Le origini degli ultrà
I gruppi ultrà esistevano molto tempo prima che il termine entrasse a far parte del vocabolario comune. Secondo la tradizione, il primo fra tutti fu la Fossa dei Leoni del Milan (nome che deriva dall’omonimo campo in cui si allenava la squadra). Fondato nel 1968, era nato – come il Commandos Tigre, un altro gruppo ultrà milanista – da uno dei club ufficiali dei tifosi del Milan. Anche allora, la tendenza a separarsi e formare nuove alleanze era frequente: nonostante entrambi i gruppi sostenessero la stessa squadra, ovvero l’ac Milan, erano divisi tra Tigri e Leoni.
Un anno dopo, nel 1969, vennero fondate altre organizzazioni: gli Ultras Tito Cucchiaroni della Sampdoria, i Commandos Fedelissimi del Torino, e i Boys (con l’epiteto di “furie nerazzurre”) dell’Inter. Anche i Commandos e i Boys erano nati dalle associazioni ufficiali della loro squadra. Il dibattito su quando la parola “ultrà” sia entrata a far parte del linguaggio comune è ancora aperto: la prima testimonianza del suo utilizzo risale al 1820, e venne usata per descrivere i conservatori monarchici nel periodo della restaurazione francese, anche se ai gruppi della Sampdoria piace credere di essere stati loro a inventare la parola “ultras”, come acronimo di uniti legneremo tutti i rossoblù a sangue. Nel 1970 ci fu una partita al cardiopalma tra Torino e Vicenza. Il Vicenza stava perdendo per 2 a 1 quando negli ultimi cinque minuti di gioco gli vennero assegnati due rigori che ne decretarono la vittoria. Dei tifosi del Toro inferociti seguirono l’arbitro fino all’aeroporto, distruggendo tutto ciò che gli capitava a tiro. Quando un giornalista li definì ultrà, il nome prese piede, e le teste calde del Commandos Fedelissimi decisero di cambiare nome in Maratona Club Torino Ultras Granata.
Da quell’episodio in poi, il termine sarebbe diventato di moda. Nel 1971, due adolescenti di Verona fondarono le Brigate Gialloblù. Nel 1972, Gennaro Montuori, soprannominato Palummella, creò il Commando Ultrà Curva B a Napoli. Nel 1973, nacque la Fossa dei Grifoni del Genoa e, nello stesso anno, anche il gruppo Ultras della Fiorentina.
All’inizio era difficile comprendere cosa fossero davvero questi gruppi. Sotto molti aspetti, si trattava soltanto di giovani che si erano separati dalle associazioni ufficiali di tifosi, il prodotto di un ulteriore scisma, ma ben presto fu chiaro che gli ultrà erano fatti di un’altra pasta. Stavano sulle gradinate alle spalle della porta, inventando nuovi cori e nuove coreografie, e facevano un tale casino che spesso gli altri tifosi sugli spalti si lamentavano. L’esuberanza sregolata dei tifosi britannici è sempre stata un loro punto di riferimento. Un tifoso dell’Inter di ritorno dall’Anfield di Liverpool disse che vedere tutte quelle sciarpe che sventolavano gli aveva fatto venire il mal di mare. E lo diceva come complimento, insinuando che i tifosi fossero agitati – e l’aggettivo non era certo usato con un’accezione negativa.
Nati all’inizio degli anni di piombo, un periodo caratterizzato da violenza politica e omicidi, gli ultrà si servirono del linguaggio e dell’immaginario della lotta armata. Dalla strage di piazza Fontana nel 1969, in cui rimasero uccise diciassette persone in una banca di Milano, il Paese era stato lacerato da una serie di massacri e uccisioni. Gli anni Settanta furono un decennio in cui le Brigate Rosse e altri gruppi terroristici assassinarono numerosi personaggi del mondo imprenditoriale, oltre a esponenti delle forze dell’ordine e della politica, azioni che portarono all’arresto di migliaia di attivisti di estrema sinistra. Nel frattempo, i gruppi sovversivi neofascisti fecero esplodere bombe che uccisero decine di persone e contribuirono ad aumentare i sospetti che delle forze di estrema destra stessero architettando dei colpi di stato. Molti gruppi ultrà della prima ora assunsero nomi come Brigate, Commando, Fedayn, Armata Rossa, Tupamaros, Vigilantes, Armata, Fronte, Falange e via discorrendo. Gli slogan delle curve adottarono il linguaggio proprio della lotta politica: “Meglio rosso che morto” (il contrario del solito slogan in funzione anticomunista) o “Boys [anziché fascisti] carogne tornate nelle fogne”. I gesti della curva scimmiottavano in maniera evidente quelli dell’insurrezione politica: il pugno sinistro alzato, il saluto romano o due dita e il pollice della mano destra alzati per simulare una pistola puntata in faccia alla classe borghese. Di frequente i passamontagna e le sciarpe tirate fin sotto agli occhi contribuivano a mantenere l’anonimato degli intimidatori.
A quell’epoca, quando cominciarono a muovere i primi passi, i gruppi ultrà rispecchiavano la violenza degli anni di piombo. Il sociologo Valerio Marchi, ormai scomparso, scrisse che il movimento era formato tanto da «persone che hanno sperimentato la violenza di massa in campo politico» quanto da «persone che hanno sperimentato la violenza per soddisfare i bisogni quotidiani». La brutalità che esprimevano i testi dei primi cori (che invocavano costantemente la morte del nemico) ricordavano molti dei canti, al grido di “sangue, sangue”, delle arene di epoca romana. «Noi siamo la Fossa dei Leoni», cantavano i tifosi del Milan. «Sangue. Violenza». I simboli innalzati contro i tifosi rivali – bare, scheletri, teschi e via dicendo – creavano l’illusione che la partita sarebbe stata una battaglia mortale. «Devi morire», era un coro molto diffuso. Molte squadre importanti, ovviamente, si affrontavano due volte nel corso del campionato (anche più di due, se si contano le coppe), cosicché i tifosi avessero abbastanza tempo per osservare gli ultrà rivali e invidiare le loro coreografie. La competizione tra squadre era diventata, secondo loro, una competizione tra curve per stabilire chi avesse il nome, i cori, gli striscioni, i fumogeni, i tamburi e i muscoli migliori di tutti.
Come tutte le sottoculture, gli ultrà adoravano fregiarsi del titolo di cattivi ragazzi. L’immagine che si erano creati era sia una visione parodistica che i commentatori benpensanti davano di loro, che un motivo di orgoglio, ogni volta che questi ultimi esprimevano il loro disprezzo nei confronti delle tifoserie, facendo una lista di tutti i motivi per cui il comportamento degli ultrà fosse considerato inaccettabile:
Gli ultrà sono il male», scrisse un ultrà, «sono il lato oscuro del calcio, l’orrenda oscenità della civilizzazione […] le fogne a cielo aperto degli stadi. L’icona della violenza cieca e irrazionale. Rappresentano il lato peggiore, se non l’unico male, del sistema calcistico che senza di loro sarebbe candido e immacolato come una vergine […] noi siamo dei teppisti, disadattati, figli di una società violenta e malsana. Noi siamo tutto ciò che non vorreste ci fosse, ma che continua la propria vita nel ghetto della violenza da stadio […] siamo ultrà e del resto non ce ne fotte un cazzo. Noi siamo gli ultrà e amiamo il tifo, il caos, la lotta, lo scontro e la violenza urbana.
Sotto molti aspetti, sembra che gli ultrà rifiutino di essere etichettati come i Letzter Mensch di Nietzsche, gli “ultimi uomini” dell’opera Così parlò Zarathustra. La figura del borghese apatico, pacifista e decadente è esattamente l’opposto dell’ideale a cui aspirano. In un mondo senza cuore e atonale, loro anelano all’azione. In Italia la vita viene spesso descritta come farraginosa, disordinata o confusa. Il termine deriva da “farro”, il pacciame usato come mangime per i bovini, e rappresenta il liquame fatto di compromessi e complicazioni burocratiche che creano inerzia. Gli ultrà – come i futuristi prima di loro – volevano trovare una via di fuga da quella palude stagnante. Come hanno sempre detto, si opponevano alla remissività di una vita agiata, erano ribelli che rifiutavano il compromesso, erano crociati che non traevano alcun beneficio dalla solitudine dell’esistenza moderna, che non offriva nessuna causa per cui battersi e nessuna lotta da intraprendere.
Ma allo stesso tempo, la curva era una parodia della violenza scatenata dai terroristi politici. Sembrava una satira son et lumière di quel mondo, un’imitazione adolescenziale della violenza. In fondo, non era un atteggiamento troppo diverso da quello dei ragazzini che si fingono grandi centravanti, quando in realtà passano le giornate a tirare due calci al pallone per strada. Paradossalmente, il mondo ultrà poteva davvero servire da rifugio dall’estremismo politico di quell’epoca. In questo contesto storico la ricostruzione folkloristica di una contrada medievale messa in scena dagli ultrà sembrava quasi innocente, tanto lontana dagli omicidi politici quanto lo è una pantomima dalla violenza domestica: correlata ma imitatoria, un avvertimento piuttosto che un’incitazione
Di fatto, uno dei princìpi cardine della fede ultrà era il divieto di portare la politica negli stadi. Le curve erano – e i paradossi in questo mondo non fanno altro che aumentare a dismisura – un luogo di estremismo politico ma anche di neutralità, di violenza ma anche di pace. Negli spazi sacri della curva bisognava appianare le divergenze. La fedeltà ai vari colori politici – immancabilmente rosso o nero, comunista o fascista – passava in secondo piano rispetto all’attaccamento ai colori della maglia. In questo modo, ad esempio, un ultrà di estrema sinistra come Pompa a Firenze (un omone che difenderebbe i suoi fratelli fino alla morte) potrebbe lavorare fianco a fianco con un ultrà di estrema destra, dal nome curiosamente simile, Pampa, perché per entrambi il colore viola della Fiorentina trascende tutti gli altri.
Inevitabilmente, il disprezzo che le frange estremiste di tifosi provavano per la società era reciproco. I primi gruppi di ultrà venivano descritti – con un linguaggio che si ripete anche a cinquant’anni di distanza – come un «ammasso di primitivi» o un’«orda», il risultato infernale di una deindividuazione in cui gli istinti collettivi e animaleschi prendono il sopravvento sulla ragione. Stanley Cohen, nel suo libro Folk Devils and Moral Panics, scrisse che i capri espiatori della società sono come «macchie del test di Rorschach su cui vengono proiettate le reazioni…». E lo stesso accadde agli ultrà, i cui comportamenti vennero interpretati secondo i pregiudizi del pensiero dominante. Per alcuni, l’ultrà sembrava l’homo sacer del ventesimo secolo, l’uomo maledetto che nella Roma antica veniva allontanato dalla società perché considerato talmente privo di valore da poter essere ucciso da chiunque senza timore. Le critiche di Alberto Arbasino rappresentano questo sentimento di repulsione, descrivendo una
folla spontanea, collettiva, violentissima e senza scopo […] mai visto un simile ludibrio […] mai vista una folla tanto numerosa e così fuori di sé. Ma il caos frenetico non presentava sfumature politiche e nemmeno un sospetto di divertimento o allegria; appariva solo un immenso sfogo biologico, come i cupi, disordinati carnevali mediterranei, come le tristi fiestas messicane, come gli apocalittici saturnali degli schiavi romani…
Il grande critico Umberto Eco si espresse con molta più sottigliezza, come suo solito. Si chiedeva se questi fuorilegge non fossero altro che dei teppistelli all’italiana (dispettosi, ma dal cuore grande) o più simili alla Banda Bassotti (i criminali dei fumetti di Paperino) «…gentaglia truffaldina, è vero, ma con una certa carica di folle genialità perché rubano, secondo le regole dell’espropriazione proletaria, al capitalista avaro e prepotente». Da quando è iniziato il fenomeno ultrà, ci si domanda se siano dei semplici furfanti o criminali incalliti, dei Robin Hood anticonformisti o soltanto dei delinquenti.
Gli ultrà avevano uno spirito così giovanile, con la loro energia e il loro temperamento incostante che sfuggivano a qualsiasi tentativo di categorizzazione. Valerio Marchi paragonò questo fenomeno alla storica sovversione dell’ordine sociale, dalla Festa dei folli (che incentivava i bagordi e l’umiltà in chiesa mentre gli ecclesiastici di rango inferiore prendevano il potere per un breve periodo) ai Charivari (in italiano “capramarito”, una processione plateale e simbolica) e ai Sotie (quando i buffoni si facevano dispensatori di saggezza).
All’inizio degli anni Settanta le curve avevano un’aria sorprendentemente inoffensiva, e sembravano più che altro una rappresentazione carnevalesca a buon mercato. Le coreografie venivano allestite con carta igienica e piatti di plastica, con del cartone, del nastro adesivo e delle lenzuola. Così come i giocatori degli anni Settanta avevano un aspetto leggermente più rude e risoluto, molto meno curato in confronto ai calciatori moderni, anche gli ultrà seguivano la stessa logica. La vernice veniva spennellata sugli striscioni senza preoccuparsi troppo del tipo di carattere usato (oggi esiste un font specifico chiamato Ultras Liberi). I tamburi erano ricavati da semplici barattoli di vernice. Un ultrà della Lazio ricorda che il primo tamburo che ebbero a disposizione non era altro che un fusto vuoto di detersivo Dash. Si utilizzava una bottiglia tagliata a mo’ di altoparlante. Per riprodurre l’effetto dei fumogeni spesso si usavano degli estintori rubati, poiché era molto più facile reperirli rispetto ai fumogeni nautici. Era un’epoca in cui il calcio era uno sport accessibile a tutti: un ultrà della Lazio racconta di quando un biglietto di ritorno per l’autobus da Bologna costava cinquecento lire, (l’equivalente di otto euro oggi). Anche per vedere una partita della Juventus il prezzo del biglietto degli spalti centrali era di trecento lire, ma nella maggior parte degli stadi era facile accedere senza pagare. Un ultrà dell’Ancora ricorda con gioia di quando «la capienza massima degli stadi era un concetto piuttosto relativo». Le squadre delle serie minori disponevano soltanto di una fila di posti, e gli ultrà erano soliti riunirsi in mezzo all’erba alta, mangiando semi di zucca e imparando cori nuovi.
Le trasferte erano anche meglio. Sentendosi protetti dal fatto che si spostavano sempre in gruppi numerosi, molti ultrà non si scomodavano neanche a pagare il biglietto del treno o a comprare del cibo. Si intrufolavano dentro un bar o un vagone, e mangiavano o viaggiavano senza prendersi il disturbo di pagare. I furti erano molto frequenti, ma gli oggetti rubati non erano come al solito auto o moto, si depredavano piuttosto i treni della carta igienica che serviva per le coreografie, o si svuotavano le cabine telefoniche delle monete, da tirare poi agli ultrà rivali. Li vedevi di fianco alle rotaie del treno mentre si riempivano le tasche di pietre, da usare per lo stesso scopo. Molti tornavano dalle partite fuori casa con le tasche ancora gonfie, questa volta di banconote prese chissà dove.
Era altrettanto importante fare ritorno con una bella storia da raccontare. Maggiore era la sfacciataggine con cui si era compiuto il furto, più intrigante era la storia. Gli ultrà del Torino amavano ricordare di quella volta che il loro compagno Margaro sgraffignò un orologio a Zurigo. Alla fine si rese conto di non avere la chiave per caricarlo così tornò al negozio per chiederne una, e per farselo incartare. Di solito i commessi dei negozi erano stanchi o semplicemente avevano così tanta paura degli irascibili ultrà che non osavano neanche sfidarli. Raramente i gruppi di tifosi si fermavano agli autogrill senza prenderli d’assalto e rubare tutto ciò che volevano. Anche le stazioni dei treni o quelle di servizio erano teatro di varie battaglie campali.
Una volta, Bebo, il fondatore della Vecchia Guardia del Bologna, chiamò gli ultrà «La spuma dei quartieri». Una descrizione che allude all’effervescenza del movimento, all’energia che ribolle e alla terra che emerge dagli spazi urbani meno sofisticati. I reati minori assumevano una connotazione edonistica, poiché le curve erano una sorta di zona franca dove tutto era permesso. Con la diffusione della cannabis in Europa, i giovani iniziarono inevitabilmente a farne uso, per poi cantare a squarciagola inebriati dai suoi effetti. In curva era possibile comprare da fumare e rollarsi una canna senza correre alcun rischio. C’erano spacciatori, borseggiatori e imprenditori. Faceva tutto parte dello spirito carnevalesco.
Se all’inizio degli anni Settanta ci si trovava in una delle famose curve delle squadre di Serie A, la nube creata dai fumogeni e dall’azione degli estintori offuscava la visione dei giocatori che facevano il loro ingresso in campo. I fazzoletti e i passamontagna indossati per coprire i volti servivano non tanto a dare un aspetto da tipi tosti in maschera, quanto a proteggersi dall’aria tossica e irrespirabile. Quando svaniva il fumo, si vedevano i colori delle squadre che sventolavano sulle federe e le lenzuola: rosso e blu (Genoa, Catania e Cosenza), granata (Torino), giallo e rosso (Roma), bianco e azzurro (Lazio) o bianco e nero, come la striscia del codice a barre, della Juventus.
Nei vecchi stadi giganteschi delle squadre di Serie A, con più di diecimila persone in una sola curva, sventolavano un centinaio di bandiere. Alcune non erano più grandi di un foglio A4, mentre altre misuravano sedici metri quadrati, le aste di plastica delle bandiere, larghe circa tre centimetri, si piegavano come ramoscelli ogni volta che gli enormi vessilli venivano agitati controvento per descrivere la figura di un otto. Migliaia di sciarpe ondeggiavano sopra le teste o venivano tenute in posizione orizzontale dalle spasmodiche braccia dei tifosi. Si sentiva il battere dei tamburi. Lo scopo primario degli ultrà, all’inizio, era quello di mettere in scena un grande show.
Le curve offrivano ai giovani un’alternativa al crimine organizzato. In un’epoca in cui le opportunità lavorative scarseggiavano, specialmente al Sud, la tentazione di guadagnare soldi facili tramite azioni criminali era costante. Nonostante Michele Spampinato, il fondatore dei Decisi del Catania, raccontasse di questo fenomeno negli anni Novanta, le tendenze da lui descritte trovarono riscontro in varie ricostruzioni di altri ultrà nei decenni precedenti. «…Ogni giorno si presentava l’occasione di venire reclutati da un clan mafioso per diventarne manovalanza», disse. «Non avevamo una lira in tasca e loro ti offrivano la possibilità di guadagnare una montagna di soldi. Spacciando droga, o facendo le vedette. Si cominciava così e poi chissà dove si poteva arrivare». Lungi dall’essere delle bande di quasi-criminali (definizione ormai ufficiale per gli ultrà), questi gruppi erano un’alternativa al crimine organizzato, forse l’unica alternativa per dei teppisti alla ricerca di cameratismo e nuovi stimoli.
Ma per quegli spettatori imborghesiti che guardavano dall’alto delle tribune, il fenomeno nascondeva un aspetto inquietante, che faceva pensare al Signore delle mosche. La prima analisi statistica condotta dai sociologi Alessandro Dal Lago e Roberto Moscati, indicò che il 57,2 percento degli ultrà aveva meno di ventun anni (e l’11,2 percento era di sesso femminile). Quando gli studiosi misero a confronto le loro ricerche con un altro studio dall’Università di Pisa, i numeri si rivelarono addirittura più alti: il 62 percento aveva meno di ventun anni e il 13 percento era di sesso femminile. Di frequente, i tifosi dai modi più raffinati esprimevano il loro disprezzo nei confronti delle gradinate cantando: «Curva fè schifo, fè un po’de tifo».
A cavallo fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta i figli cominciarono a ribellarsi ai padri, e quei ragazzi impazienti e arrabbiati erano gli stessi che ripudiavano la saggezza popolare dei loro genitori, tramandata di generazione in generazione. Non si sedevano più nella tranquilla tribuna ma si mescolavano al caos della curva in un simbolico atto di ribellione alla disciplina che gli era stata imposta. Con ogni probabilità la curva era l’unico posto in cui i ragazzi si sentivano ai vertici della scala sociale. Era uno spazio aperto e pubblico, dove potevano finalmente metterla in quel posto, in tutti i sensi, a quei vecchi pomposi che si prodigavano in monologhi interminabili sui tecnicismi del calcio, infarciti di un linguaggio noioso e accademico.
Ma proprio come accadeva in molte rivolte, era anche un bizzarro tentativo di emulazione: un grido di rabbia nei confronti di un padre a cui volevi dire: «Sono più appassionato di te; ed è così che si fa». Spesso, gli ultrà non rinunciavano al loro ruolo ancestrale ma lo reinventavano. Uno degli slogan più usati dai tifosi della Lazio era: “Di padre in figlio”, una frase che indicava che dopo la fedeltà nei confronti della famiglia, veniva quella nei confronti della maglia biancoceleste.
Gli ultrà assumevano spesso posizioni contrastanti. Così, all’interno di quel teatro pittoresco che è la curva, la fedeltà nei confronti della tradizione faceva da contraltare alla rivolta adolescenziale, una tacita violenza era un’occasione per allontanarsene, il disprezzo per il crimine organizzato lasciava spazio alla tolleranza per i reati minori, l’attaccamento al calcio si rifletteva nell’affetto provato per i compagni e il legame con la propria città si tramutava in invidia nei confronti di altre squadre o di altri paesi. Questi paradossi sono possibili grazie all’insieme variegato di personalità che popolano gli spalti. È evidente che la stragrande maggioranza delle curve siano degli ambienti inclusivi, in cui l’unico requisito per entrarne a far parte è l’amore per gli stessi colori. «Quando divento un tifoso», dice uno di loro, «nessuno mi chiede cosa faccio nella vita. Ho la sciarpa, la bandiera, lo striscione e tutto il resto non conta. Allo stadio vivi una situazione di gruppo, lo stare insieme, una socialità non gerarchica e quindi di uguaglianza che in giro non trovi da nessuna parte […] allo stadio questa sensazione di essere di troppo o fuori posto, invece, non ce l’hai mai». Di conseguenza, come scrisse Pierluigi Spagnolo nel suo libro I ribelli degli stadi,
nella curva di uno stadio ci si ritrova accanto il giovane neolaureato e il ragazzino che vive di espedienti, il dentista e il meccanico. L’insegnante del liceo e il disoccupato, il figlio del finanziere e quello del contrabbandiere, il salutista e il tossicodipendente. I rampolli delle famiglie bene e le nuove leve della malavita.
La cultura egalitaria di quel contesto era così radicata che Grinta (che in seguito avrebbe fondato gli Irriducibili) ricorda che le stesse persone che davano del lei a suo padre in ufficio, in curva si rivolgevano a lui chiamandolo per nome, dandogli del tu.
La varietà di individui riuniti sugli spalti si rifletteva nell’eterogeneità dei modi di vestire. Si dice che la divisa della ribellione sia fatta di ordine e uniformità. Ma forse proprio perché in Italia la moda è spesso omogenea, e tende a imitare all’istante e in maniera camaleontica le ultime tendenze, la rivoluzione stilistica dei tifosi – almeno durante gli anni Settanta – era incentrata sull’imprevedibilità. Non c’era soltanto uno stile, ce n’erano migliaia.
Le foto di quel decennio testimoniano un miscuglio di magliette della Wrangler e il logo tondeggiante a tre punte dell’Adidas, di berretti e di passamontagna, di parka e di giubbotti con le toppe della squadra, di basette e di capelli lunghi e teste rasate. Non esisteva una livrea in particolare a unire gli ultrà, e non c’era nulla nel loro modo di vestire che potesse lasciare a bocca aperta o terrorizzare i benpensanti. C’è una foto di Geppo – uno degli ultrà più idealisti, seppur sfortunati, della Roma – con i capelli lunghi, senza maglietta, con indosso una salopette di jeans. Ha un aspetto bonario, tutt’altro che minaccioso.
Era questo il lato romantico dell’ultrà: folle, bizzarro e incomprensibilmente variegato. «La curva era l’unico luogo in cui potevi essere te stesso», spiega un uomo di mezza età. «Ti sentivi padrone della tua vita, anche se solo per un istante». La rivoluzione consisteva nella capacità della curva di assimilare l’anima della strada. All’improvviso, continua l’uomo, «il tipo con le scarpe ortopediche che camminava zoppicando per la città gridava con quanto fiato aveva in gola… la ragazza sfortunata che era stata trattata male da tutti ora si sentiva protetta da un gruppo di mille amici». La curva divenne un luogo dove migliaia di uomini e donne affetti da malattie psichiatriche potevano trovare degli amici sinceri. Alla fine del 1978 gli individui che presentavano simili patologie erano sempre più numerosi in curva, a causa della chiusura dei manicomi. Ovviamente, alcuni malati mentali potevano rivelarsi utili durante le risse, e probabilmente qualcuno ancora si approfittava di loro. Molte curve esaltavano la loro follia e il loro status di esclusi dalla società. Esisteva persino un gruppo ultrà del Cremona chiamato Sanitarium e uno a Ragusa chiamato Manicomio. Le parole dell’ultrà della Roma, Geppo, contengono una solennità quasi biblica: «Io sono nelle strade, nelle proteste, nelle scuole, nella disoccupazione, nelle siringhe: io sono tra i rinnegati».
Molti antropologi parlano di riti coreografici attraverso i quali le società primitive reintegravano nella comunità un membro malato. Nel bacino del Mediterraneo, questo fenomeno era chiamato Menadismo o Tarantismo, e nelle culture afro-latine era conosciuto come Candomblé o Shango. Gli ultrà sono ossessionati dalle coreografie, ma forse la dimostrazione più importante di questo aspetto risiede in quell’istinto inconscio di accogliere le menti disturbate fra le loro fila, in mezzo a quella che una rivista di Cosenza chiamava in modo memorabile «mamma curva»: una madre che ti ama incondizionatamente. Durante i cori frenetici, furiosi e inebriati dalle droghe, durante i balli e le urla e gli abbracci, i reietti diventano parte della comunità. Uno degli slogan più famosi recitava: “Ultimi nella società, primi in curva!”.
Antonio Bongi decise che era giunto il momento di fondare un gruppo ultrà quando si recò al vecchio Stadio Comunale a Torino, e vide gli Ultras Granata che battevano incessantemente su dei timpani. Rimase affascinato dal frastuono, dall’energia e dal boato di voci distanti che cantavano all’unisono. Voleva creare qualcosa di simile per la Roma.
Antonio aveva vissuto per qualche anno fra la capitale e gli Stati uniti. Il suo vero nome era Anthony. Era nato a Santa Monica, in California, ed era il nipote di Herbert Stothart, il compositore hollywoodiano conosciuto per la colonna sonora del Mago di Oz e la canzone I wanna be loved by you, resa celebre da Marylin Monroe. Nella sua città natale, Firenze, suo padre, un architetto toscano, si era innamorato della figlia di Stothart, e la coppia si trasferì in California.
Anthony era il figlio maggiore. Crebbe parlando italiano e inglese. Non era mai stato sicuro di quali fossero le sue origini, e divenne incredibilmente bravo a imitare le persone intorno a lui, facendo gli accenti, imparando canzoni e scimmiottando gli adulti boriosi che incontrava. I suoi capelli e i suoi occhi scuri lo rendevano immediatamente riconoscibile in quelle foto di famiglia in cui tutti sembravano avere un’aria compiaciuta, sotto il sole della California alla fine degli anni Cinquanta.
Dall’età di sei anni cominciò a trascorrere più tempo a Roma, dove suo padre aveva trovato lavoro presso uno studio di architettura. Anthony diventò Antonio. Viveva nei quartieri benestanti della città, sulla via Cassia, dove la maggior parte dei suoi vicini tifavano Lazio. Ma Antonio era attaccato ai colori giallorossi della Roma. Lo stadio fu un modo per lui di integrarsi, di essere accettato come cittadino romano. Si ritrovò in un mondo in cui ci si affibbiava soprannomi per via del cognome, dei tratti del viso o delle abitudini. Un tizio con un orecchio mozzato veniva chiamato Er Tazzina. Un altro tracannava litri di bevande gassate e alla fine lo chiamarono Coca-Cola per il resto della vita. C’erano Roberto Rulli e Valerio Verbano, comunisti fino al midollo, ma anche personaggi dell’estrema destra, come Mario Corsi e Francesco Storace. Erano solo ragazzi, molti di loro provenienti dai quartieri malfamati di Roma Sud. Per ragioni demografiche (e per imitare i Boys dell’Inter) era giusto che il nuovo gruppo di Antonio Bongi si chiamasse Boys. Il loro nome per intero era Le furie giallorosse. Avevano dei posti riservati nella parte nord della curva e ai vari capi del gruppo venivano dati biglietti in omaggio dai dirigenti della società. La prima partita fuori casa a cui parteciparono venne giocata a Bologna, il 15 ottobre del 1972. Bongi, il leader, aveva solo quattordici anni e subito si ritrovò a dover difendere l’onore della sua squadra, la sua bandiera e le sue truppe. Era sempre un buon segno se la squadra vinceva la partita in cui tu esponevi lo striscione per la prima volta in terra straniera. E quel giorno la Roma vinse segnando tre gol. Nei primi anni Settanta, la Roma era sostenuta da molti altri gruppi ultrà simili ai Boys di Bongi: i Guerriglieri della Curva Sud, i Panthers, La fossa dei Lupi e i Fedayn.
In quegli anni la squadra si rivelava spesso una delusione. Nonostante fosse conosciuta come La magica, c’era chi la scherniva con il nomignolo Rometta. Aveva poche speranze di competere con le ricche società del Nord. L’unico scudetto vinto risaliva alla stagione 1941-42. La Roma aveva qualche giocatore decente ma non aveva abbastanza classe per vincere il campionato. Tra le riserve c’era un ventunenne Claudio Ranieri (divenuto poi un allenatore di fama internazionale), e un ragazzo alto e taciturno – centrocampista centrale – di nome Agostino Di Bartolomei che faceva il suo esordio in prima squadra. I risultati però, tardavano ad arrivare. In una partita di Coppa Anglo-Italiana nella primavera del 1973, la Roma fu battuta dal Newcastle United, dall’Oxford United e dal Blackpool.
La Lazio, eterna rivale della Roma, sembrava più vicina alla gloria sportiva. Nel 1971 la squadra aveva ingaggiato come allenatore Tommaso Maestrelli, che li aveva riportati in Serie A. Con i suoi capelli brizzolati e i modi affabili (era soprannominato il Maestro), era una figura paterna. Invitava i giocatori a casa sua per cena, ma sul piano tattico era un rivoluzionario. Fu uno dei primi esponenti del “calcio totale”, convincendo tutti i suoi giocatori – a eccezione dei due difensori centrali e del portiere – che avrebbero potuto assumere anche il ruolo di attaccanti. All’inizio degli anni Settanta, alcuni osservatori olandesi, che stavano elaborando tattiche simili, chiesero di poter assistere ai suoi allenamenti. L’aspetto più straordinario però era la sua riservatezza, dietro a cui si nascondeva una profonda integrità morale. Nel primo discorso che fece ai giocatori della Lazio, disse chiaramente: «Parlerò molto poco e quelle poche parole sembreranno molte […] Dobbiamo volerci bene ed evitare ogni fraintendimento. Credo che la fedeltà sia il più bel dono del mondo. Cresceremo insieme».
Queste sue caratteristiche avevano già portato Maestrelli sulla strada del successo. Nel 1965, in qualità di allenatore della Reggina, aveva contribuito alla promozione della squadra dalla Serie C alla Serie B, e cinque anni dopo aveva portato un modesto Foggia in Serie A. Nella stagione 1972-73, la Lazio era a due punti di distanza dalla prima in classifica. Come molti altri grandi allenatori, Maestrelli era riuscito a mettere insieme una squadra di calciatori che fino a quel momento erano stati oggetto di disprezzo o semplicemente ignorati: Mario Frustalupi per esempio, che aveva poco più di trent’anni, ed era stato scartato dall’Inter e veniva considerato dai critici come un giocatore ormai finito. Luciano Re Cecconi era un centrocampista dai capelli biondi ed era già stato allenato da Maestrelli al Foggia. Maestrelli portò con sé anche Renzo Garlaschelli, un attaccante che aveva segnato appena dodici reti in più di cento partite con squadre minori. Ma il protagonista era una punta centrale di alta statura cresciuto nel Galles: Giorgio Chinaglia.
La nuova elettrizzante visione del calcio di Maestrelli aveva impressionato i tifosi, e dalla metà degli anni Settanta si erano già formati vari gruppi ultrà: Tupamaros (in onore ai gruppi guerriglieri uruguayani), Vigilantes, Aquile, Ultras, Folgore, cast, Marines e il gruppo più numeroso, i Commandos Monteverde Lazio. Molti ultrà indossavano tenute da combattimento militari, in parte per darsi un’aria minacciosa ma anche perché in molti stadi italiani, così come nei bordelli, ai soldati veniva applicato uno sconto.
Anche l’arsenale di armi era spesso di tipo paramilitare. Uno dei giovani tifosi di quell’epoca ricorda il modo in cui gli ultrà si organizzavano per le trasferte:
…come se si partisse per le grandi manovre, vestiti con mimetiche, baschi da paracadutisti, scarponi militari, occhiali scuri e fazzoletti per coprire il viso. Con il bagagliaio del pullman che, oltre agli striscioni, conteneva sacche con manici di piccone, spranghe, catene, fionde a biglie di ferro. C’era anche chi si portava dietro delle pistole lanciarazzi e qualcuno delle volte si presentava addirittura con accette, coltelli o con pistole vere.
Durante gli iperpoliticizzati anni Settanta, la territorialità non era soltanto un romantico legame con la propria zona di appartenenza, ma implicava una vera e propria difesa contro nemici reali: alcune piazze della Capitale – piazza Euclide o piazzale delle Muse, nel cuore dei Parioli – erano note roccaforti di gruppi neofascisti, e di conseguenza, anche dei laziali. Anche l’abbigliamento faceva parte dell’ideologia politica. I tifosi della Lazio indossavano camperos della marca El Charro, stivali texani da cowboy alti fino al ginocchio, e dei lunghi loden austriaci di colore verde oppure dei bomber. Chiamavano gli esponenti dei partiti di sinistra (che avevano i capelli lunghi, indossavano magliette a scacchi, scarpe Converse e la kefiah) “zecche”. Avevano persino un loro repertorio musicale. Lucio Battisti era uno dei cantanti preferiti dai tifosi laziali, in parte perché la canzone La collina dei ciliegi conteneva la frase “Planando sopra boschi di braccia tese”, da cui si convinsero che l’autore avesse delle idee politiche simili alle loro.
Ogni curva plasmava e accoglieva i personaggi folkloristici che popolavano le domeniche pomeriggio allo stadio. La Lazio aveva Leonida, un tizio vestito da imperatore romano – con una tunica bianca e una corona d’alloro – che benediva gli spalti. Mentre Luciano era un personaggio che annunciava le formazioni, aggiungendo in maniera sarcastica la frase in latino ora pro nobis ai nomi dei giocatori avversari. C’era Goffredo Lucarelli, tracagnotto e intrattabile, meglio conosciuto come Er Tassinaro. Non riusciva a pronunciare le R e sembrava una parodia del burino romano. Si divertiva a fare scherzi agli amici, accendendo mortaretti tra le dita degli ultrà che si erano addormentati sul pullman.
Gli altri gruppi gli davano sempre la caccia, nella speranza di potergli impartire una sonora lezione. Una volta, durante una partita contro l’Inter, dovette nascondersi in infermeria e travestirsi da infermiere per uscire illeso dallo stadio. Gli fu revocata la licenza di tassista perché in seguito a un litigio aveva lasciato per strada un tifoso della Roma diretto all’aeroporto. Dopo questo episodio, ottenne lavoro come autista per un’agenzia di pompe funebri, e coglieva l’occasione per accettare qualsiasi tipo di incarico che gli consentisse di seguire la Lazio in trasferta per tutto il Paese. Una volta, mentre trasportava un feretro a Siracusa, parcheggiò il carro funebre fuori dallo stadio di Catania per guardare la partita. Quando gli venne chiesto di spostare il veicolo, si rifiutò replicando: «Sono solo un paio d’ore e poi questo qui mica c’ha fretta».
La Lazio andò vicina alla conquista dello scudetto 1972-73, e si temeva che nella stagione successiva non sarebbe più riuscita a ripetere una simile impresa. Ma la squadra di Maestrelli era famosa per essere tutto ciò che lui non rappresentava. Era una formazione di lottatori di strada, rozzi e ostinati, a cui non mancava quel guizzo di follia in più. Alcuni di loro si lanciavano dal paracadute da aerei militari. Il difensore Sergio Petrelli non sapeva neanche giocare a carte, ma fu in grado di convincere gli altri a unirsi a lui per sparare qualche colpo al poligono di tiro. Presto, metà della squadra aveva già afferrato le pistole, divertendosi a fare fuoco in mezzo ai boschi o nei parcheggi degli hotel. Una storia narra persino che due compagni di squadra, sdraiati sul letto della loro camera d’albergo, non riuscivano a decidere chi si sarebbe alzato per spegnere la luce. Siccome nessuno aveva intenzione di muoversi, alla fine uno dei due sfoderò la pistola e mandò in frantumi la lampadina.
Giorgio Chinaglia in campo svettava sul resto dei compagni per la sua altezza, ed era riconoscibile dalla capigliatura folta e dalle basette. Possedeva un fisico robusto, ma oltre a essere muscoloso era incredibilmente ostinato, ed era convinto che nessuno lo avrebbe fermato nella corsa verso la porta avversaria. Tirava i rigori con la stessa cattiveria con cui si calpesta il castello di sabbia di un bambino, preferendo la potenza e la velocità alla precisione. Una volta riuscì a segnare contro il Napoli mentre veniva strattonato da dietro. La maglietta era letteralmente ridotta a brandelli. Chinaglia realizzò parecchi gol in quel campionato, e sembrava avere una forza di volontà sovrumana. Durante una partita la palla arrivò nell’affollata area di rigore, Chinaglia irruppe sulla palla e su vari giocatori, lasciando gli avversari a terra e la palla in rete.
Era sempre l’allenatore, Maestrelli, a tenere il gruppo ben saldo. In una partita in casa contro il Verona, la Lazio perdeva per 2 a 1. Maestrelli bloccò la porta degli spogliatoi, non facendo entrare nessuno. Rimandò i giocatori in campo, perché convinto che la vergogna e l’imbarazzo che avrebbero provato a stare da soli sotto lo sguardo dei tifosi fino all’inizio del secondo tempo li avrebbe aiutati a schiarirsi le idee. Gli spettatori rimasero a dir poco perplessi, ignari di ciò che stava accadendo. Ma poi cominciarono a cantare ad alta voce e i calciatori rimasero immobili nelle loro posizioni, con lo sguardo furioso rivolto dritto davanti a sé. «Avevamo gli occhi iniettati di sangue», ricorda un giocatore della Lazio. Restarono lì, immobili, in attesa degli avversari, con una voglia disperata di ribaltare il risultato.
Dopo quattro minuti dal fischio dell’arbitro, riuscirono a pareggiare. Il gol successivo fu il più bello – un centrocampista corse dalla metà campo fino alla linea di fondo e fece un cross per Chinaglia. Non avendo proprio un tocco leggero, Chinaglia cercò di eseguire uno stop ma il pallone era arrivato all’altezza della vita. Così sollevò la gamba e la mise dentro di sinistro. L’immagine di quegli undici giocatori rimasti in campo durante l’intervallo divenne il simbolo di una squadra che rifiutava di arrendersi.
Nella penultima giornata di campionato la Lazio aveva la possibilità di vincere lo scudetto in casa contro il Foggia, ex squadra di Maestrelli e Re Cecconi. Nello stesso giorno si teneva il referendum per l’abrogazione della legge sul divorzio emanata nel 1970 (il 59,3 per cento degli italiani votò contro). Non fu una partita eccellente ma la Lazio vinse per 1 a 0, sempre grazie a un rigore di Chinaglia. Mentre la folla di tifosi invadeva il campo, Maestrelli si limitò ad abbassare la testa fra le mani.
Vincere lo scudetto quell’anno fu un’impresa straordinaria perché la Lazio era una squadra di anticonformisti e di diamanti grezzi che spesso non facevano che litigare. Nell’era del professionalismo estremo del calcio moderno, in cui ogni aspetto è reso sicuro e prevedibile, i tifosi guardano tutt’ora con sincero affetto a quella squadra di giocatori dall’aria così spavalda. Le divise di cotone troppo larghe e senza sponsor, i cartelloni pubblicitari di compensato, i capelli lunghi e la semplicità delle esultanze dopo il gol (un abbraccio di qualche secondo fra due o tre giocatori vicino alla porta) fanno sembrare quella stagione – insieme alle pistole, i paracadute e le notti in bianco a giocare a poker bevendo litri di whisky – solo il vago ricordo di un’epoca lontana.
Con il passare degli anni, quello scudetto divenne fonte di grande nostalgia per gli ultrà della Lazio. Il 1974, però, non passò alla storia come l’età dell’innocenza, ma come l’epoca in cui i giocatori erano spericolati, turbolenti e appassionati quanto gli ultrà. L’affinità unica tra le tifoserie e i giocatori della Lazio si cementò grazie alla figura di Chinaglia. Urlavano il suo nome in un coro preso in prestito dalla sezione giovanile del msi, perché faceva rima con “battaglia”. Chinaglia era soprannominato Long John e Er Tassinaro una volta disse che «Long John era per i laziali quello che il gigante Gulliver era per i Lillipuziani».