Arezzo, 11 novembre 2007

 

 

 

 

 

 

 

Forse l’odio tra gli ultrà e le forze dell’ordine si sarebbe gradualmente dissipato se un’altra morte, quell’anno, non lo avesse inasprito. Gabriele Sandri, detto Gabbo, era un dj ventiseienne originario dell’elegante quartiere romano della Balduina. Era alto, coi capelli biondo-rossicci, sempre sorridente e ben vestito. Suo padre aveva un negozio di abbigliamento e a lui piaceva mettere in mostra gli ultimi tatuaggi. Sua madre faceva la direttrice del casting a Cinecittà e Gabbo aveva visto tutte le vecchie commedie ambientate nella capitale. Stava iniziando a procacciarsi serate come dj in tutto il Paese, specialmente in Sardegna, dove avrebbe suonato per tutta l’estate.

Gabbo era un tifoso sfegatato della Lazio. Era cresciuto guardando le partite degli anni d’oro, all’inizio del Duemila, quando la squadra era allenata da Sven-Göran Eriksson e sembrava invincibile. Indossava una sciarpa dei Vikings ma aveva partecipato a varie manifestazioni degli Irriducibili, come quella per protestare contro la cessione di Beppe Signori al Parma nel 1994. Era anche amico di un paio di giocatori della under 21, che aveva conosciuto durante le sue serate in discoteca. Molti suoi amici facevano parte degli In Basso a Destra (un nome che alludeva non solo alla loro posizione sugli spalti ma anche al loro orientamento politico).

La sera prima della partita restò a mettere musica al Piper quasi fino all’alba. Poi andò a casa, si fece una doccia e uscì di nuovo per incontrare gli amici a piazza Vescovio, davanti al pub Excalibur. Nove di loro, su due automobili, erano diretti a Milano a vedere la Lazio giocare contro l’Inter. Gabbo salì su una Renault Scénic grigia guidata dal suo amico Marco, conosciuto da tutti come Ovo. Faceva parte di Forza Nuova ed era stato arrestato per possesso di arma da taglio a una partita della Lazio nell’aprile del 2006.

Un paio d’ore dopo la partenza fecero una sosta alla stazione di servizio Badia al Pino Est, a sud-ovest di Arezzo. Nello stesso autogrill c’erano cinque tifosi dello Juventus Club di Roma, diretti a Parma per sostenere la loro squadra. Gli insulti tra i due gruppi furono inevitabili, e il codice ultrà esige che dopo le parole si passi ai fatti. Ci fu una zuffa.

Un agente della polizia stradale aveva udito lo schiamazzo dall’altra parte dell’autostrada. Accese la sirena e si avvicinò per controllare cosa stesse succedendo. Gli ultrà si sparpagliarono: gli juventini risalirono in macchina e accelerarono, frenando solo per aprire uno sportello con cui colpirono uno degli amici di Gabbo. I laziali si misero a inseguire l’auto a piedi, sperando di riuscire almeno a romperle un finestrino, ma si era già allontanata. La zuffa terminò con la stessa rapidità con cui era iniziata.

Gabbo era seduto sul retro della Scénic, al centro tra i due amici. Mentre si accingevano a ripartire Luigi Spaccarotella, l’agente della polizia stradale, gli urlò di fermarsi. Erano le 9.18. Spaccarotella, sovreccitato, tirò fuori la sua Beretta semiautomatica 92sb. La macchina era a sessantasei metri di distanza. Il proiettile, viaggiando a 385 metri al secondo, perforò la fiancata della Scénic e si conficcò nel collo di Gabbo. Gli altri passeggeri si accorsero a malapena di quello che era successo. Avevano sentito solo un rumore, nient’altro.

Ma quando si resero conto dell’accaduto, erano già in autostrada diretti a nord. Gabbo era sprofondato nel sedile, respirava a fatica, e gli usciva del sangue dal collo e dalla bocca. Chiamarono un’ambulanza e presero l’uscita successiva, ma Marco era così agitato che andò a sbattere contro le barriere del casello. Quando aprirono le portiere dell’auto, gli infermieri capirono che non c’era più nulla da fare. Gabbo era morto.

Quella domenica, prima dell’ora di pranzo, la notizia della sua morte venne resa pubblica. Un comunicato stampa della polizia dichiarava che l’agente si era limitato a sparare in aria, ma venne presto smentito. C’erano decine di testimoni oculari che avevano visto Spaccarotella mettersi in posizione, raddrizzare le braccia e prendere la mira. La voce si sparse in fretta e mentre gli ultrà si dirigevano agli stadi, alimentavano la rabbia reciproca raccontandosi i vecchi massacri della polizia.

Gli ultrà non avevano mai negato di essere violenti, ma avevano sempre sostenuto con fermezza che la violenza veniva da entrambe le parti, e quell’inconsistenza nelle denunce e nei provvedimenti che si prefiggevano di sconfiggerla li faceva infuriare. Nel febbraio del 2007 il campionato era stato sospeso due settimane per commemorare l’ispettore Raciti, e l’idea che non sarebbe avvenuta la stessa cosa ora che i ruoli si erano invertiti – e un poliziotto aveva ucciso un ultrà – gli sembrava completamente illogica. Gli ultrà dell’Inter, gemellati con i laziali, poche ore dopo la morte di Gabbo esposero uno striscione che diceva: “Per Raciti fermate il campionato, la morte di un tifoso non ha significato”. I tifosi del Parma ne innalzarono uno egalitario, riecheggiando quello scritto nel 1993 per commemorare un’altra presunta vittima della violenza della polizia: “La morte è uguale per tutti”.

Le proteste più violente scattarono a Bergamo e a Roma. Il Bocia e i suoi atalantini decisero che a Bergamo si doveva fermare la gara a ogni costo. Pochi minuti dopo l’inizio della partita in casa contro il Milan, una ventina di ultrà incappucciati e col volto coperto dalle sciarpe iniziarono a prendere a calci le lastre di plexiglass spesse tre centimetri che li separavano dall’erba. Si gonfiavano come pellicola trasparente sotto i loro colpi, e alla fine si ruppero in due punti. Presto si erano formati due grossi buchi. Dopo una rapida consultazione tra la polizia e i giocatori, si decise di sospendere la partita.

Lottando per il rinvio delle partite in segno di rispetto per un tifoso morto, gli ultrà stavano assumendo una posizione originale. Fino all’inizio degli anni Duemila, si vantavano di essere i più ferventi devoti del tempio del calcio eppure ora, proprio come durante il “derby del bambino morto”, stavano di fatto protestando per fermare la partita. Un po’ come un alcolista che non solo passa al pub, ma ci protesta contro. Di tutte le persone presenti allo stadio erano loro a chiedere che il colosso inarrestabile del calcio si fermasse per un istante in segno di lutto. Era al tempo stesso logico e paradossale: non si vedevano come apostati, ma come fedeli che volevano far tornare le partite alla loro antica sacralità fermandole con la violenza.

Quella sera ci furono rivolte gravissime sia a Roma che a Milano. Anche chi non conosceva Gabbo credeva fosse morto un compagno. La partita Roma-Cagliari si doveva giocare quella sera ma già nel tardo pomeriggio quattrocento tifosi – sia romanisti che laziali – stavano sollevando il caos. Tra lo Stadio Olimpico e Ponte Milvio vennero rovesciati cassonetti e motorini, venne dato fuoco a un autobus e furono invasi gli uffici del coni, dove vennero distrutte finestre, computer e orologi. Furono assediati tre commissariati. Era un caos organizzato. «Non è facile assaltare tre posti di polizia e il coni», disse il ministro degli Interni, «se non con una strategia militare».

La polizia era sempre stata considerata dagli ultrà come il braccio armato della classe dirigente, e visto che gli ultrà si consideravano il braccio armato della resistenza, lo scontro tra le due fazioni fu inevitabile. Come scrisse Valerio Marchi nel saggio Sono ultrà e sono contro: «Se per la polizia l’ultrà è una figura da controllare e reprimere in quanto eversiva, e non per quanto può realmente commettere, per l’ultrà il poliziotto fa parte di una terza tribù che indossa la casacca del sistema e che picchia, arresta e diffida non per ristabilire l’ordine ma per difenderne gli interessi». È un punto di vista sostenuto da quasi tutti gli interni al movimento. Come dice uno dei personaggi de I furiosi di Nanni Balestrini: «Anche i poliziotti sono bande di ultrà, anche i carabinieri, e come da noi ci son anche lì gruppi che sono più affiatati, ci sono quelli che vogliono picchiare sempre».

Se un’esacerbata politicizzazione degli spalti creava divisioni (sia interne alla gradinata e più in generale nell’intero movimento) l’odio per la polizia univa tutte le fazioni politiche in curva, dall’estrema destra all’estrema sinistra. Cantavano tutti: «Frana, la curva frana sulla polizia italiana, frana, la curva frana su quei figli di puttana», una canzone scritta dagli Erode, un gruppo della scena post-punk di sinistra originario di Como. Osservandolo dall’esterno, un disprezzo tanto viscerale per le forze dell’ordine appariva quasi di stampo mafioso, delegittimandole e rifiutando allo stesso tempo ogni sorta di collaborazione. Ma se lo si osserva dall’interno del mondo ultrà, quello sdegno nasceva da un profondo senso di ingiustizia. Avrebbero potuto elencare una lunga lista di compagni caduti vittima della brutalità della polizia: Giuseppe Plaitano ucciso da un proiettile della polizia nell’aprile del 1963; Stefano Furlan, il tifoso del Trieste morto nel 1984 in seguito alle lesioni cerebrali inflitte da un manganello; Celestino Colombi, il tifoso dell’Atalanta ucciso da un attacco cardiaco durante una carica della polizia nel 1993. La stessa cosa era successa nel 1998 a Fabio Di Maio, un tifoso del Treviso, e nel 2001 ad Alessandro Spoletini, un tifoso della Roma, finito in coma dopo essere stato pestato con un manganello. Per mesi i quotidiani riportarono la notizia come esempio della violenza degli ultrà, e non della polizia. A Verona, nel 2005, il tifoso del Brescia Paolo Scaroni – alpinista e contadino – venne picchiato dagli sbirri senza che stesse accadendo alcun disordine. Anche lui passò un mese in coma e quando alla fine ci fu un’indagine, parve subito evidente che le dichiarazioni dei testimoni erano state inquinate e le riprese delle telecamere di sorveglianza erano andate disperse. Anni dopo la corte stabilì che si era trattato di un «pestaggio gratuito e immotivato», ma, visto che i poliziotti non indossavano nulla che potesse identificarli, fu impossibile individuare il responsabile. «Oggi la cosa che mi fa più male», disse Scaroni anni dopo in una intervista all’«Espresso», «è che mi hanno cancellato l’infanzia e l’adolescenza. Ho perso tutti i ricordi dei miei primi vent’anni di esistenza».

In questi, e in molti altri casi simili, la versione della polizia veniva ripetuta ad nauseam da giornalisti sfaccendati che non volevano pregiudicare i loro contatti in questura. Continuavano a susseguirsi i soliti luoghi comuni sui teppisti ribelli, suggerendo che anche nei casi in cui erano le vittime, questi rivestivano comunque il ruolo di capro espiatorio. Ma ciò che faceva infuriare gli ultrà non era tanto l’efferatezza – quella faceva parte del gioco – era il fatto che veniva raccontato soltanto un lato della storia (la loro violenza, e mai quella della polizia), e che ad accogliere i loro gesti ci fossero sempre e solo aspre sentenze mentre alla polizia veniva sempre garantita l’impunità. Sembrava che il giornalismo e la giustizia si fossero alleati contro di loro. Questo diede vita a un circolo retroattivo: più gli ultrà avevano l’impressione che i cronisti stessero riportando soltanto la versione della polizia, più cantavano cori simili al famoso «Giornalisti terroristi», convincendo così la maggior parte degli inquirenti che fosse più sicuro scovare le proprie fonti in questura che non sugli spalti.

Spesso le vittime della polizia non erano ultrà ma semplici cittadini, come Federico Aldrovandi (ucciso dalla polizia a Ferrara lo stesso giorno in cui era stato picchiato Scaroni) o Giuseppe Uva (misteriosamente morto dopo essere stato arrestato, a Varese, per aver spostato delle transenne stradali per scommessa, mentre era ubriaco) o Stefano Cucchi (anche lui morto durante la detenzione). Questi nomi si aggiungevano agli altri commemorati dagli ultrà durante le partite. “La legge non è uguale per Cucchi”, diceva uno striscione torinese. Quando nel marzo 2007 una nuova normativa stabilì che gli striscioni dovessero essere approvati dalle autorità, gli ultrà la vissero come una repressione della libertà di espressione. Quando nel novembre del 2012 un giocatore del Cosenza mostrò una maglia con su scritto “Speziale è innocente”, venne bandito dai campi da calcio per tre anni.

Per la polizia, comunque, il mondo ultrà appariva come un collante, un adesivo che teneva assieme il sottobosco criminale. Era un mondo in cui ora i colori della squadra passavano in secondo piano rispetto al colore dei soldi. Nel maggio del 2007 sette membri dei Guerrieri del Milan vennero arrestati per estorsione, violenza e minacce alla squadra che dicevano di sostenere. All’amministratore delegato del Milan, Adriano Galliani, venne assegnata una scorta della polizia. Accuse simili erano state in passato rivolte agli ultrà romanisti quando due ex-capi dell’organizzazione di estrema destra fuan (Fronte Universitario d’Azione Nazionale) tentarono di estorcere biglietti e pacchetti trasferta alla squadra.

Il tradizionale antagonismo fra i numerosi gruppi ultrà lasciò spazio alle somiglianze politiche. Tutte le maggiori tifoserie della Lazio e della Roma erano ormai apertamente fasciste. Dal lato della Roma c’erano i Tradizione Distinzione, i Boys e i Bisl (Basta infami, solo lame). Oltre agli Irriducibili, i laziali avevano gli Only White e gli In Basso a Destra. E le cose non erano tanto diverse a Milano. Kassa e Peso dei Guerrieri del Milan avevano aperto un locale fascista chiamato Lux. Un altro dei Guerrieri venne processato per tentato omicidio. Todo, il capo degli Irriducibili dell’Inter, era il fondatore di un club estremista chiamato Black Heart e aveva fatto parte di Azione Skinhead. Un anno dopo, quando un incendio distrusse la sede del Black Heart, prese in affitto da un ex-terrorista dei nar un altro locale in via Pareto. Fu proprio lì che Todo aprì un negozio chiamato Il Sogno di Rohan (di nuovo Tolkien) che vendeva cimeli neonazisti. Nel 2011, nello stesso stabile, venne fondata un’altra organizzazione neonazista: Lealtà Azione.

Spesso era ai funerali che si riusciva a intravedere quanto l’originario separatismo degli ultrà – quello che teneva a bada i rivali, gli affari e la politica – fosse stato rimpiazzato dalla collaborazione. Quando Paolo Zappavigna, capo dei Boys della Roma, morì in un incidente in moto nel 2006, la sua sepoltura fu un’occasione di ritrovo non solo per gli ultrà della Roma ma per tutta la fratellanza fascista della capitale. Lo stesso accadde a Milano nel 2007, quando venne seppellito Nico Azzi, un ex-terrorista della Fenice. Al suo funerale partecipò uno dei politici di spicco di Alleanza Nazionale, Ignazio La Russa, assieme ai rappresentanti di quasi tutti i gruppi ultrà di Milan e Inter. Sembrava che, invece di essere “oltre”, molti ultrà fossero ora proprio al centro del mondo della politica e degli affari.

 

Quel fatidico anno di scontri fra gli ultrà e la polizia cambiò tutto. Lo Stato italiano varò una serie di provvedimenti che lentamente smantellarono e fratturarono il movimento ma, a dire il vero, i tentativi legislativi di esercitare controllo erano iniziati un paio di anni prima. A seguito del cosiddetto decreto Pisanu ogni stadio con più di diecimila posti a sedere doveva avere tornelli elettrici, telecamere di sorveglianza, e doveva provvedere alla perquisizione obbligatoria di tutti i tifosi. Dopo la morte di Filippo Raciti, nell’aprile del 2007, fu promulgata una nuova legge che impediva la vendita di più di quattro biglietti a persona. I Daspo vennero aumentati, e ora si poteva essere banditi dagli stadi per cinque anni solo per aver acceso un petardo. Contro i tifosi venivano impiegate misure antimafia che permettevano la sorveglianza e la confisca degli oggetti in loro possesso se venivano giudicati violenti. Ci sarebbero state pene detentive da uno a tre anni per chi infrangeva i Daspo e da uno a quattro anni per l’uso o il lancio di materiali pericolosi. Scavalcare le barriere equivaleva a un anno di prigione e a una multa compresa fra i mille e i cinquemila euro. Anche gli arresti potevano essere eseguiti in modo diverso: dopo la flagranza, la nuova terminologia prevedeva la «quasi flagranza», vale a dire che gli arresti potevano essere compiuti fino a quarantotto ore dopo l’evento, quando l’ultrà incriminato si trova già molto lontano dal gruppo. Le sentenze prevedevano dai quattro ai sedici anni di prigione per le aggressioni ai pubblici ufficiali e, peggio ancora, per gli ultrà c’era l’Articolo 9, secondo il quale poteva essere impedito l’acquisto di biglietti a chiunque fosse sospettato di «episodi di turbolenza» nelle partite precedenti. Il sospetto e la congettura, e non una sentenza definitiva, erano diventati le basi sulle quali impedire agli ultrà l’accesso al loro tempio, e servirono soltanto ad accrescere il rancore da entrambe le parti.

Ma la misura più scaltra imposta dallo Stato fu l’introduzione, nell’agosto del 2009, della Tessera del Tifoso, una sorta di carta fedeltà rilasciata dai club senza la quale non era possibile acquistare i biglietti per cui era obbligatoria (una misura adottata in genere per le trasferte o per le partite ad alto rischio). Molte società videro un’opportunità finanziaria – per di più sancita dalla legge – e trasformarono dunque le loro tessere in carte di debito, permettendo ai tifosi di acquistare il merchandising nei negozi ufficiali della squadra.

La tessera era l’antitesi dell’ideologia ultrà. Molti ebbero l’impressione che fosse un modo per schedare i tifosi e allo stesso tempo una deriva capitalistica del loro tempio, ma le opinioni sulla linea da seguire erano contrastanti. Alcuni gruppi, come quelli veronesi, decisero di adottare la tessera in massa mentre in altre curve gli ultrà della vecchia guardia pensavano fosse una battaglia che non valeva la pena combattere, e incoraggiavano le giovani teste calde a fare la tessera e farla finita.

Ma i puristi si opposero. A ogni partita spuntavano nuovi cori contro quell’odiata tessera, tra i quali «Io non mi tessero» e «Ultrà tesserato, servo dello Stato». Curve che fino a poco prima erano unite si ritrovarono all’improvviso divise, e ognuna delle due fazioni accusava l’altra di tradimento. Un gruppo veniva accusato di essersi venduto allo Stato scegliendo di obbedire alle regole, e l’altro di aver perso di vista il punto cardinale del mondo ultrà – la presenza – e di aver smesso di sostenere la squadra. Menzionare la tessera del tifoso durante una conversazione in un contesto ultrà era diventato un po’ l’equivalente verbale di togliere la sicura a una bomba a mano.

Nel corso degli anni erano stati fatti diversi tentativi per unire il mondo ultrà. C’erano stati convegni e vertici di pace. L’ala nazionalista del movimento aveva provato a creare un gruppo ultrà a sostegno della nazionale sotto l’egida (di estrema destra) dei Vikings ma nessuna di queste iniziative riscosse particolare successo a causa della natura frammentaria della tifoseria italiana. E se la tessera del tifoso divideva gli ultrà nella prassi, paradossalmente a livello teorico li univa. La tessera istigava un senso di repressione che, stando a Elias Canetti, è vitale all’atteggiamento di sfida del gruppo. «Fra le vene più salienti nella vita della massa», scrisse, «c’è qualcosa che chiameremmo forse senso di persecuzione: una particolare e irosa suscettibilità, eccitabilità, nei confronti di nemici designati come tali una volta per tutte. […] Le loro azioni sono sempre intese come se scaturissero da un’intenzione preconcetta di distruggerla apertamente o subdolamente».

Era come se gli ultrà avessero trovato una nuova vocazione: combattere non solo l’uno contro l’altro ma contro la repressione. Per loro era normale viaggiare centinaia di chilometri per vedere le partite ma non possedendo la tessera – e di conseguenza il biglietto – sarebbero rimasti fuori dallo stadio a proclamare a viva voce di essere i «non-tesserati». Gli ultrà rivali li avrebbero applauditi dall’interno dello stadio e con la stessa frequenza la polizia, o gli steward, avrebbero infranto le regole permettendogli di entrare comunque, perché avrebbero fatto meno danni dentro che fuori.

 

Pino Fridd’n Pitt, il capo dei Drughi della Juventus, venne rilasciato di prigione nel febbraio del 2005, dopo aver scontato la pena per la rapina a mano armata in cui era rimasto ucciso un carabiniere. La sua notorietà era tale che la domenica successiva gli ultrà della Roma, in trasferta a Torino, esposero uno striscione con su scritto: “Ciao Pino. Bentornato”.

Ma lui non gradiva le luci dei riflettori. Era un uomo di poche parole, così silenzioso da poter diventare snervante. Di solito restava assorto a osservare e ascoltare, ma quando apriva bocca obbedivano tutti, perché si fidavano della sua arguzia e perché non valeva la pena disobbedirgli. Era stato dentro troppo tempo e il mondo fuori ormai gli sembrava strano: più veloce ma più superficiale, più ricco ma in qualche modo povero. Anche il mondo ultrà era diventato quasi irriconoscibile. Nel calcio, si rese conto, ora giravano tanti di quei soldi che anche una piccola fetta degli introiti poteva bastare a rendere ricco un capo ultrà.

In assenza di Pino, i Drughi avevano perso la loro storica supremazia delle gradinate ma, ora che era uscito di prigione, le placche tettoniche degli spalti si erano rimesse in movimento. Nell’estate del 2005 un ultrà di un gruppo juventino rivale venne accoltellato. La faida andò avanti per oltre un anno. Nell’estate del 2006 due Drughi (fra cui Pino) vennero accoltellati e cinquanta tifosi arrestati in seguito agli scontri tra i vari gruppi juventini ad Alessandria. Parte dei gruppi più famosi si spostarono nella Curva Nord del vecchio Stadio Delle Alpi, lasciando i Drughi a litigarsi con i Bravi Ragazzi il controllo della Sud. Nel marzo del 2009 Pino venne di nuovo ferito da tre teppisti che la polizia riteneva appartenere ai Bravi Ragazzi. Al capo dei Bravi Ragazzi, Andrea Puntorno, venne rotto un braccio durante uno scontro. Umberto Toia – capo di Tradizione, un altro gruppo ultrà – venne picchiato fuori dal suo bar (il Black & White) e venne sparato anche qualche colpo contro le serrande del locale.

A contendersi le decine di migliaia di euro derivanti dal bagarinaggio non erano più soltanto i gruppi ultrà. Il crimine organizzato iniziò a guardare con invidia quell’attività in cui si potevano fare soldi facili. Ad attirarli però non erano soltanto i potenziali profitti, ma l’impunità che li accompagnava. Il bagarinaggio non era un reato (nel gergo tecnico veniva definito come «un’infrazione amministrativa») e comportava un rischio pressoché insignificante paragonato allo spaccio di droga, fornendo inoltre anche la possibilità di investire e riciclare il capitale accumulato dalle attività illecite. Qualche poliziotto ipotizzò che le aggressioni ai capi ultrà non venissero operate soltanto dagli schieramenti rivali, ma anche dai mafiosi che non avevano ricevuto il rientro economico che si aspettavano dai biglietti in cui avevano investito.

Dal canto loro, i diversi gruppi ultrà tolleravano i mafiosi sugli spalti perché contribuivano a mantenere l’ordine: la loro presenza incuteva un tale timore che i capi ultrà si sentivano protetti, se non addirittura intoccabili. Speravano che rimanendo al fianco di quelle losche figure non ci sarebbero più state braccia rotte e coltellate in curva inoltre. Per quegli ultrà che come Andrea Puntorno erano anche spacciatori, la mafia offriva nuovi rifornimenti, contatti e canali di distribuzione. Due mondi che sembravano avere parecchie cose in comune ora, in alcune curve, stavano diventando sempre più vicini.

Il risultato fu che ogni gruppo ultrà della Juventus stipulò alleanze con un paio di clan mafiosi. Puntorno era vicino alla famiglia siciliana Li Vecchi e al clan calabrese dei Macrì. Non era che i capi ultrà nascondessero questi legami. Sbandierare ai quattro venti il loro collegamento col sottobosco criminale giocava a vantaggio di tutti i capi tifoseria, accrescendo esponenzialmente il terrore che erano in grado di instillare. Loris Grancini, il capo dei Vikings juventini una volta, vantandosi, affermò: «È vero. Sono vicino al clan [calabrese] dei Rappocciolo». Lo stesso Pino Fridd n’Pitt, avvalendosi delle amicizie strette in prigione, si avvicinò a Placido Barresi, capo del ramo della ’Ndrangheta che operava in Piemonte. Anni dopo, un attempato Barresi ammetterà che la «Calabria Unita» si era infiltrata negli spalti juventini.

Nel 2010 i servizi segreti italiani – l’Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna (aise) – sapevano che le gradinate juventine erano diventate una casa non solo per gli estremisti di destra ma anche per la criminalità organizzata. L’agente incaricato delle indagini aveva bisogno di un informatore all’interno di quel mondo, e l’uomo che scovò era un tipo amichevole e ben inserito all’interno dei Drughi: Ciccio Bucci.

In quel periodo, dopo anni di affari frenetici e fughe a notte fonda per andare a Torino, Bucci e sua moglie si erano allontanati. Il calcio e le telefonate sembravano interrompere sempre ogni cosa. A casa si vedeva di rado e quando c’era sua moglie aveva l’impressione che fosse troppo indulgente nei confronti di loro figlio Fabio, viziandolo come fanno di solito i genitori assenti. Gabriella non era contenta quando Bucci portava il figlio in città a dormire dagli amici. Alla fine si separarono, pur restando in buoni rapporti, e Bucci comprò un piccolo appartamento a Margarita, un paesino vicino con tanto di piccolo castello e una rustica chiesetta di mattoni. Era molto vicino allo staff della Juventus e delle volte gli capitava di trascorrere la notte a casa di Stefano Merulla, il capo della divisione che si occupava della vendita biglietti.

In un certo senso era più vicino ai vertici della società sportiva che a quelli dei Drughi. Da quando era tornato in scena Pino Fridd n’Pitt, Bucci aveva l’impressione di venir spinto sempre più nelle retrovie del suo stesso gruppo. La sua parlantina e la sua socievolezza erano in netto contrasto con la presenza cupa e riservata di Pino, e Bucci si sentiva giudicato in continuazione. Gli sembrava che il suo posto nel gruppo, e la sua unica fonte di reddito, fossero a rischio. Ultimamente si vedevano in giro delle facce che non aveva mai visto prima – dei calabresi che all’improvviso sembravano al centro dell’azione – e talvolta, parlando al telefono con il suo contatto nei servizi segreti, Bucci provava sollievo perché poteva sfogarsi un po’. Da quando il suo matrimonio era naufragato, era la prima volta che qualcuno sembrava stare davvero a sentirlo.