scudetto sia perché lo fece rimontando la Juve che era sopra di sei punti, in un’epoca in cui ne venivano assegnati solo due per ogni vittoria. Alla fine della stagione autunnale, per gli odiati rivali vincere il trofeo si preannunciava come la solita passeggiata. Ma poi, il 7 dicembre, il Toro vinse 2 a 0 contro la Juve. Batté il Milan al San Siro e spazzò via il Verona per 4 a 2. Fu quando la Juve venne sconfitta per la seconda volta nella partita di ritorno del 28 marzo che la gente cominciò a crederci sul serio. Il Toro segnò nove gol in due partite – contro Fiorentina e Cagliari – e si aggiudicò il titolo in perfetto stile torinese, pareggiando all’ultimo match della stagione e segnando tutti e due i gol (uno per loro stessi e un’autorete in favore degli avversari).

L’estasi era totale. Il Pittore attaccò cinquemila adesivi tricolore per tutta la città. I clacson suonarono per tutta la notte. Molti ultrà si recarono al lampione dove aveva perso la vita Gigi Meroni. In quell’estate ricca di emozioni quasi tutti andarono in pellegrinaggio alla basilica di Superga a piangere di gioia e di dolore. Ma stiamo parlando del Torino, e quel dolore sarebbe tornato. Nel giro di pochi mesi dalla vittoria dello scudetto, La Diga – Giorgio Ferrini – fu colto da un aneurisma cerebrale e morì all’età di trentasette anni.