Oggi: Siena-Cosenza (finale Lega Pro)
Mancano dieci minuti al fischio finale e il risultato è sempre sul 2 a 1. Marotta, l’attaccante barbuto del Siena, sta sfacchinando. L’atmosfera è tesa e cantare è l’unica cosa da fare: «Portaci via da questa merda di categoria», urlano fino a sgolarsi.
Alain Baclet è appena entrato in campo dopo una sostituzione. Lungo la corsa per la finale ha sempre segnato, e ci aspettiamo che lo farà anche oggi. È un giocatore francese alto e completamente pelato, capace di fare gol su cross di testa o di piede. Tutti sembrano esausti tranne lui. All’improvviso, arriva un cross lungo e Baclet corre davanti a tutti e segna di destro colpendo la parte interna del palo. Lo stadio esplode. 3 a 1.
U Lisciu, dietro di noi, sta abbracciando MonSicca. «Va tutto bene», piange, «Tutto bene, tutto bene».
I ragazzi saltellano su e giù, cadendo dai sedili ergonomici con quei fastidiosi bordi di plastica. Vindov corre intorno alle gradinate, schiaffeggiandosi la fronte. Susi Sete sta scattando una serie infinita di foto per provare, nei decenni a venire, che lei c’era. Una squadra che solo a ottobre era penultima, ora aveva appena vinto i playoff di tre divisioni di Serie C diverse (Nord, Centro e Sud).
Quando quel terzo gol venne realizzato, tutti allo stadio ebbero la sicurezza che il Cosenza sarebbe tornato in Serie B. Il Siena aveva combattuto strenuamente per tutto il secondo tempo e adesso – a pochi minuti dalla fine – aveva subito una terza rete. Non aveva più via di scampo.
Da un punto di vista superficiale, quell’estasi comune alla curva era dovuta alla promozione: non solo della squadra, ma della curva sulla scena nazionale. Ma quello era solo il significato superficiale di quel turbinio di emozioni. Era un trionfo collettivo che aveva riunito tutta la tifoseria, anche i gruppi ultrà che si facevano la guerra. E per le migliaia di cosentini che vivevano al Nord, significava – con la loro squadra finalmente in un campionato nazionale – che avrebbero visto i loro amici in occasione di molte più partite. Guardandoti intorno, mentre i tifosi sbalorditi uscivano dallo stadio, riuscivi a vedere i volti familiari dei sostenitori della prima ora: Paride, Claudio, Ciccio e Padre Fedele… e come tutte le riunioni, ci si ricorda anche di chi non è presente. Non solo Canaletta (in sciopero personale in segno di protesta contro l’ingaggio di Leonardo Perez, un fascista dichiarato con il braccio destro sempre teso) ma tutti gli altri assenti: genitori morti, Piero, Denis Bergamini, Ettarù, e tutti gli altri, le vittime dei terremoti e delle overdosi, di incidenti d’auto e di cancro. Tifare è un altro modo di commemorare i vecchi tempi e i morti.
Ciò che univa queste persone non era solo la loro passione per il calcio in sé, ma i segni che questo sport aveva lasciato nelle loro vite. Quell’incredibile vittoria aveva anche una connotazione politica. Forse non dovremmo sorprenderci se oggi la stragrande maggioranza delle curve è in mano all’estrema destra. La brama di assolutismo degli ultrà – per dei princìpi su cui non scenderanno mai a compromessi – quel desiderio di compattezza che provano quando gli viene detto che tutto intorno a loro si sta disgregando, la difesa del loro territorio e la conquista dello spazio altrui, l’identità espressa attraverso i colori e il vestiario, l’amore per l’ordine in un paese spesso caotico: questi elementi si allineavano alla perfezione con la raffazzonata filosofia propugnata da un ex-socialista di Predappio negli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale. Ma la vittoria della città bruzia in quella finale sembrava offrire una lontana e forse ingenua speranza: che la definizione di quelle parole estremiste – ultrà, oltre, outré, altro – non divenissero appannaggio esclusivo di una sola fazione di estremisti. Questi anarchici e convinti antifascisti ultrà del Cosenza rappresentavano la magra consolazione che forse nelle curve ci fosse ben altro rispetto all’ordine fittizio e all’intolleranza razziale. E una vittoria per questa città calabrese semi sconosciuta, contro un’affascinante provincia toscana che in passato fu la fondatrice del capitalismo bancario, è il chiaro esempio che a volte il calcio è in grado di sovvertire l’ordine gerarchico prestabilito e prestare soccorso ai derelitti.
Mentre usciamo dallo stadio, di fronte a noi vediamo una maglietta con la scritta in dialetto: “Tu insisti, io persisto, u vu capì ca risistu!”.