Cosenza, 18 novembre 1989

 

 

 

 

 

 

 

Durante la sua prima stagione di ritorno in Serie B, il Cosenza venne quasi promosso in Serie A, arrivando sesto in classifica. Gli ultrà ora erano sulla scena nazionale – andavano a Udine, Brescia e Genova – dovevano vedersela con gli odiati rivali del Catanzaro.

Quell’inverno Denis Bergamini si ruppe il perone in allenamento e rimase fermo per il resto del campionato. Il centrocampista sembrava più maturo in confronto a quando era giunto a Cosenza a soli ventidue anni, con i suoi capelli biondi e il suo aspetto innocente. Ora li portava con una sorta di mini mullet. Era ancora un bell’uomo, ma segnato dal passare del tempo.

Nell’estate del 1989 il club aveva ingaggiato Gigi Simoni come nuovo allenatore, e aveva investito in un attaccante calabrese chiamato Gigi Marulla, che sarebbe diventato una leggenda della squadra. C’erano grandi speranze che in questa stagione il Cosenza avrebbe raggiunto la terra promessa della Serie A. Ma dopo una decina di giornate la squadra si ritrovò penultima in classifica. I Lupi avevano riportato sette pareggi, quattro sconfitte e una sola vittoria. La loro partita successiva era in casa contro il Messina, e la squadra soggiornava al solito Motel Agip a Rende, nella periferia della città.

Durante gli allenamenti di quella mattina, Bergamini sembrava gasato. «Dobbiamo vincere», disse, incitando i suoi compagni. «Dobbiamo tirarci su da questa schifosa posizione in classifica». Ma era abbastanza di buon umore per fare uno scherzo a uno dei giocatori, tagliandogli la punta dei calzini di lana. Quando Simoni, l’allenatore, invitò tutti a casa sua per una grigliata dopo la partita, Bergamini disse che sarebbe stata una festa per la loro vittoria.

Dopo gli allenamenti di quella mattina Bergamini si allontanò in tutta fretta. Nessuno sapeva dove fosse andato. Tornò per pranzare con il resto del gruppo a mezzogiorno e mezza, poi andò a dormire nella camera che condivideva con Michele Padovano fino alle tre. Quando si svegliò, prese la sua Maserati e andò al Cinema Garden, dove aveva in programma di guardare un film con i suoi compagni di squadra. Durante la proiezione chiese al suo amico e massaggiatore dove fosse il bagno e si alzò dal suo posto.

Nonostante fosse sempre stato una persona spensierata, Bergamini sembrava appesantito dalle preoccupazioni. Il suo infortunio a gennaio non aveva migliorato la situazione. Era la prima volta che la sua carriera subiva un arresto, ed essendo una persona che coltivava pochi interessi al di fuori del calcio, si sentiva comprensibilmente annoiato. Era anche pensieroso: aveva portato la sua compagna di allora, con cui aveva una relazione tira e molla, a Londra per abortire, ed era preoccupato che la famiglia tradizionalista della ragazza si sarebbe infuriata se l’avesse scoperto.

Ma c’era qualcosa nel suo comportamento che la sua famiglia non capiva. Quell’estate Bergamini era sul punto di firmare un contratto con il Parma, città molto più vicina a casa sua, in Emilia Romagna. L’accordo sembrava concluso, ma ricevette una chiamata dalla Calabria e all’improvviso dovette cancellare tutto. La sua famiglia aveva l’impressione che ricevesse delle pressioni misteriose dal Sud, come se lo stessero controllando. «Ho pensato perfino che fosse ricattato», disse suo padre qualche anno dopo.

Il lunedì prima della partita contro il Messina, Bergamini ricevette un’altra chiamata a casa dei suoi genitori che lo fece sudare e arrossire. Bergamini confessò a una sua ex ragazza che qualcuno a Cosenza voleva fargli del male. Quando la donna non lo prese sul serio lui si arrabbiò molto: fu l’unica volta che accadde con lei. Il venerdì pomeriggio precedente alla partita, il giocatore si trovava nella sua stanza d’albergo, quando arrivò un’altra chiamata che lo spaventò. Secondo quanto raccontato dal suo compagno di stanza Michele Padovano, Denis era «preoccupatissimo, era impaurito».

È probabile che Bergamini stesse piano piano imparando quanto potesse essere sporco il gioco del calcio. Come disse una volta lo stesso Padovano (che avrebbe continuato la sua carriera nella Juventus per poi finire in carcere per questioni estranee al calcio) «nel calcio il più pulito ha la rogna». È molto probabile che Bergamini incassasse una parte del suo stipendio in contanti. Aveva comprato una Maserati, pagata molti più soldi di quanti ne possedesse in banca, ma nessuno ne era rimasto sorpreso. Negli anni Ottanta, nell’oscuro mondo del calcio calabrese, il contante era la principale forma di valuta esistente.

Le partite truccate avevano sempre afflitto il calcio italiano e per i cinici sembrava bizzarro che una squadra che l’anno precedente si era esibita così bene ora stesse perdendo così tante partite nonostante rinforzi come Marulla e il recupero di Berga. Anni dopo un giocatore ammise che le partite erano state comprate. Furono coinvolti solo pochi giocatori, ma Bergamini era, secondo quanto riportato, esasperato per il loro comportamento e capeggiava quelli contrari alla truffa, urlando contro i suoi compagni durante le partite e rimproverandoli, presumibilmente, negli spogliatoi. Il padre di Bergamini rimase talmente disgustato da ciò che vide nell’ultima partita giocata dal figlio – il Cosenza pareggiò 1 a 1 con il Monza – che non volle più guardare un solo match della squadra. «Questa è l’ultima volta che vengo a vedere il Cosenza perché avete giocato un’altra partita vergognosa», disse a suo figlio. Emerse una teoria che giovani donne fossero state spinte a far amicizia con i calciatori, offrendo loro divertimenti carnali e soldi e in cambio loro avrebbero condizionato il risultato. Era una teoria sordida ma non sembrava improbabile.

La sera prima della partita con il Messina, Bergamini – normalmente sempre il più puntuale della squadra – non arrivò in hotel in tempo per la cena. Alle sette e mezza, quando tutti si erano già seduti a tavola, arrivò una chiamata per Gigi Simoni. All’inizio l’addetto alla reception non interruppe la cena, come stabilito, ma il telefono squillò di nuovo. Dall’altro lato della cornetta c’era una ragazza chiamata Isabella. Disse che era la fidanzata di Bergamini e che Denis si era appena suicidato gettandosi sotto un camion. L’allenatore pensò si trattasse di uno scherzo di pessimo gusto, così la ragazza passò il telefono a un uomo «con una voce sommessa» che confermò la storia.

La versione del suicidio non reggeva. La famiglia di Denis era convinta che si trattasse di omicidio. «Me lo sentivo», disse suo padre, «lo hanno ammazzato». Neanche il resto della squadra credeva a questa ricostruzione. Il compagno di stanza, e migliore amico, di Denis disse le stesse parole al padre. «Lo hanno ammazzato», disse Michele Padovano. «Non c’è altra spiegazione logica».

Isabella Internò – la giovane con cui Bergamini aveva intrattenuto una passionale relazione tira e molla – affermò che Denis era stanco di giocare a calcio e voleva fuggire in Amazzonia o alle Hawaii. Ecco perché stavano andando al porto di Taranto. Ma Bergamini non aveva il passaporto e i suoi presunti istinti suicidi non corrispondevano alla determinazione che aveva mostrato quella mattina durante l’allenamento. Durante la sua ultima intervista aveva addirittura dichiarato: «Amo la vita».

Internò aveva asserito che lei e Bergamini avevano avuto una lunga conversazione sull’altopiano fangoso a lato della strada principale, e che si era lanciato davanti a un camion in corsa come se «si stesse tuffando in piscina». Il suo corpo fu apparentemente trascinato per diversi metri prima che il camion frenasse.

Padre Fedele, in qualità di cappellano non ufficiale della squadra, andò all’obitorio. Portò con sé Canaletta, che ricorda bene la sensazione di shock alla vista dell’eroico centrocampista del Cosenza steso sullo zinco. Non fu tanto il corpo del defunto a suscitare sconcerto, quanto lo stato in cui versava la salma. «Avevano detto che era stato trascinato per settanta metri sull’asfalto da un furgone», ricorda Canaletta, «eppure aveva il viso pulito, senza un graffio». Non c’erano segni né abrasioni sul corpo di Bergamini. Il suo orologio era rimasto intatto, così come la sua catenina. Neanche le sue scarpe mostravano segni dell’impatto o tracce di fango. «Non abbiamo mai avuto il dubbio che si trattasse di omicidio», dice Canaletta. Neanche la famiglia di Bergamini. «Nessuno», mi dice sua sorella, Donata Bergamini, «ha mai creduto a quella versione dei fatti».

Per gli ultrà quello fu un lutto senza precedenti. In passato i tifosi di molte squadre avevano pianto per la morte dei loro giocatori, ma raramente si erano trovati a lottare, insieme alla famiglia dello sportivo, per provare che la vittima era stata uccisa. E proprio il fatto che si trattasse di Bergamini rendeva il dolore ancora più acuto. Durante la sua convalescenza dall’infortunio era spesso sugli spalti con gli ultrà, godendosi il loro caos ribelle.

«Furono proprio loro», dice Donata, «sin da subito dopo l’uccisione di mio fratello a continuare a gridare il suo nome e sventolare una bandiera con sopra il suo viso. Avevano tanta rabbia dentro per ciò che avevano fatto a Denis».

«Qualcosa è cambiato il giorno in cui hanno fatto fuori Denis», mi disse un ultrà. «La nostra fiducia nella favola del calcio era finita. Ci era stato strappato qualcosa che amavamo, non solo Denis, ma anche la convinzione che quello che vedevamo, quello che ci veniva detto, fosse in qualche modo affidabile». Essere un ultrà aveva sempre significato non accettare tutte le cazzate che ti venivano imposte dall’alto, e per la curva del Cosenza, così tenace «quello fu il momento in cui, come gruppo di centinaia di persone, ci rendemmo conto che eravamo stati ingannati. Puzzava».

Con il passare delle settimane, la storia del suicidio cominciò a sollevare parecchi quesiti. È emerso da testimonianze successive che prima della morte di Bergamini Isabella Internò aveva incontrato il giocatore Francesco Marino, e che lo aveva chiamato subito dopo l’accaduto. Non fornì mai spiegazioni su quella telefonata. La ragazza aveva una relazione con un poliziotto, che in seguito sposò. Altri ipotizzano che ci fossero delle correlazioni tra alcuni dirigenti della società e i membri della criminalità organizzata, visto che uno dei vertici del club aveva sposato la sorella di un boss mafioso.

Poi, alla fine di quella stagione cupa, accadde qualcosa che – per i complottisti ultrà – confermò i sospetti che le prove fossero state insabbiate. Due uomini che occupavano posizioni umili all’interno della società – dei faccendieri che davano una mano con le magliette, organizzavano gli spostamenti e le prenotazioni – contattarono la famiglia Bergamini. Uno di loro, Domenico Corrente, consegnò le scarpe del giocatore al padre di Denis, probabilmente credendo di compiere un gesto umano dato che i vestiti del defunto calciatore erano stati cremati, o forse, per far notare alla famiglia quanto fosse improbabile la storia del suicidio. L’altro faccendiere, Alfredo Rende, promise al padre di Bergamini che alla fine della stagione sarebbe andato a parlare con lui per dargli ulteriori informazioni sulla morte di suo figlio.

Dopo l’ultima partita di quel fatidico campionato del 1989-90 – a Trieste (un altro zero a zero che sollevava qualche sospetto dal momento che entrambe le squadre avevano bisogno di un solo punto per salvarsi) – Corrente e Rende erano di ritorno a Cosenza a bordo di un’Alfa 75. Erano quasi a Cosenza quando, dopo aver guidato per novecentocinquanta chilometri, furono coinvolti in un incidente. Avvenne nello stesso tratto di strada dove era morto Bergamini, sulla statale 106 Jonica. La macchina era finita sulla corsia opposta ed era stata presa in pieno da un camion. Entrambi morirono sul colpo.